Gary Jennings IL VIAGGIATORE
Rizzoli, Milano. Prima edizione: ottobre 1984. PRIMO VOLUME. Traduzione di Bruno Oddera. Copyright © 1984 Gary Jennings. Copyright © 1984 Rizzoli Editore, Milano. Titolo originale dell'opera: "The Journeyer".
Tutti coloro che hanno letto e apprezzato "L'azteco", l'altro celebre romanzo di Gary Jennings, Premio Bancarella, saranno attratti anche da questo nuovo, straordinario exploit narrativo: "Il viaggiatore". Come già nell'"Azteco", anche nel "Viaggiatore" domina la figura centrale del protagonista, personaggio eccezionale: là era Mixtli, un sopravvissuto della civiltà azteca che ne rievocava la grandezza, qui è addirittura Marco Polo. Ma un Marco, inventato dalla fantasia di Jennings, che ci racconta gli episodi straordinari e audaci, le avventure ribalde che aveva omesso dal suo libro, "Il Milione". Jennings immagina che il grande viaggiatore veneziano, giunto ormai al termine della sua lunga e movimentata esistenza, decida di colmare la lacuna e di raccontare veramente tutto dei suoi viaggi: dalle intime esperienze amorose alle inedite e spericolate imprese compiute durante i viaggi favolosi in Oriente in compagnia del padre e dello zio. Nel corso di due decenni e più di vagabondare per il mondo conosciuto e sconosciuto, di volta in volta Marco fu un mercante, un guerriero, un uomo ripetutamente innamorato e un amante appassionato, uno studioso dei costumi, un informatore segreto, perfino un esattore delle imposte per conto del Khan di tutti i Khan, imperatore dei Mongoli, Qubilai. Partito quasi fanciullo Marco ritorna a Venezia ventiquattro anni dopo, addoloratissimo a causa della morte di una donna che ha amato più di ogni altra, HuiSheng; tuttavia ciò non gli impedisce di sposare una bella veneziana, la 'damina' Donata Loredan, da cui avrà tre figlie. Ormai non più giovane, Marco trascorre una vecchiaia serena, anche se immalinconita dal desiderio inappagato di tornare, una volta di più, nelle 'azzurre lontananze' della sconfinata vastità del mondo. Con le inesauribili doti di maliziosa fantasia che i suoi lettori ben conoscono, Gary Jennings ha ricreato, nelle pagine di questo poderoso romanzo, un altro eroe da leggenda, sempre attratto dalla 'bellezza del pericolo e dal pericolo della bellezza', un nuovo Ulisse di tempi più moderni, che esplora, combatte, ama, soffre, sullo sfondo ora fastosamente esotico, ora pittoresco, ora primitivo, ora tragico e macabro e orripilante, dei luoghi meno conosciuti della terra: dall'Asia medievale fino alla remota Khanbaliq (Pechino), dalle giungle inesplorate dei tropici, con le loro genti selvagge, al Mare del Catai. Un romanzo indimenticabile. Gary Jennings, prima di scrivere "Il viaggiatore", ha seguito lo stesso itinerario di Marco Polo, da Venezia, attraverso il Medio Oriente, fino alla Cina, all'Asia sud-orientale e all'Indonesia, viaggiando a piedi e a cavallo, su cammelli ed elefanti, su giunche e su zattere costruite, per attraversare torrenti impetuosi, con pelli di capra gonfiate. Ed è andato incontro, nel corso di questo viaggio, ad avventure degne del suo personaggio: è stato arrestato in Turchia, fatto segno di colpi d'arma da fuoco nel Triangolo d'Oro, travolto da una valanga nel Karakorum, e si è unito a una banda di contrabbandieri nell'Afghanistan. Attualmente si trova in Europa, a fare incetta di altre esperienze per un nuovo romanzo.
INDICE GENERALE.
PRIMO VOLUME. Premessa. Venezia. Il Levante. Bagdad. Il Grande Sale. SECONDO VOLUME. Balkh. Il Tetto del Mondo. Il Kithai. Khanbaliq. To-Bhot. TERZO VOLUME. Lo Yun-Nan. Xan-Du. Di nuovo Khanbaliq. Il Mangi. Il Champa. L'India. In Patria.
a Glenda
"Quando Marco Polo giaceva sul letto di morte, il suo confessore, gli amici e i parenti lì riuniti lo esortarono a smentire, infine, le innumerevoli menzogne da lui riferite come vere avventure, affinché l'anima sua potesse salire in Cielo mondata dal peccato. Il vecchio si sollevò sui guanciali, li maledisse tutti e dichiarò: «Non ho narrato neppure la metà di quel che ho veduto e fatto!»" COSI' RIFERISCE FRA JACOPO D'ACQUI, CONTEMPORANEO E PRIMO BIOGRAFO DI MARCO POLO.
CY APRES COMMENCE LE LIURE DE MESSIRE MARC PAULE DES DIUERSES ET GRANDISMES
MERUEILLES DU MONDE Avvicinatevi, grandi principi! Avvicinatevi, imperatori e re, duchi e marchesi, cavalieri e borghesi! Venite, voi di ogni condizione sociale, che volete conoscere i tanti aspetti del genere umano e la diversità del mondo intero! Prendete questo libro e leggetelo, o fatevelo leggere. Poiché in esso troverete tutte le più grandi meraviglie e le più mirabili curiosità...
Ah, Luigi, Luigi! Nell'ampollosità di queste pagine ingiallite, logore e spiegazzate mi par di riudire la tua stessa voce. Da molti anni non avevo più riletto il nostro libro, ma quando mi pervenne la tua lettera ripresi a sfogliarlo. Posso ancora sorriderne e ammirarlo al contempo. L'ammirazione è dovuta al fatto che mi rese famoso, per quanto poco io possa meritare tale fama, e il sorriso è causato dal fatto che mi rese famigerato. Ora mi dici che ti proponi di scrivere un altro libro, un poema epico, questa volta, di nuovo includendovi le avventure di Marco Polo - qualora io voglia consentirlo - ma attribuendole a un protagonista immaginario. Torno, nei ricordi, al nostro primo incontro, nelle segrete di quel palazzo di Genova ove noi prigionieri di guerra eravamo rinchiusi. Rammento con quanta diffidenza tu mi avvicinasti, e con quale reticenza mi rivolgesti la parola: «Messer Marco, sono Luigi Rustichello da Pisa, e mi trovo qui imprigionato già da molto tempo prima che voi arrivaste. Vi ho udito narrare l'episodio esilarante e ribaldo dell'indù il cui "ahem" rimase incastrato nel foro della sacra rocca. Per tre volte, ormai, vi ho ascoltato mentre lo riferivate. Una ai compagni di prigionia, un'altra al carceriere e ancora, una terza volta, all'elemosiniere della Confraternita della Giustizia, venuto qui in visita.» Ti domandai: «Vi siete stancato di ascoltarlo, Messere?» E tu rispondesti: «Niente affatto, Messere, ma voi vi stancherete presto di narrarlo. Molte altre persone vorranno ascoltare quel racconto, così come tutti gli altri episodi che avete descritto e ogni altro che forse ancora non avete rievocato. Prima che vi stanchiate di narrare, o prima che vi vengano ad uggia gli episodi stessi, perché non vi limitate a riferire a "me" tutto ciò che rammentate dei vostri viaggi e delle vostre avventure? Riferitemi i ricordi una volta sola, lasciando a me il compito di metterli sulla carta. Ho una certa facilità nello scrivere e posso vantare molta esperienza. Dai vostri racconti si potrebbe ricavare un libro notevole, Messer Marco, e innumerevoli persone sarebbero in grado di leggerlo.» Così io feci, così tu facesti, e così hanno fatto le moltitudini. Sebbene molti altri viaggiatori prima di me avessero descritto i loro vagabondaggi, nessuna di quelle opere ottenne mai l'immediata e continua popolarità della nostra "Descrizione del mondo". Forse, Luigi, questo accadde perché tu decidesti di tradurre le mie parole in francese, la lingua occidentale più ampiamente nota. O forse tu, scrivendoli, rendesti i miei racconti più interessanti di quanto potessi renderli io narrandoli. In ogni modo, non senza stupore da parte mia, il nostro libro fu letto da molti e molti ne parlarono e lo cercarono. Venne copiato e ricopiato; è ormai stato tradotto in ogni lingua della Cristianità, e anche di queste versioni innumerevoli copie sono state eseguite e hanno circolato. Ma nessuna di esse narra il singolare episodio del tormentato indù e del suo stupro di una roccia. Quando io mi trovavo in quell'umida prigione di Genova e narravo le mie reminiscenze, e tu le trasponevi nelle parole adatte, decidemmo che dovevano essere narrate "soltanto" nei termini più castigati. Tu dovevi tener conto della tua reputazione, mentre io dovevo tutelare il nome della mia famiglia. Tu eri il Rustichello da Pisa, ed io ero un Polo di Venezia. In te tutti conoscevano il "romancier courtois", già noto per avere trascritto i classici racconti della cavalleria - le storie di Tristano e Isotta, di Lancillotto e Ginevra, di Amys e Amyllion. Quanto a me, come tu mi descrivesti nel libro, rappresentavo i «"sajes et nobles citaiens de Venice"». Ci accordammo
pertanto nel senso che le pagine del libro avrebbero contenuto soltanto quelle, delle mie avventure e osservazioni, che potevamo pubblicare senza rossori e senza rimorsi, e che sarebbero potute essere lette senza offendere la sensibilità cristiana, sia pure quella delle vergini e delle monache. Decidemmo inoltre di escludere dal libro tutto ciò che potesse porre a dura prova la credulità di ogni lettore sedentario. Rammento che addirittura discutemmo prima di includere quanto avevo veduto della pietra che brucia e del tessuto che non brucia. Così, molti degli episodi più meravigliosi dei miei viaggi rimasero, per così dire, abbandonati lungo il cammino. Omettemmo tutto ciò che era incredibile o ribaldo o scandaloso. Ma ora, tu mi dici, vuoi colmare queste lacune anche se pur sempre senza mettere minimamente a repentaglio il mio buon nome. E così il tuo nuovo protagonista avrà nome Monsieur Bauduin, non Messer Marco, e partirà da Cherbourg, non da Venezia. Ma, sotto ogni altro aspetto, sarà me stesso. Sperimenterà, godrà e sopporterà tutto ciò che io ho sperimentato, goduto e sopportato - "e" tutto ciò che fino ad oggi ho taciuto - purché io rinfreschi la tua memoria narrandoti di nuovo quei tanti episodi. E' senz'altro, per me, una grande tentazione. Sarebbe come rivivere quei giorni - e quelle notti - ed è questa una cosa che da tempo desidero fare. Ho sempre avuto l'intenzione, lo sai, di ripartire verso l'Estremo Oriente. Ma no, non è possibile che tu lo sappia. Non ho mai parlato di questo, nemmeno nell'ambito della mia famiglia. E' sempre stato un sogno che mi era troppo caro perché potessi condividerlo con altri... Sì, intendevo ripartire, prima o poi. Ma, quando venni liberato a Genova e tornai a Venezia, gli interessi della famiglia richiesero la mia attenzione, e così esitai a rimettermi in viaggio. E poi conobbi Donata, ed ella divenne mia moglie. Pertanto esitai di nuovo, per qualche tempo, e in seguito mi nacque una figlia. Questo, naturalmente, mi rese ancor più esitante. Poi le figlie diventarono due e in ultimo tre. Così, per una ragione o per l'altra continuai a titubare e all'improvviso, un giorno, mi accorsi di essere vecchio. Vecchio! Sembra inconcepibile! Quando sfoglio il nostro libro, Luigi, mi vedo in esso ragazzo, quindi adolescente, e infine nella maturità, ma anche al termine del libro continuo a essere vigoroso. Invece, adesso, se mi guardo allo specchio, vi scorgo un vecchio sconosciuto, svuotato dell'energia e incurvato, minato e indebolito dalla ruggine corrosiva di sessantacinque anni. Mormoro allora: «"Questo" rudere non può partire per un nuovo viaggio», e in quel momento mi rendo conto che il vecchio è Marco Polo. Sicché la tua lettera mi è pervenuta in un momento vulnerabile. E la proposta che mi fai di collaborare a un nuovo libro è un'occasione che non mi lascerò sfuggire. Se non mi è più possibile fare le cose che facevo un tempo, posso almeno ricordarle e ricavarne piacere mentre le riferisco, in quanto ciò mi sarà ora consentito grazie all'impunità della tua maschera a nome Bauduin. Potrà meravigliarti il fatto che io gradisca tale mascheramento, così come potrà lasciarti interdetto quanto ho scritto a proposito della fama immeritata assicuratami dal libro precedente. Chiarirò il mio pensiero. Non ho mai preteso di essere stato il primo uomo a viaggiare dall'Occidente al lontano Oriente, né tu hai mai scritto una simile vanteria nel nostro libro. Ciò nonostante, sembra che sia stata questa l'impressione riportata da quasi tutti i lettori - o da quei lettori che non risiedevano a Venezia, ove nessuna illusione di tal genere è possibile. In fine dei conti, mio padre e mio zio, entrambi veneziani, si erano recati in Oriente e ne avevano fatto ritorno prima di ripetere il viaggio e di condurmi quest'altra volta con loro. Inoltre, nello stesso Oriente io incontrai numerosi altri occidentali, di tutte le nazioni, dall'Inghilterra all'Ungheria, che vi erano giunti prima di me, e alcuni dei quali vi si trattennero più a lungo di me. Ma, prima di loro, molti altri europei avevano percorso la stessa Via della Seta seguita da me. Vi fu il rabbino spagnolo Beniamino di Tudela, vi furono il frate francescano Giovanni da Pian del Càrpine e il frate fiammingo Guglielmo di Rubruck - e, come me, costoro pubblicarono resoconti dei loro viaggi. Sin da settecento anni or sono, missionari della chiesa cristiana nestoriana penetrarono nel Catai, e molti di loro vi stanno operando anche oggi. Prima ancora dell'era cristiana,
mercanti dell'Occidente dovettero recarsi in Oriente e tornarne. E' noto che i faraoni dell'antico Egitto indossavano le sete dell'Oriente, e la seta è menzionata tre volte nell'Antico Testamento. Varie altre cose, con le parole che le definiscono, entrarono, molto prima dei miei tempi, a far parte del nostro dialetto veneto. Numerosi palazzi della nostra città sono decorati, all'interno e all'esterno, con quel genere di fantasiose filigrane che adottammo dagli arabi e che, da lungo tempo, vengono denominate arabeschi. Il micidiale «sassìn» prende il nome degli "Hashshashin" della Persia, uomini che uccidono istigati da un fervore religioso indotto dalla droga hashish. Il modo di produrre quel tessuto lucido chiamato indiana venne imparato in India, ove esso ha nome "chint" e ove la gente del posto suggerì altresì il modo di dire veneziano «far l'indiàn», che significa fare i finti tonti, ed è ormai di uso comune. No, non fui io il primo a recarmi in Oriente, o a tornare di laggiù. Se la mia fama poggia sul falso convincimento che così sia avvenuto, è davvero immeritata. Ma la mia brutta nomea è ancor meno meritata, in quanto dipende dalla diffusa convinzione che io sia disonesto e insincero. Tu ed io, Luigi, scrivemmo nel nostro libro soltanto di quelle osservazioni e di quelle esperienze che ritenevamo credibili, eppure io non vengo creduto. Qui a Venezia mi chiamano con scherno Marco Milioni - un epiteto che implica non soltanto un'abbondanza di ducati, ma il mio supposto cumulo di menzogne e di esagerazioni. Questo mi diverte più di quanto mi infastidisca, ma mia moglie e le mie figliole sono quanto mai esasperate essendo note come Donna e Damine Milioni. Ecco perché sono disposto a mettermi la maschera del tuo immaginario Bauduin mentre comincio a dire tutto ciò che, fino ad ora, non è stato detto. Il mondo, se così vuole, ritenga pure che si tratta soltanto di una finzione. E' preferibile non essere creduti, in queste cose, che tacerle per sempre. Ma anzitutto, Luigi: Dalle poche pagine del manoscritto accluso alla tua lettera, per dimostrarmi come ti proponi di iniziare la storia di Bauduin, posso dedurre che la tua padronanza del francese è considerevolmente migliorata da quando ti accingesti a scrivere la nostra "Descrizione del mondo". Ciò mi incoraggia a fare un altro piccolo commento su quel primo libro. Chi legge quelle pagine potrebbe pensare che Marco Polo sia stato un uomo di età matura e di maturo giudizio durante l'intero periodo dei suoi viaggi - e che, in qualche modo, egli abbia viaggiato alto nel cielo, tanto in alto nell'aria da poter vedere in una volta sola l'intera vastità del nostro mondo, così da indicare prima l'uno e poi l'altro paese, e da poter dire, con sicurezza: «Ecco in che cosa l'uno differisce dall'altro.» E' vero, avevo quarant'anni quando tornai in patria dai miei viaggi. Tornai, spero, con un po' più di saggezza e dì discernimento di quando partii, poiché allora non ero altro che un adolescente dagli occhi spalancati e avidi - ignorante, inesperto, stolto. Inoltre, come ogni viaggiatore, dovevo vedere tutti i paesi, e quel che vi si trovava, non già con il vantaggio del senno di poi di circa venticinque anni dopo, ma nell'ordine con il quale giunsi in essi durante i miei viaggi. Fu gentile e lusinghiero da parte tua, Luigi, descrivermi, in quel precedente libro, come se fossi sempre stato un uomo onniveggente e onnisciente, ma il tuo nuovo lavoro potrebbe avvantaggiarsi se tu facessi del suo narratore qualcosa di più simile alla vita reale. Ti consiglierei inoltre, Luigi, se davvero ti proponi di modellare il tuo Monsieur Bauduin su Marco Polo, di iniziare la descrizione della sua carriera attribuendogli una gioventù mal spesa, di noncurante abbandono e di comportamento indecoroso. E' questa una cosa che dico qui per la prima volta. Non me ne andai da Venezia soltanto perché ero avido di nuovi orizzonti. Lasciai Venezia perché dovevo andarmene - o, in ogni caso, perché Venezia aveva decretato che dovessi andarmene. Naturalmente non posso sapere, Luigi, "fino a qual punto" tu vuoi rendere la storia del tuo Bauduin parallela alla mia. Ma mi hai detto «racconta tutto», e pertanto comincerò ancor prima dell'inizio.
VENEZIA.
1. Sebbene la famiglia Polo sia stata veneziana, e orgogliosa di esserlo, da forse trecento anni ormai, essa non ebbe origine in questa penisola italiana, ma sull'altra sponda del Mare Adriatico. Sì, noi venimmo dalla Dalmazia, e il nostro cognome doveva essere allora qualcosa come Pavlo. Il primo dei miei antenati a salpare verso Venezia e a stabilirvisi, prese questa decisione a un certo momento dopo l'anno 1000. Lui e i suoi discendenti dovettero affermarsi alquanto rapidamente a Venezia, poiché, già nell'anno 1094, un Domenico Polo faceva parte del Gran Consiglio della Repubblica, e, il secolo seguente, ne fece parte anche un Piero Polo. Il più remoto antenato del quale abbia un sia pur vago ricordo è mio nonno Andrea. Ai suoi tempi, ogni uomo del nostro casato dei Polo veniva ufficialmente designato come un «Ene Aca» (vale a dire N. H., che a Venezia significa Nobilis Homo, o gentiluomo; tutti si rivolgevano loro chiamandoli Messere, e inoltre avevano uno stemma di famiglia: tre uccelli di colore nero, dal becco di colore rosso, in campo argento. E' questo, in realtà, un giuoco di parole visivo, poiché quel nostro emblematico uccello è la sfacciata e industriosa taccola, chiamata, nel dialetto veneziano, pola. Nonno Andrea ebbe tre figli: mio zio Marco, dal quale ereditai il nome di battesimo, mio padre Niccolò e mio zio Maffeo. Che cosa fecero quando erano ragazzi non lo so; ma, nell'età adulta, il maggiore, Marco, divenne l'agente dei mercanti Polo, a Costantinopoli, nell'Impero Latino, mentre i fratelli di lui rimasero a Venezia per dirigere gli affari e conservare il palazzo della famiglia. Soltanto dopo la morte di nonno Andrea, Niccolò e Maffeo divennero smaniosi di viaggiare essi stessi, ma allorché si decisero, si spinsero più lontano di quanto fosse mai giunto prima di allora ogni altro Polo. Nell'anno 1259, quando salparono da Venezia, io ero un bimbetto di cinque anni. Il babbo aveva detto a mia madre che lui e Maffeo si proponevano di recarsi soltanto fino a Costantinopoli, per fare visita al fratello maggiore da tempo assente. Ma, come in seguito quell'altro fratello comunicò a mia madre, i due, dopo essere rimasti con lui per qualche tempo, si misero in mente di proseguire a est. Ella non ricevette più alcuna notizia da loro e, dopo dodici mesi, decise che dovevano essere periti. Non si trattava soltanto delle fantasticherie di una donna abbandonata e addolorata; era invece la più giustificata delle supposizioni. Proprio in quell'anno 1259, infatti, i barbari Mongoli, dopo aver conquistato ogni altro paese del mondo orientale, spinsero la loro avanzata implacabile fino alle porte stesse di Costantinopoli. Mentre ogni altro bianco fuggiva o tremava dinanzi all'«Orda d'oro», Maffeo e Niccolò Polo si erano spinti temerariamente al di là della linea avanzata degli invasori - o, tenuto conto di come venivano considerati allora i Mongoli, sarebbe preferibile dire: nelle loro sbavanti e azzannanti mascelle. Avevamo validi motivi per ritenere che i Mongoli fossero dei mostri, non è forse vero? Erano qualcosa di più e qualcosa di meno che esseri umani, non è forse così? Qualcosa di più per la loro abilità nel combattere e per la resistenza fisica. Qualcosa di meno a causa della loro barbarie e della brama di sangue. Sapevano tutti che il loro vitto quotidiano consisteva in fetida carne cruda e nel latte acido delle giumente. Era risaputo, inoltre, che quando un esercito Mongolo rimaneva a corto di questi viveri, sceglieva senza alcuna esitazione un uomo su dieci tra le proprie file e massacrava le vittime allo scopo di distribuirle agli altri come cibo. Era risaputo che ogni guerriero Mongolo portava una corazza di cuoio soltanto sul petto e non sulla schiena; per cui, se anche fosse stato vinto da una codarda paura, non gli sarebbe stato possibile voltarsi e sottrarsi con la fuga al nemico. Era risaputo che i Mongoli lucidavano le loro corazze di cuoio con il grasso e che si procuravano il grasso facendo bollire vittime umane. A Venezia tutte queste cose erano note e venivano riferite e ripetute in toni sommessi di orrore; e alcune di tali cose rispondevano persino alla verità. Io avevo appena cinque anni quando mio padre partì, ma potevo condividere il terrore universale di quei selvaggi dell'Oriente, in quanto mi era già familiare una minaccia: «Ti prenderanno i Mongoli! Le orde ti divoreranno!» Avevo udito questo ritornello durante tutti gli anni dell'infanzia, come ogni
altro bimbetto quando doveva essere ammonito. «Ti prenderà l'orda se non mangi tutto quel che devi mangiare. Se non vai subito a coricarti. Se non la smetti di fare baccano.» L'orda veniva sfruttata dalle madri e dalle nutrici, a quei tempi, così come in passato avevano minacciato i bambini ribelli dicendo: «Ti mangerà l'orco!» L'orco è quel gigante demoniaco che madri e bambinaie hanno sempre tenuto a loro disposizione, e pertanto era stato facile per loro sostituirlo con la parola orda. E l'orda dei Mongoli costituiva senza alcun dubbio un mostro più reale e più credibile; le donne, invocandola, non dovevano simulare lo spavento nella voce. Il fatto stesso che conoscessero questa parola dimostrava come avessero motivo di paventare i Mongoli quanto qualsiasi bimbetto. Si trattava, infatti, di un termine mongolo, "yurtu", che in origine aveva significato la grande tenda a padiglione di ogni capo degli accampamenti dei Mongoli; ed era stato adottato, con una lieve modifica, da tutte le lingue europee, per riferirsi a ciò cui pensavano gli europei alludendo ai Mongoli - una marmaglia in marcia, una massa brulicante, uno sciame irresistibile, un'orda. Io, però, non udii più questa minaccia sulle labbra di mia madre. Non appena si persuase che il babbo era morto, ella cominciò a languire, a deperire e a indebolirsi. Morì quando avevo sette anni. Conservo un solo ricordo di lei, che risale ad alcuni mesi prima della sua morte. L'ultima volta in cui ella si azzardò a uscire dalla nostra Casa Polo, prima di mettersi a letto e di non alzarsi mai più, lo fece per accompagnarmi il primo giorno di scuola. E invero, sebbene quel giorno risalga a un altro secolo, a quasi sessant'anni fa, lo ricordo con estrema chiarezza. A quei tempi, Ca' Polo era un palazzetto nel confino di San Felice della città. Splendeva la luminosa ora mattutina della mezza terza quando mia madre ed io passammo dalla soglia di casa alla viuzza acciottolata lungo il canale. Il nostro anziano barcaiolo, il nero schiavo nubiano Micèl, ci aspettava con il batèlo ormeggiato al palo a striature, e la barca era stata appena lucidata a cera per l'occasione, per cui scintillava con tutti i suoi colori. Mia madre ed io vi salimmo e ci mettemmo a sedere sotto la tenda. Sempre per quella grande occasione, io indossavo un vestito nuovo e splendido: una tunica di seta marrone di Lucca, rammento, e brache dalla suola di cuoio. Per cui, il vecchio Micèl, portandoci a remi lungo lo stretto Rio San Felice, seguitò a esclamare frasi come «Che zentilomo!» e «Xestu ti, Missier Marco?» - intendendo «Che gentiluomo!» e «Sei tu, padroncino Marco?»; questa inconsueta ammirazione mi fece sentire fiero di me e al contempo a disagio. Egli non desistette finché non ebbe voltato il batèlo nel Canal Grande, ove il gran traffico di imbarcazioni richiedeva tutta la sua attenzione. Era una delle giornate più stupende che si possano godere a Venezia. Il sole splendeva, ma illuminava la città con una luce diffusa, più che abbagliante. Non v'era nebbia sul mare né la bruma gravava sulla terraferma, poiché il chiarore solare non veniva affatto sminuito. Piuttosto, il sole sembrava splendere non già con raggi diretti, ma con una luminosità più sottile, come ardono le candele quando vengono collocate su lumiere dai molteplici cristalli. Chiunque conosca Venezia, ha veduto quella luce: come se perle fossero state macinate e ridotte in polvere - perle color perla, e quelle di un color rosa tenue e quelle di un color celeste chiaro - ridotte ad una polvere talmente impalpabile che le sue particelle rimanevano sospese nell'aria, non già attenuando la luce, bensì rendendola più lustra e al contempo morbida. E la luce non veniva soltanto dal cielo. La riflettevano le acque danzanti dei canali, per cui variegature e lustrini e medaglioni di quella luminosità fatta di polvere di perle danzavano ovunque sulle superfici di legno stagionato e di mattoni e di pietre, ammorbidendo anche la loro ruvidità. Quella giornata era rivestita da una soave peluria, come la peluria vellutata di una pesca. La nostra imbarcazione scivolò sotto il Ponte di Rialto. Passammo poi accanto all'Erbarìa, il mercato ove i giovani, dopo una notte di libagioni, vanno a passeggiare nelle prime ore del mattino per schiarirsi la mente con le fragranze dei fiori, delle erbe e della frutta. Abbandonammo quindi il Canal Grande per seguirne un altro, più stretto. Poco più avanti, in questo canale, mia madre ed io sbarcammo nel Campo San Todaro. Intorno a questa piazza si trovano tutte le scuole inferiori della città e a quell'ora essa brulicava di ragazzi di ogni età che giocavano, correvano, cicalavano, facevano la lotta, in attesa che cominciasse il primo giorno di scuola.
Mia madre mi presentò al maestro, consegnandogli inoltre i documenti relativi alla mia nascita e alla mia registrazione nel Libro d'Oro. (Così viene comunemente denominato il Registro del Protocollo nel quale la Repubblica tiene nota di tutte le famiglie degli «Ene Aca».) Fra Varisto, un uomo assai gagliardo e arcigno, dalle vesti voluminose, non parve affatto colpito da quei documenti. Li esaminò e sbuffò, esclamando un termine non molto compito con il quale si designa uno slavo o un dalmata. Mia madre ribatté arricciando il naso da gran signora e mormorando «Veneziàn nassùo e spuà.» «Veneziano concepito e nato a Venezia, forse» borbottò il frate. «Ma non "educato" a Venezia, non ancora. Non potrà esserlo finché non avrà compiuto gli opportuni studi e non sarà stato temprato dalla disciplina della scuola.» Prese una penna d'oca e ne strofinò la punta sulla pelle lucida della tonsura, allo scopo di lubrificarla, presumo, poi la intinse nel calamaio e aprì un librone enorme. «Data della cresima?» domandò. «Della prima comunione?» Mia madre glielo disse e soggiunse, con una certa altezzosità, che a me, come accadeva invece nel caso di quasi tutti gli altri bambini, non era stato consentito di dimenticare il catechismo subito dopo essere stato cresimato, ma che sapevo recitarlo ancora, al pari del Credo e di tutti i Comandamenti, con la stessa disinvoltura con cui recitavo il Padre Nostro. Il frate grugnì, ma non scrisse altre annotazioni sul suo grosso libro. La mamma continuò poi, ponendogli a sua volta alcune domande: a proposito del programma scolastico e degli esami, dei premi assegnati per il profitto, delle punizioni inflitte a chi non studiava e... Suppongo che tutte le madri conducano i loro figli a scuola per la prima volta con un considerevole orgoglio, ma anche, ritengo, con altrettanta diffidenza, e persino con tristezza, in quanto affidano la loro progenie a un regno misterioso nel quale non potranno mai entrare. Quasi nessuna donna, infatti, a meno che non sia destinata agli ordini sacri, riceve la benché minima istruzione. E così i figlioletti, non appena imparano anche soltanto a scrivere il proprio nome, entrano in qualche altra sfera e divengono irraggiungibili. Fra Varisto spiegò pazientemente a mia madre che avrei imparato a servirmi in modo corretto della mia lingua, nonché del francese commerciale; che mi sarebbe stato insegnato a leggere, a scrivere e a far di calcolo, nonché almeno i primi rudimenti del latino dal "Timen" di Donadello, oltre ai rudimenti della storia e della cosmografia dal "Libro di Alessandro", scritto da Callistene, e della religione, dagli episodi della Bibbia. Tuttavia mia madre insistette, ponendo un così gran numero di altre ansiose domande, che il frate esclamò in ultimo, con un tono di voce nel quale si frammischiavano la compassione e l'esasperazione: «Dona e Madona, il bambino è stato semplicemente iscritto a scuola. Non va in clausura. Lo terremo rinchiuso soltanto durante le ore del giorno. Voi continuerete ad averlo vicino per tutto il santo resto del tempo.» Ella continuò ad avermi per il resto della sua vita, ma si trattò di un periodo breve. E così, in seguito, la minaccia «ti prenderanno i Mongoli se...» la udii soltanto da Fra Varisto, a scuola, e dall'anziana Zulià, a casa. Zulià era una donna in realtà slava, nata in qualche angolo sperduto della Boemia, e ovviamente di origine contadina, poiché camminava sempre come una lavandaia che dondoli con un secchio colmo di panni appena lavati penzolante da ciascuna mano. Dopo la morte di mia madre, Zulià ne prese il posto come nutrice e guida e assunse il titolo di cortesia di «Zia». Addossandosi il compito di allevarmi in modo che divenissi un giovane onesto e responsabile, Zia Zulià non si dimostrò molto severa - a parte i frequenti accenni all'orda - ma, devo confessarlo, i suoi tentativi non ebbero molto successo. Questo accadde, in parte, perché il mio omonimo, lo zio Marco non aveva fatto ritorno a Venezia dopo la scomparsa dei due fratelli. Da troppo tempo si era sistemato a Costantinopoli e vi si trovava bene, anche se ormai l'Impero Latino era stato sopraffatto da quello Bizantino. Da quando l'altro mio zio e il babbo avevano affidato gli affari della famiglia a impiegati esperti e degni di fiducia, e il palazzo dei Polo a domestici altrettanto efficienti, zio Marco non era mai intervenuto per modificare la situazione. Soltanto le questioni più importanti, ma meno urgenti, venivano
demandate a lui, mediante corrieri che viaggiavano per mare, affinché le esaminasse e decidesse. Dirette in questo modo, sia la Compagnia Polo, sia Ca' Polo, tiravano avanti bene come sempre. L'unica proprietà Polo che desse da pensare ero io stesso. Essendo l'ultimo e unico figlio maschio della casata dei Polo - il solo che esistesse a Venezia, per lo meno - dovevo essere teneramente protetto, e lo sapevo. Sebbene non fossi in età da poter intervenire nella direzione sia degli affari, sia della casa (per fortuna), non dovevo neppure rispondere delle mie azioni a una qualsiasi autorità adulta. In casa pretendevo di fare a modo mio, e vi riuscivo. Né Zia Zulià, né il maggiordomo, l'anziano Attilio, né alcuno degli altri servitori, osavano alzare la mano su di me, e di rado alzavano anche soltanto la voce. Non recitai mai più il Catechismo e ben presto dimenticai tutte le risposte. A scuola cominciai a evitare di fare i compiti e di studiare le lezioni. Quando Fra Varisto, rinunciando all'inutile minaccia dei Mongoli, cominciò a ricorrere a una bacchetta, evitai, semplicemente, di tornarvi. E' alquanto miracoloso il fatto che fossi riuscito a imparare qualcosa. Ma rimasi a scuola quanto bastava per saper leggere, scrivere e far di calcolo e parlare il francese dei mercanti, soprattutto perché sapevo che queste nozioni mi sarebbero state necessarie quando fossi cresciuto abbastanza per assumere la direzione degli affari della famiglia. Imparai inoltre la storia del mondo come è descritta da "Il libro di Alessandro". Assorbii queste nozioni soprattutto perché i viaggi di conquista del grande Alessandro lo avevano portato verso l'Oriente, ed io immaginavo che il babbo e lo zio avessero percorso alcune delle stesse piste. Ma ritenevo assai poco probabile che potesse mai essermi utile la conoscenza del latino, e quando la mia classe venne costretta ad affondare il naso collettivo nelle noiose regole e nei precetti del "Timen", io puntai il naso altrove. Anche se gli adulti si lagnavano a gran voce e mi predicevano un destino spaventoso, io non ritenevo in realtà di essere un discolo a causa della mia caparbietà. Il difetto più grave che avessi era la curiosità, ma, naturalmente, questo è un difetto soltanto in base ai nostri criteri occidentali. La tradizione pretende che ci comportiamo nello stesso modo dei nostri vicini e dei nostri pari. La Santa Chiesa esige che crediamo e abbiamo la fede, che soffochiamo qualsiasi dubbio o qualsiasi parere suggeriti dalla ragione. La filosofia mercantile veneziana decreta che le sole verità palpabili sono quelle risultanti sull'ultima riga del registro dei conti, ove debiti e crediti devono assolutamente essere in pari. Ma un qualcosa nella mia indole si ribellava contro le restrizioni accettate da tutti gli altri della mia età, della mia classe sociale e nella mia situazione. Volevo vivere una vita sottratta alle regole, alle righe del registro dei conti e alle parole scritte nel Messale. La saggezza che mi insegnavano mi spazientiva, e forse ne diffidavo: quei frammenti di informazioni, quelle esortazioni così accuratamente selezionate e cucinate e servite come i piatti di un pasto, per essere consumate e assimilate. Preferivo di gran lunga andare a caccia di conoscenze a modo mio, anche se, come accadeva spesso, le trovavo crude, e sgradevoli al gusto masticandole e nauseanti da inghiottire. I tutori e i precettori mi accusavano di evitare con pigrizia la dura fatica necessaria per farsi una cultura. Non si resero mai conto che io avevo deciso di seguire un cammino di gran lunga più arduo, e che lo avrei seguito - ovunque avesse potuto condurmi - sin da quegli anni della fanciullezza e per tutti gli anni della virilità. Nei giorni in cui marinavo la scuola, e non mi era possibile tornare a casa, dovevo necessariamente ingannare il tempo altrove, e così a volte bighellonavo aggirandomi intorno alla sede della Compagnia Polo. Era situata allora, come adesso, sulla Riva Ca' de Dio, che dà direttamente sulla laguna. Dalla parte dell'acqua essa è delimitata da pontili di legno, tra i quali si trovano navi e imbarcazioni ormeggiate e affiancate. Vi sono là vascelli di dimensioni piccole e medie: i batèli e le gondole private, il cui pescaggio è minimo, i bragozi per la pesca e quei salotti galleggianti denominati burchielli. Vi sono poi le assai più grandi galere di lungo cabotaggio e le galeazze di Venezia, inframmezzate da piccoli pescherecci inglesi e fiamminghi, da trabaccoli slavi e da caicchi levantini. Molti di questi vascelli oceanici sono talmente enormi che i loro dritti di prora e i loro alberi di bompresso sovrastano la strada, proiettando sull'acciottolato ombre a traliccio sin quasi agli edifici variegati che si allineano lungo la Riva dalla parte di terra. Uno di questi edifici era (ed è
tuttora) nostro: un cavernoso magazzino all'interno del quale un piccolo spazio era stato isolato mediante pareti per servire da ufficio. Mi piaceva, il magazzino. Emanava gli aromi di tutti i paesi del mondo, poiché vi si ammonticchiavano e vi si accatastavano sacchi e casse e barili e balle di tutto ciò che questa nostra terra produce, ovunque, dalla cera della Barbaria e dalla lana inglese allo zucchero di Alessandria e alle sardine di Marsiglia. I facchini che lavoravano nel magazzino erano uomini dai muscoli massicci, festonati con martelli, ganci, rotoli di corda e altri attrezzi. Lavoravano ininterrottamente, uno di loro per avvolgere magari nella juta una partita di pentolame della Cornovaglia, un altro per martellare il coperchio su un barile d'olio d'oliva della Catalogna, un altro ancora per trasportare a spalla sui pontili una cassa di sapone di Valenza. Ma mi piaceva anche l'ufficio per la contabilità. In quell'angusto sgabuzzino sedeva l'uomo che dirigeva tutto quel trambusto e quell'attività, l'anziano impiegato Isidoro Friuli. Senza affaticare apparentemente alcun muscolo, senza correre qua e là né alzare la voce, senza altri attrezzi all'infuori dell'abaco, di una penna d'oca e dei suoi registri, Maestro Doro controllava quell'incrocio ove transitavano tutte le mercanzie del mondo. Con un ticchettio sommesso delle palline dell'abaco dai colori diversi e con parole scribacchiate in una colonna del registro, egli spediva a Bruges un'anfora di vino rosso della Corsica e in cambio, nella Corsica, un rotolo di pizzi della Fiandra. E, mentre queste mercanzie si incrociavano nel nostro magazzino, egli si versava la metà di una misura del vino e tagliava la lunghezza di un braccio del pizzo quale compenso ai Polo. Poiché gran parte delle merci contenute nel magazzino erano infiammabili, Isidoro non si consentiva l'ausilio di una lampada, o anche soltanto di una singola candela per illuminare lo stanzino in cui lavorava. Aveva invece appeso alla parete dietro di sé, un po' più in su del proprio capo, un grande specchio concavo, fatto di vero vetro, che raccoglieva il più possibile la luce del giorno all'esterno e la concentrava sul suo alto tavolo. Seduto davanti ai suoi registri, Maestro Doro sembrava un santo molto piccolo e raggrinzito, dall'aureola enorme. In piedi, io sbirciavo al di sopra dell'orlo di quel tavolo e mi meravigliava il fatto che un semplice guizzo delle dita di Doro potesse esercitare tanta autorità, ed egli mi spiegava particolari del suo lavoro, che tanto lo inorgogliva. «Furon quei pagani degli Arabi, ragazzo mio, a dare al mondo questi segni incurvati che rappresentano i numeri, e questo abaco per fare i conti. Ma fu Venezia a dare al mondo questo sistema per "tenere" i conti - i registri con le pagine contrapposte per la partita doppia. A sinistra, i debiti. A destra, i crediti.» Additai un'annotazione sulla sinistra: «a nome di Messer Domeneddio» e domandai chi fosse quel Messere. «Come, non riconosci il nome con il quale Nostro Signore conclude gli affari?» Sfogliò le pagine del registro per mostrarmene il primo foglio con la grande scritta tracciata in inchiostro: «In nome di Dio e del Profitto.» «Noi meri mortali possiamo aver cura delle nostre mercanzie quando si trovano al sicuro in questo magazzino» spiegò. «Ma quando escono di qui sui fragili scafi che navigano i mari tempestosi, si trovano alla mercé di... di chi altri, se non di Dio? Pertanto Lo consideriamo un socio in ogni nostra iniziativa commerciale. Nei registri gli vengono assegnate due intere parti di ogni transazione rischiosa. E se la transazione riesce, se il carico giunge intatto a destinazione e ci rende l'utile che prevedevamo, allora quelle due parti vengono accreditate sul conto di Messer Domeneddio, e, alla fine di ogni anno, quando i dividendi vengono distribuiti, versiamo a Lui quanto gli spetta. O meglio al Suo rappresentante e agente, nella persona della Santa Madre Chiesa. Ogni mercante cristiano si regola nello stesso modo.» Se tutti i giorni che sottrassi alla scuola li avessi trascorsi dedicandomi a conversazioni così illuminanti, nessuno avrebbe potuto lagnarsi. Probabilmente mi sarei fatto un'istruzione migliore di quella che avrebbe potuto impartirmi Fra Varisto. Ma, inevitabilmente, bighellonare lungo i pontili mi metteva in contatto con persone meno ammirevoli del contabile Isidoro. Non intendo dire che la Riva sia, sotto ogni aspetto, una strada dei bassifondi. Sebbene brulichi di facchini, marinai e pescatori in ogni ora del giorno, vi si incontrano altrettanti mercanti e sensali e
altri uomini d'affari ben vestiti, accompagnati non di rado dalle loro distinte consorti. La Riva è inoltre il luogo ove passeggiano, anche una volta scesa l'oscurità, nelle sere di bel tempo, uomini e donne del gran mondo, venuti soltanto per fare quattro passi e godersi la brezza della laguna. Ciò nonostante, tra queste persone, sia di giorno, sia di notte, si celano gli zotici, i tagliaborse, le prostitute e altri esemplari della feccia che noi chiamiamo el popolazo. Vi si trovavano, ad esempio, i monelli nei quali mi imbattei un pomeriggio sul lato della Riva ove si susseguono i pontili; e uno di loro si presentò lanciandomi addosso addirittura un pesce.
2. Non era un pesce molto grosso né il monello era molto alto e robusto. Aveva press'a poco la mia stessa corporatura e la mia età; e neppure il pesce mi fece alcun male colpendomi tra le scapole. Ma lasciò un odoraccio sulla mia tunica di seta di Lucca, e questa, ovviamente, era stata l'intenzione del ragazzo, in quanto lo coprivano stracci già puzzolenti di pesce. Saltellò qua e là, additandomi allegramente e canticchiando una presa in giro: "Un ducato, un ducatòn! Bùtelo... bùtelo... zo per el cavròn!" Questo è soltanto un frammento di quella tiritera infantile che dovrebbe essere intonata mentre si giuoca alla lippa, ma lui aveva sostituito l'ultima parola con un'altra che, pur non conoscendone allora il significato esatto, sapevo essere il peggiore insulto lanciato da un uomo a un suo simile. Non ero un uomo, né lo era lui, ma ovviamente veniva posto in dubbio il mio onore. Interruppi la sua danza beffarda facendomi sotto e colpendolo in pieno viso con il pugno. Dal naso gli sgorgò sangue di un rosso vivido. Un attimo dopo fui scaraventato a terra sotto il peso di altri quattro bricconcelli. Il mio aggressore non si era aggirato solo lungo i pontili, né era il solo a mal sopportare i vestiti che Zia Zulià mi faceva indossare nei giorni di scuola. Per qualche tempo la nostra lotta fece vibrare le assi di un pontile. Numerosi passanti si soffermarono per guardarci e alcuni dei più villani gridarono incitamenti come «Cavategli gli occhi!» e «Prendilo a calci nelle palle, l'accattone!» Io mi battevo coraggiosamente, ma potevo colpire soltanto un ragazzo alla volta, mentre gli altri mi coprivano di pugni tutti e cinque. Di lì a non molto rimasi senza fiato e con le braccia inchiodate. Immobile, mi lasciai semplicemente percuotere e lavorare come pasta per il pane. «Lasciate che si rialzi!» disse una voce all'esterno del groviglio che formavano. Era soltanto una voce acuta e in falsetto, ma forte e imperiosa. I cinque ragazzi smisero di martellarmi con i pugni e, uno dopo l'altro, sia pure con riluttanza, mi si tolsero di dosso. Anche quando mi ritrovai libero, dovetti ugualmente rimanere disteso là per qualche tempo e riprendere fiato prima di riuscire a rimettermi in piedi. Gli altri ragazzi stavano spostando il proprio peso ora su un nudo piede ora sull'altro e osservavano torvi la persona che aveva parlato. Rimasi sorpreso constatando che avevano ubbidito soltanto a una bimbetta. Era coperta di stracci e maleodorante quanto loro, ma più piccoletta e più giovane di tutti e cinque. Indossava il vestito corto, attillato e simile a un tubo che portano tutte le bambine a Venezia fino all'età di dodici anni circa - ma dovrei dire piuttosto che indossava i resti di uno di quei vestitucci. Il suo era talmente lacero che ella sarebbe stata indecentemente nuda se non fosse per il fatto che quanto si vedeva del corpo di lei aveva lo stesso colore grigio sporco degli stracci. Forse ella esercitava una certa autorità a causa del fatto che - unica tra questi monelli - calzava un paio di zoccoli di legno. La ragazzetta si avvicinò a me e, maternamente, cercò di spazzar via la polvere dal vestito che non era ormai molto diverso dal suo. Mi disse inoltre di essere la sorella del ragazzo il cui naso avevo fatto sanguinare.
«La mamma ha raccomandato a Boldo di non picchiarsi mai» mormorò, e soggiunse: «Papà poi gli dice sempre di battersi da solo, senza farsi aiutare dagli altri.» Io dissi, ansimante: «Vorrei che avesse dato retta a uno dei due.» «Mia sorella è una bugiarda! Non abbiamo né madre né padre!» «Be', se li avessimo è così che ti direbbero. E ora raccatta quel pesce, Boldo. E' stato abbastanza difficile rubarlo.» Rivolta a me, la ragazzetta soggiunse: «Come ti chiami? Lui è Ubaldo Tagiabue e io sono Doris.» Tagiabue significa «fatto come un bue», ed io avevo imparato a scuola che Doris era la figlia del dio pagano Oceanus. Ma questa Doris era troppo miseramente scarna per meritare un nome simile, e di gran lunga troppo sudicia per poter somigliare a una qualsiasi dea delle acque. Tuttavia assunse un atteggiamento imperioso come quello del toro e fermo come quello di una dea mentre osservavamo suo fratello che, remissivo, andava a raccattare il pesce lanciatomi contro. Non riuscì precisamente a raccattarlo; era stato calpestato varie volte durante la rissa; dovette, in un certo qual modo, rimetterlo insieme e raccoglierlo. «Devi aver fatto qualcosa di tremendo» mi disse Doris «per indurlo a lanciarti contro la nostra cena.» «Non ho fatto proprio niente» risposi io, dicendo il vero. «Finché non l'ho colpito. Ma questo soltanto perché mi aveva chiamato cavròn.» Ella parve divertita e domandò: «Lo sai che cosa vuol dire?» «Sì, vuol dire che uno deve battersi.» La ragazzetta parve più divertita che mai e disse: «Cavròn è un uomo che lascia adoperare sua moglie da altri uomini.» Mi domandai perché, se significava soltanto questo, la parola veniva considerata un insulto mortale. Conoscevo molti uomini le cui mogli facevano le lavandaie o le sarte; dei loro servigi si avvalevano molti altri uomini, ma questo non causava alcuna pubblica riprovazione né alcuna vendetta personale. Dissi qualcosa in tal senso e Doris scoppiò a ridere. «Marcolfo!» mi schernì. «Significa che gli uomini mettono la loro candela nella guaina delle donne e insieme fanno il ballo di San Vito!» Senza dubbio riuscirai a indovinare il volgare significato delle sue parole, e pertanto non starò a descriverti l'immagine bizzarra che evocarono nella mia mente ingenua. Ma alcuni gentiluomini dall'aspetto di rispettabili mercanti stavano passeggiando accanto a noi in quel momento e indietreggiarono da Doris, i baffi e i pizzetti ispidi come aculei, udendo quelle oscenità gridate da una ragazzetta così piccola. Tenendo il pesce maciullato nel cavo delle mani sudicie, Ubaldo mi disse: «Vuoi dividere la nostra cena?» Non accettai, ma, nel corso di quel pomeriggio, lui ed io dimenticammo la rissa e così divenimmo amici. Ubaldo ed io avevamo forse undici o dodici anni, allora, e Doris era più giovane di un paio di anni; durante i primi anni che seguirono, trascorsi quasi ogni giorno con essi e con il loro seguito, alquanto fluido, di altri monelli dei pontili. Avrei potuto facilmente frequentare, in quegli anni, i rampolli ben nutriti e ben vestiti, affettati e presuntuosi, delle famiglie dei «lustrisimi», come a esempio i Balbi e i Comari - e Zia Zulià si avvalse di ogni espediente e di ogni mezzo di persuasione per indurmi a questo - ma io preferivo i miei volgari e più vivaci amici. Ne ammiravo il mordente modo di esprimersi e lo adottai. Ammiravo la loro indipendenza e il loro menefreghistico «fichèvelo» nei confronti della vita, e facevo del mio meglio per imitarlo. Com'era prevedibile, poiché non mi liberavo di questi atteggiamenti quando mi trovavo in casa o altrove, essi non mi rendevano di certo più caro alle altre persone che facevano parte della mia vita. Durante le mie rare presenze a scuola, cominciai ad appioppare a Fra Varisto alcuni dei nomignoli che avevo imparato da Boldo - «el bel de Roma» e «el Culiseo» - e ben presto tutti gli altri miei compagni di classe fecero altrettanto. Il frate-maestro tollerò quelle confidenze, e anzi ne parve persino lusingato, finché, a poco a poco, cominciò a sospettare che non lo stavamo paragonando al grandioso e antico anfiteatro di Roma, ma che il nostro era un giuoco di parole basato sul termine
«culo» e che, in effetti, gli stavamo dando del «monumento di natiche». In casa, scandalizzavo i servi quasi quotidianamente. Una volta, dopo che avevo fatto una cosa riprovevole, ascoltai inosservato una conversazione tra Zia Zulià e Attilio, il maggiordomo della famiglia. «Crispo!» udii il vecchio esclamare. Era questo il suo modo schizzinoso di bestemmiare senza pronunciare, in effetti, le parole «per Cristo!»; ciò nonostante, egli riuscì a sembrare ugualmente scandalizzato e disgustato. «Sapete che cosa ha fatto il cucciolo, questa volta? Ha dato del nero stronzo di merda al barcaiolo, e ora il povero Micèl si sta sciogliendo in lacrime. E' una crudeltà imperdonabile parlare in questo modo a uno schiavo e ricordargli la sua condizione di schiavitù.» «Ma, Attilio, che cosa posso fare?» piagnucolò Zulià. «Non posso percuotere il ragazzo e correre il pericolo di fare del male alla sua preziosa personcina.» Il maggiordomo disse, in tono severo: «E' preferibile per lui essere percosso finché è un fanciullo, e qui nell'intimità della sua casa, anziché meritarsi da adulto una pubblica fustigazione contro i pilastri.» «Se potessi averlo sempre sotto gli occhi...» disse la mia nena, tirando su con il naso. «Ma non posso stargli dietro dappertutto in città. E, da quando si è messo con quei ragazzacci della plebaglia...» «Tra non molto si metterà con i bravi» borbottò Attilio «se vivrà abbastanza a lungo. Vi avverto, donna, state permettendo a quel ragazzo di diventare un buon fanciullo viziato.» Il fanciullo viziato è una creatura ridotta alla corruzione, come ero io, per l'appunto; e infatti sarei stato felice di essere promosso alla condizione di bravo. Nella fanciullezza, ero persuaso che i bravi fossero ciò che il loro nome implica, ma naturalmente quelli sono tutt'altro che «bravi». I bravi sono i moderni vandali di Venezia. Si tratta di giovanotti, appartenenti talora a una buona famiglia, privi di ogni senso della moralità, di ogni utile occupazione e di ogni capacità, tranne una volgare scaltrezza e forse una certa abilità nel maneggiare la spada; inoltre, non hanno alcuna ambizione, tranne quella di guadagnare occasionalmente un ducato rendendosi colpevoli di qualche vile assassinio. A volte vengono pagati a questo scopo da politicanti in cerca di una scorciatoia per fare carriera, o da mercanti che tentano di eliminare la concorrenza con metodi sbrigativi. Ma, ironico a dirsi, ai bravi ricorrono più spesso gli "innamorati" - per togliere di mezzo ostacoli al loro amore, come ad esempio un marito scomodo o una moglie gelosa. Se, durante il giorno, dovesse capitarvi di vedere un giovanotto che si aggira spavaldo con l'aria di un cavaliere errante, si tratterebbe certamente di un bravo o di qualcuno che vuole essere scambiato per un bravo. Ma, se doveste imbattervi in un bravo di notte, egli sarebbe mascherato e avvolto in un mantello, sotto il mantello porterebbe una cotta di maglia, e inoltre rimarrebbe furtivamente in agguato, lontano dalla luce dei lampioni, e, al momento di trafiggervi con una spada o uno stiletto, vi colpirebbe alla schiena. Questa non è una digressione dal mio racconto, poiché vivevo allora in un modo che, in ultimo, avrebbe fatto di me un bravo. O qualcosa di simile. Stavo parlando, però, dei tempi in cui ero ancora un fanciullo viziato, dei tempi in cui Zia Zulià si lagnava perché mi trovavo così spesso in compagnia di quei monelli. Naturalmente, tenuto conto delle parolacce e dei modi abominevoli che imparavo da loro, ella aveva validi motivi per disapprovare. Ma soltanto una slava, una donna che non era nata a Venezia, poteva trovare "innaturale" che io bighellonassi lungo i pontili. Ero veneziano, e pertanto avevo nel sangue il salso del mare, che al mare mi incitava ad avvicinarmi. Ero un ragazzetto, e pertanto non resistevo all'incitamento, e per me frequentare quei monelli significava, allora, essere il più vicino possibile al mare. Dopo di allora ho conosciuto molte città situate sulla costa, ma non ne ho veduto nessuna che faccia "parte" del mare tanto quanto Venezia. Il mare non è soltanto il nostro mezzo di sussistenza - come lo è anche per Genova, o Costantinopoli o la Cherbourg dell'immaginario Bauduin - ma è, qui, indissolubile dalle nostre esistenze. Si frange sulle sponde di ogni isola e di ogni isoletta che formano Venezia, si insinua nei canali della città, e talora - quando il vento e la marea incalzano
dalla stessa direzione - lambisce i gradini stessi della Basilica di San Marco e un gondoliere può remare con la sua imbarcazione tra gli archi della grande piazza San Marco. Soltanto Venezia, tra tutte le città portuali del mondo, sostiene che il mare è il suo sposo, e ogni anno conferma le nozze con sacerdoti e addobbi. Ho riveduto questa cerimonia appena giovedì scorso. Era il Giorno dell'Ascensione ed io mi trovavo tra gli ospiti onorati a bordo dell'imbarcazione dorata del nostro Doge Zuàne Soranzo. Il suo splendido bucintoro, spinto da quaranta rematori, faceva parte di una grande flotta di vascelli gremiti da marinai, pescatori, sacerdoti, menestrelli e cittadini, in maestosa processione sulla laguna. Al Lido, sulla più avanzata nel mare tra le nostre isole, il Doge Soranzo pronunciò la formula antica di secoli: «Ti sposiamo, o mare nostro, in segno di vero e perpetuo dominio», e lanciò nell'acqua una fede nuziale d'oro, mentre i sacerdoti pregavano affinché il mare potesse, nei successivi dodici mesi, dimostrarsi generoso e sottomesso come uno sposo umano. Se la tradizione risponde alla verità - se cioè la stessa cerimonia è stata celebrata ogni Giorno dell'Ascensione sin dall'anno 1000 - allora sul fondo del mare, al largo della spiaggia del Lido, deve trovarsi una considerevole fortuna costituita da circa trecentodiciannove anelli d'oro. Il mare non si limita a circondare e a pervadere Venezia; imbeve ogni veneziano; rende salso il sudore delle braccia che faticano, e salse le lacrime causate dal dolore o dall'ilarità, e salse persino le parole che i veneziani pronunciano. In nessun altro luogo al mondo ho udito gli uomini salutarsi, incontrandosi, con l'allegro grido di «Che bon vento?» Per un veneziano, queste parole significano: «Quale buon vento ti ha sospinto sul mare fino a questa lieta destinazione di Venezia?» Ubaldo Tagiabue e sua sorella Doris e gli altri monelli che bazzicavano lungo i pontili, si servivano di una più concisa formula di saluto, ma anche in essa v'era sale. Si limitavano a dire «Sana capàna», che significava, in forma abbreviata, «alla salute della nostra compagnia» e presupponeva che ci si riferisse alla combriccola della chiatta. Quando ci conoscevamo ormai da qualche tempo, cominciarono a salutarmi con questa frase ed io mi sentii incluso, e ne fui fiero. Quei ragazzi vivevano infatti, come topi, nel putrido scafo di una chiatta rimasta in secco sul fango, di lato al quartiere della città che dà verso la Laguna Morta e, al di là di essa, verso la piccola isolacimitero di San Micèl, o Isola dei Morti. In realtà, si limitavano a trascorrere soltanto le ore del sonno entro quel relitto buio e viscido, poiché le ore di veglia venivano dedicate principalmente alla ricerca di qualcosa da mangiare e di vestiario. Si nutrivano quasi esclusivamente di pesci, poiché, se non riuscivano a rubare alcun altro nutrimento, potevano sempre recarsi al Mercato del pesce, al termine di ogni giornata, quando, come dispone una legge veneziana - per evitare che venga posto in vendita pesce guasto - i pescivendoli devono spargere a terra qualsiasi partita rimasta invenduta. V'era sempre una turba di povera gente che litigava e si azzuffava per quegli avanzi, i quali consistevano di rado di qualcosa di più gustoso dei soliti pesci mola. Io portavo ai miei nuovi amici quel poco che riuscivo a raggranellare a tavola a casa mia, o a rubare in cucina. Per lo meno riuscivo a far mangiare loro un po' di verdura quando procuravo ravioli, uova e formaggio quando trovavo una porzione di timballo di maccheroni, e persino buona carne se m'impadronivo di nascosto di un po' di mortadella o di sanguinaccio. Di tanto in tanto portavo qualche vivanda che essi trovavano meravigliosa. Avevo sempre creduto che la vigilia della festa natalizia si portasse a tutti i bambini veneziani il dolce tradizionale, una specie di pinza, ma quando, un giorno di Natale, portai a Ubaldo e a Doris parte di quel dolce, entrambi spalancarono gli occhi per lo stupore e si lasciarono sfuggire esclamazioni di delizia ad ogni acino di uva passa, ad ogni pinolo e ad ogni pezzetto di frutta candita che trovavano nella pasta. Portavo loro, inoltre, tutti quei capi di vestiario che potevo - quelli miei, diventati troppo stretti o troppo logori e, alle ragazze, indumenti appartenuti alla mia defunta madre. Non tutto era della misura giusta per tutti, ma di questo non si curavano. Doris e altre tre o quattro ragazze si pavoneggiavano, fierissime, con scialli e con gonne le cui taglie erano a tal punto troppo grandi per loro da farle inciampare mentre camminavano. Avevo portato inoltre - per indossarle io stesso quando mi trovavo con i monelli - numerose mie vecchie tuniche e brache, talmente malconce che Zia Zulià si era rassegnata a metterle nella cesta degli strofinacci per spolverare. Mi toglievo gli
abiti con i quali ero uscito di casa, li ficcavo tra i travi della chiatta e mi vestivo di stracci, assumendo così esattamente lo stesso aspetto degli altri ragazzi, finché giungeva il momento di cambiarsi di nuovo e di rientrare. Potresti domandarti come mai non dessi ai miei amici denaro invece di quei miseri doni. Ma devi tener presente che io ero orfano quanto tutti loro, severamente sorvegliato, e troppo giovane ancora per poter distribuire monete tolte dai forzieri della famiglia Polo. Il denaro per le spese di casa ci veniva dato dalla compagnia, vale a dire dall'impiegato Isidoro Friuli. Ogni qual volta Zulià o il maggiordomo o qualsiasi altro servitore dovevano acquistare scorte o cibarie per Ca' Polo, si recavano al mercato accompagnati da un fattorino della compagnia. Questo fattorino aveva la borsa e ne toglieva, contandoli, i ducati, o gli zecchini, o i soldi, man mano che le spese venivano fatte, prendendo nota di ognuna di esse. Se io personalmente avevo bisogno di qualcosa, o volevo qualcosa, e riuscivo a dimostrarne la necessità, l'acquisto veniva fatto per me. Se contraevo un debito, esso veniva pagato a mio nome. Ma di mio non possedetti mai, in quegli anni, più di pochi bagattini di rame. Riuscii però a migliorare l'esistenza dei ragazzi della chiatta, per lo meno nel senso che ampliai la portata dei loro furti. Avevano sempre derubato i bottegai e i venditori ambulanti del loro squallido vicinato; in altri termini, miseri rivenditori che non erano meno poveri di loro e le cui mercanzie quasi non valevano la pena di essere prese. Io condussi i ragazzi nel mio più signorile confino, ove le mercanzie esposte in vendita erano di migliore qualità. E là escogitammo un sistema di furto più efficace del semplice ghermire e fuggire. La Merceria è la più ampia, la più diritta e la più lunga via di Venezia, anzi è in pratica la sola via della città che possa essere definita ampia o diritta o lunga. Le botteghe vi si allineano a entrambi i lati e, tra esse, lunghe file di banchetti e carretti fanno affari ancor più attivamente vendendo di tutto, dalle mercerie alle clessidre, nonché ogni sorta di alimentari, da quelli di prima necessità alle ghiottonerie. Supponiamo che vedessimo, sul carretto di un macellaio, un vassoio di costolette di vitello tali da far venire l'acquolina in bocca ai ragazzi. Uno di loro, a nome Daniele, era il nostro più veloce corridore. Per conseguenza toccava a lui aprirsi un varco a gomitate fino al carretto, afferrare una manciata di costolette e fuggire, facendo quasi stramazzare una bimbetta capitatagli tra i piedi. Daniele continuava a correre, stupidamente, o così sembrava, lungo l'ampia, aperta e diritta Merceria, ove rimaneva visibilissimo e si poteva inseguirlo facilmente. Per cui il garzone del venditore di carne e uno o due clienti infuriati lo inseguivano urlando: «Fermatelo!» e «al ladro!» Ma la ragazzetta che egli aveva urtato era la nostra Doris e Daniele, inosservato nel momento del trambusto, aveva passato a lei le costolette rubate. Doris, sempre non veduta nel tumulto, scompariva lungo uno degli stretti e tortuosi vicoli trasversali che conducevano a spazi aperti. Nel frattempo, la sua fuga essendo stata alquanto ostacolata dalla folla nella Merceria, Daniele stava correndo il pericolo di essere preso. Gli inseguitori si avvicinavano, altri passanti cercavano di agguantarlo, e tutti gridavano chiamando uno «sbiro». Gli sbiri sono gli scimmieschi poliziotti di Venezia, e uno di essi, avendo udito le invocazioni, si faceva largo tra la ressa per intercettare il ladruncolo. Ma io mi trovavo nei pressi, come sempre facevo in modo di essere in quelle occasioni. Daniele smetteva di correre e, quanto a me, sfrecciavo via, venendo scambiato così per la preda, e, deliberatamente, finivo tra le braccia da scimmione dello sbiro. Dopo svariati scappellotti sulle orecchie, venivo riconosciuto, come sempre accadeva e come era previsto che accadesse. Lo sbiro e i cittadini esasperati mi trascinavano fino a Ca' Polo, che non distava molto dalla Merceria. Udendo bussare alla porta, il povero maggiordomo Attilio apriva. Ascoltava le vociferanti accuse e le parole di condanna della gente, poi, con un'aria stanca, imprimeva l'impronta del pollice su un pagherò, che è il documento con il quale ci si impegna a saldare un debito, obbligando così la Compagnia Polo a rimborsare il venditore di carne. Lo sbiro, dopo avermi fatto un severo predicozzo, scrollandomi energicamente, mollava la presa sul mio colletto e la folla si allontanava.
Sebbene io non dovessi intervenire ogni volta che i ragazzi della chiatta rubavano qualcosa - il più delle volte vi riuscivano con destrezza e sia il ladruncolo sia Doris fuggivano senza essere presi venni trascinato fino a Ca' Polo più spesso di quanto possa ricordare. E questo non contribuiva di certo a smentire Attilio, secondo il quale Zia Zulià aveva cresciuto la prima pecora nera della stirpe dei Polo. Si potrebbe supporre che i ragazzi della chiatta mal sopportassero la partecipazione di un «fanciullo ricco» alle loro marachelle, e che odiassero la «condiscendenza» implicita nei miei doni. Ma non era così. Il popolazo può ammirare, o invidiare o anche vituperare i «lustrisimi», ma riserva l'odio e il risentimento attivi agli altri poveracci, che sono, in fin dei conti, i suoi più accaniti concorrenti a questo mondo. Pertanto, quando io giungevo tra loro, dando quel che potevo e senza nulla prendere, i ragazzi della chiatta tolleravano la mia presenza alquanto di più che se fossi stato un altro famelico accattone.
3. Tanto per rammentare a me stesso, di quando in quando, che "non" facevo parte del popolazo, facevo una capatina alla Compagnia Polo e me ne godevo i ricchi aromi, l'industriosa attività e l'atmosfera di prosperità. In occasione di una di quelle visite, trovai sul tavolo dell'impiegato Isidoro un oggetto simile a un mattone, ma dal colore più lustro e rosso; inoltre, era più leggero di un mattone e morbido e vagamente umido al tocco, per cui domandai che cosa fosse. Di nuovo egli esclamò: «In fede mia!» E scosse la grigia testa e disse: «Non riconosci le fondamenta stesse della fortuna della tua famiglia? Essa venne edificata su queste forme di zafferano.» «Oh» feci io, contemplando rispettosamente quella specie di mattone. «E che cos'è lo zafferano?» «Mefè! Lo hai gustato e odorato e portato per tutta la vita! Lo zafferano è quel che dà un particolare sapore e il colore giallo al riso, alla polenta e alla pasta. E' quello che rende di un colore giallo e unico i tessuti. E' quel che dà l'aroma prediletto dalle donne a unguenti e pomate. Anche il mèdego se ne serve nei suoi farmaci, ma quale sia la sua utilità in essi, lo ignoro.» «Oh» feci io, una volta di più, meno rispettoso di prima nei confronti di una merce così comune. «E' tutto qui?» «Tutto!» esclamò lui. «Stammi a sentire, marcolfo.» Questa parola non è un vezzeggiativo affettuoso del mio nome; viene rivolta ad ogni ragazzo eccessivamente stupido. «Lo zafferano ha una storia ancor più antica e più nobile della storia di Venezia. Molto tempo prima che Venezia esistesse, lo zafferano veniva adoperato dai greci e dai romani per profumare i loro bagni. Essi lo spargevano sui pavimenti per rendere olezzanti intere stanze. Quando l'imperatore Nerone entrò a Roma, le strade "dell'intera città" vennero - così si dice - cosparse di zafferano e rese fragranti». «Be'», osservai «se però è sempre stato così abbondantemente disponibile...» «Può darsi che abbondasse allora» disse Isidoro «ai tempi in cui gli schiavi erano numerosi e non costavano nulla. Ma, al giorno d'oggi, lo zafferano non abbonda affatto. E' una merce che scarseggia e, per conseguenza, ha un grande valore. Questa singola forma che tu vedi qui vale quanto un lingotto d'oro quasi dello stesso peso». «Davvero?» mormorai io, e forse mi espressi come se non fossi troppo persuaso. «Ma perché?» «Perché questa forma la si deve alle fatiche di molte mani e a sconfinate distese di terreno e a un numero incalcolabile di fiori». «Fiori!» Maestro Isidoro sospirò e disse, paziente: «Esiste un fiore purpureo denominato croco. Quando sboccia, ne sporgono tre delicati stigmi di un color rosso-arancione. Questi stigmi vengono distaccati con estrema cautela da mani umane. Una volta raccolti alcuni milioni di tali filamenti vegetali delicati e quasi impalpabili, li si fa essiccare per produrre lo zafferano sciolto, oppure li si comprime per ricavarne forme di zafferano come questa. La terra lavorata deve essere riservata
soltanto a queste piante, e il croco fiorisce una sola volta all'anno. Il periodo della fioritura è breve, per cui molte persone devono lavorare contemporaneamente, e con diligenza. Io non so quanti ettari di terreno e quanti braccianti occorrano per produrre una sola forma di zafferano all'anno, ma ora potrai capire perché mai esso abbia un così notevole valore.» Ero ormai persuaso. «E dove lo acquistiamo el zafràn?» «Non lo acquistiamo. Lo coltiviamo.» Mise sul tavolo accanto al «mattone» un altro oggetto. Avrei potuto scambiarlo per un bulbo del comunissimo aglio. «Questo è un bulbo del fiore di croco. La Compagnia Polo coltiva le piante e raccoglie i fiori». Ero stupefatto. «Non a Venezia, senza dubbio!» «No di certo. Sul continente, a sud-ovest da qui. Ti ho detto che ci vogliono innumerevoli appezzamenti di terreno.» «Non ne sapevo niente» dissi. Egli rise. «Probabilmente, una buona metà della popolazione di Venezia non sa neppure che il latte e le uova dei loro pasti quotidiani provengono da animali, e che questi animali hanno bisogno di terra asciutta sulla quale vivere. Noi veneziani siamo propensi a prestare ben poca attenzione a qualsiasi cosa, tranne la laguna e il mare e l'oceano.» «Da quanto tempo stiamo facendo questo, Isidoro? Da quanto tempo coltiviamo crochi e produciamo zafràn?» Isidoro fece una spallucciata. «Da quanto tempo i Polo si trovano a Venezia? L'idea la si deve alla genialità di qualcuno dei tuoi antichi antenati. Dopo i tempi dei romani, lo zafferano divenne di gran lunga troppo costoso a coltivarsi. Nessun contadino riusciva a farne crescere abbastanza perché ne valesse la pena. E persino i grandi proprietari terrieri non potevano permettersi di pagare tutti i braccianti necessari per il raccolto. Così el zafràn venne quasi dimenticato. Finché qualche Polo dei tempi andati se ne ricordò, e si rese conto inoltre che la moderna Venezia dispone di una riserva di schiavi grande quasi quanto quella sulla quale poteva far conto Roma. Però adesso dobbiamo acquistarli, gli schiavi, anziché limitarci a catturarli. Ma la raccolta degli stigmi del croco non è una fatica ardua. Non richiede schiavi di sesso maschile robusti e costosi. Anche le donne più gracili e i fanciulli possono fare questo lavoro; possono farlo gli individui malaticci e gli storpi. E il tuo antenato acquistò questo genere di schiavi a buon mercato. Gli stessi che la Compagnia Polo ha continuato ad acquistare da allora in poi. Sono una genìa variegata, di tutte le nazioni e di tutti i colori - mori, circassi, russi, armeni - ma i colori della loro pelle si fondono, per così dire, dando luogo al zafràn rosso-dorato». «Le fondamenta della nostra fortuna» ripetei io. «Grazie ad esso acquistiamo ogni altra cosa che poi vendiamo» disse Isidoro. «Oh, vendiamo anche zafràn, quando ci viene pagato il giusto prezzo - per essere impiegato come aroma nei cibi, e come colorante, come profumo, come medicamento. Ma, fondamentalmente, esso costituisce il capitale della nostra compagnia e lo barattiamo con tutte le altre mercanzie. Con ogni cosa, dal sale di Ibiza al cuoio di Cordova al frumento della Sardegna. Così come la famiglia degli Spinola, a Genova, ha il monopolio del commercio dell'uva, la nostra compagnia veneta dei Polo ha quello del zafràn.» L'unico rampollo della famiglia veneziana dei Polo ringraziò l'anziano impiegato per questa lezione edificante in fatto di commercio in grande stile e di audaci iniziative, poi, come sempre, se ne andò di nuovo a zonzo per partecipare alla comoda vita indolente dei ragazzi della chiatta. Come ho già detto, essi tendevano ad andare e venire; di rado, da una settimana all'altra, era lo stesso gruppo a rifugiarsi sulla chiatta abbandonata. Come gli adulti del popolazo, i fanciulli sognavano di trovare in qualche posto un Paese della Cuccagna, ove potessero scansare le fatiche e vivere nel lusso anziché nello squallore. Così, sentivano magari parlare di qualche luogo che offriva prospettive migliori della Riva di Venezia e si nascondevano a bordo di una nave in partenza, per recarvisi. Alcuni di loro tornavano indietro dopo qualche tempo, o perché non erano riusciti a giungere alla meta, oppure perché l'avevano raggiunta ma erano rimasti delusi. Altri non tornavano più perché - la ragione vera non la sapevamo mai - la nave era affondata facendoli affogare, o
perché venivano scovati e rinchiusi in un orfanotrofio, o forse perché trovavano davvero il «Paese della Cuccagna» e vi restavano. Ma Ubaldo e Doris Tagiabue non si allontanavano mai e da loro imparai quasi tutto quel che venni a sapere per quanto concerneva le abitudini e il modo di esprimersi delle classi inferiori. Questo genere di istruzione non mi fu imposto così come Fra Varisto imbottiva con le congiunzioni latine i suoi allievi; no, fratello e sorella mi insegnarono ogni cosa un po' alla volta, man mano che io chiedevo di sapere. Quando Ubaldo mi prendeva in giro per qualche mia ottusità o qualche mia perplessità, era Doris a mettermi al corrente. Un giorno, rammento, Ubaldo disse che si sarebbe recato nella parte ovest della città e che vi sarebbe andato prendendo il Traghetto dei Cani. Non ne avevo mai sentito parlare, per cui lo accompagnai, allo scopo di vedere a quale strano tipo di imbarcazione si fosse riferito. Ma attraversammo il Canal Grande passando per il solito ponte di Rialto, ed io dovetti assumere un'aria delusa o interdetta, poiché egli mi schernì: «Sei ignorante come un sasso!» E Doris spiegò: «C'è un solo modo per passare dalla parte est a quella ovest della città, no? Bisogna attraversare il Canal Grande. I gatti sono tollerati sulle barche, perché acchiappano i topi, ma i cani no. E così i cani possono attraversare il Canal Grande soltanto passando per il ponte di Rialto. Per cui esso è il traghetto dei cani, no xe vero?» Parte del loro gergo da strada riuscivo a tradurlo senza essere aiutato. Parlavano di ogni prete e di ogni monaco chiamandoli «i rigiosi», che poteva significare anche «i rigidi», ma non mi ci volle molto per rendermi conto che si limitavano a storpiare la parola religiosi. Quando, con il bel tempo estivo, annunciarono che si trasferivano dallo scafo della chiatta alla Locanda de la Stela, capii che non sarebbero andati ad alloggiare in una vera locanda; intendevano dire soltanto che, durante l'estate, avrebbero dormito all'aperto. Quando parlavano di una femmina come di una largazza, si limitavano a una storpiatura del termine ragazza, ma volgarmente insinuavano che ella fosse ampia, cavernosa addirittura nell'orifizio genitale. In effetti, per la massima parte, il linguaggio dei monelli della chiatta - così come quasi tutte le loro conversazioni e i loro interessi - concerneva argomenti indelicati di questo genere. Io assorbivo un gran numero di nozioni, ma a volte, più che illuminarmi, mi confondevano le idee. Zia Zulià e Fra Varisto mi avevano insegnato a riferirmi alle parti che avevo tra le gambe chiamandole «le vergogne». Lungo i pontili imparai molti altri nomi. La parola «bagagio» riferita agli organi genitali dell'uomo era abbastanza chiara; e «candeloto» era un termine espressivo per indicarne il membro eretto, che somiglia a una grossa candela; altrettanto espressiva era la parola «fava», riferita all'estremità bulbosa di quell'organo, alquanto simile, per l'appunto, a una fava; ugualmente espressivo era il termine «capèla» per indicare il prepuzio, che racchiude la fava come un piccolo mantello, o una piccola cappella. Ma a me riusciva misteriosa la ragione per cui la parola «lumaghèta» veniva talora impiegata per significare le parti femminili. Mi risultava che le donne non avevano altro se non un'apertura, là sotto, e «lumaghèta» può significare sia una piccola lumaca, sia il cavicchio con il quale i menestrelli accordano le corde del loro liuto. Ubaldo, Doris ed io stavamo giocando su uno dei pontili, un giorno, quando un fruttivendolo si avvicinò spingendo il suo carretto lungo la passeggiata a mare e alcune donne vennero a esaminare quel che vendeva. Una di esse fece scorrere le mani su un grosso cetriolo giallognolo, poi sorrise e disse: «el mescolòto» e tutte le altre ridacchiarono lascive. «Il mestolo», non stentai ad afferrare l'allusione. Ma poi due snelli giovanotti si avvicinarono sottobraccio, camminando con una sorta di elasticità nei passi, e una delle donne dei barcaioli borbottò: «Don Metà e Sior Mona». Una della sue amiche sbirciò con derisione il più delicato dei due giovani e mormorò: «Quello lì ha uno spacco nei calzoni.» Non avevo idea di che cosa stessero parlando, e la spiegazione di Doris non mi disse un granché. «Quelli sono i tipi di uomini che se la fanno insieme, come un vero uomo fa soltanto con una donna». «Uhm!»
Ecco, "questa" era la falla principale nella mia capacità di capire: non avevo un'idea molto chiara di quello che un uomo poteva fare con una donna. Bada, non ero del tutto all'oscuro in fatto di sesso, non più di quanto siano all'oscuro gli altri fanciulli delle classi superiori veneziane, o, suppongo, dei fanciulli delle classi superiori di ogni altra nazionalità europea. Possiamo non ricordarcene consapevolmente, ma siamo stati tutti introdotti al sesso, sin dai primissimi mesi di vita, dalle nostre madri, o dalle bambinaie, o da entrambe. Sembra che madri e bambinaie abbiano saputo, sin dalle origini del tempo, che il sistema più efficace per calmare un poppante irrequieto, o per farlo addormentare prontamente, consiste nell'atto della masturbazione. Ho veduto non poche madri fare questo a un bambino in fasce il cui binbìn era talmente minuscolo da consentire loro di manipolarlo soltanto con l'indice e il pollice. Eppure il piccolo organo cresceva e si sollevava, anche se non quanto quello di un uomo, naturalmente. Mentre la donna continuava ad accarezzare, il bambino fremeva, poi sorrideva, poi si contorceva voluttuosamente. Non eiaculava alcuno spruzzo, ma non potevano sussistere dubbi riguardo al fatto che raggiungeva un culmine di distensione. Infine il piccolo binbìn tornava di nuovo alle sue dimensioni minime, il poppante giaceva tranquillo e ben presto si addormentava. Senza dubbio, mia madre aveva fatto questo molte volte per me, e sarebbe bene, io credo, che tutte le madri lo facessero. Quelle precoci manipolazioni, oltre ad essere un ottimo sistema per tranquillizzare il bambino, ovviamente stimolano lo sviluppo dell'organo sessuale. Le madri nei paesi orientali non si attengono a questa pratica, e l'omissione diviene malinconicamente ovvia quando i bambini crescono. Ho veduto molti uomini dell'Oriente nudi e quasi tutti avevano l'organo miseramente piccolo in confronto al mio. Sebbene le nostre madri e le nostre nutrici smettano a poco a poco di fare questo, quando i loro bambini hanno circa due anni, vale a dire all'età in cui vengono svezzati, ciò nonostante ogni fanciullo conserva qualche vaga reminiscenza della cosa. Per conseguenza un ragazzo non rimane interdetto né si spaventa quando entra nell'adolescenza e quell'organo esige attenzioni di sua iniziativa. Allorché il ragazzo si desta in piena notte e lo sente erigersi sotto la propria mano, sa che cosa vuole. «Spugnature fredde» soleva dire Fra Varisto a noi ragazzi, a scuola. «Questo lo placherà e vi eviterà il pericolo che vi svergogni con la macchia sul lenzuolo.» Noi ascoltavamo rispettosamente, ma, tornando a casa, ridevamo di lui. Forse i frati e i preti subiscono involontari e sorprendenti spruzzi e si sentono per questo imbarazzati, o in qualche modo colpevoli. Ma nessun ragazzo sano che io conosca si è mai sentito tale. E nessuno preferirebbe una doccia fredda in luogo del caldo piacere di fare per il proprio candeloto quel che faceva sua madre per esso quando era appena un binbìn. In ogni modo, Ubaldo si dimostrò sprezzante quando venne a sapere che la mia esperienza sessuale si riduceva, per il momento, soltanto a questi trastulli notturni. «Cosa? Stai ancora facendo la stessa guerra dei preti?» mi derise. «Non hai mai avuto una femmina?» Senza capire, una volta dì più, gli domandai: «La guerra che fanno i preti?» «Puoi scommetterci, cinque contro uno» disse Doris, senza arrossire. Poi soggiunse: «Devi trovarti una ganza. Capisci, un'amichetta compiacente.» Ci pensai su, poi dissi: «Non conosco nessuna ragazza alla quale potrei chiederlo. Tranne te, ma sei troppo giovane.» Lei se la prese a male e disse, irosamente: «Posso non avere ancora i peli sulla topa, ma ho dodici anni compiuti, ed è l'età in cui ci si può maritare!» «Non voglio sposare nessuna ragazza, io» protestai. «Voglio soltanto...» «Oh, no!» mi interruppe prontamente Ubaldo. «Mia sorella è una ragazza "onesta".» Potreste sorridere di tale asserzione: che una ragazzetta la quale si esprimeva come lei potesse essere «onesta». Ma è questa la prova di una caratteristica che le nostre classi superiori e inferiori hanno in comune: la rispettosa importanza che attribuiscono alla verginità di una fanciulla. Sia per i lustrisimi, sia per il popolazo, essa conta di gran lunga più di tutte le altre doti femminili: la
bellezza, il fascino, la soavità, la modestia e qualsiasi altra qualità. Le loro donne possono essere bruttine e maliziose, possono essere sboccate e sgraziate e sciatte, ma debbono mantenere intatto quel piccolo lembo di tessuto della verginità. Sotto questo aspetto, perlomeno, i selvaggi più primitivi e più barbari dell'Oriente sono superiori a noi: essi apprezzano una femmina per attributi diversi dal turacciolo nella vagina. Per le nostre classi superiori, la verginità non è tanto una questione di virtù quanto un buon affare; i ricchi valutano una figlia con lo stesso freddo calcolo di cui darebbero prova valutando una schiava al mercato. Sia una figlia, sia una schiava, simili a un barile, vengono pagate di più se sono sigillate e dimostrabilmente intatte. Così i ricchi barattano le figlie contro vantaggi commerciali o il miglioramento sociale. Ma le classi umili pensano, stupidamente, che le classi ricche tengano in alta considerazione "morale" la verginità, e cercano di imitarle. Inoltre si lasciano spaventare più facilmente dai tuoni della Chiesa, e la Chiesa esige che la verginità venga conservata come una sorta di esibizione negativa di virtù, così come i buoni cristiani si dimostrano virtuosi astenendosi dalla carne durante la Quaresima. Ma, anche ai tempi in cui ero ancora un fanciullo, trovavo motivo di meraviglia nel constatare quante ragazze, di ogni classe sociale, venissero in effetti mantenute «buone» dai precetti e dagli atteggiamenti sociali dominanti. Dal momento in cui divenni grande abbastanza per avere «i primi peli sul carciofo», dovetti sorbirmi le prediche di Fra Varisto e di Zia Zulià a proposito dei pericoli morali e fisici che avrei corso frequentando ragazze immorali. Ascoltavo molto attento le loro descrizioni di quelle malvage creature, nonché i loro ammonimenti e i loro attacchi contro di esse. Volevo essere certo di poter riconoscere a prima vista una ragazza di malaffare, perché speravo con tutto il cuore di poterne incontrare una al più presto. L'incontro sembrava molto probabile, poiché, da quelle prediche, ricavai soprattutto un'impressione: che le ragazze di malaffare dovevano essere considerevolmente più numerose di quelle oneste. Quest'impressione era giustificata da altri indizi. Venezia non è una città molto disciplinata dal punto di vista dei rifiuti, perché non ha bisogno di esserlo. Tutto ciò che la popolazione getta via finisce nei canali. I rifiuti delle strade, gli avanzi di cucina, il contenuto dei vasi da notte, questo e altro, viene gettato nel canale più vicino e lentamente trascinato via. La marea si determina due volte al giorno e risale ogni più piccola via d'acqua, smuovendo qualsiasi cosa si trovi sul fondo o abbia formato incrostazioni sulle pareti dei canali; poi la marea scende e trascina via con sé tutte queste sostanze, attraverso la laguna, al di là del Lido e in mare aperto. Questo fa sì che la città rimanga pulita e non sia maleodorante, ma non di rado affligge i pescatori con catture non gradite. Non v'è uno solo di essi che non abbia trovato più volte, infilzato nell'amo o impigliato nella rete, il cadaverino lucente, azzurro chiaro e violaceo, di un neonato. E' vero che Venezia è una delle città più popolose d'Europa. E neanche metà dei suoi cittadini sono di sesso femminile e, delle femmine, forse soltanto un terzo sono in età di concepire. La cattura annua di cadaverini di neonati, da parte di pescatori, sembrerebbe attestare la scarsità di «brave» ragazze veneziane. «C'è la sorella di Daniele, Margherita» disse Ubaldo. Non stava enumerando le brave ragazze, anzi faceva tutto l'opposto. Contava quelle femmine di nostra conoscenza che sarebbero potute essere utili per svezzarmi dalla «guerra dei preti» e ammaestrarmi in diversivi più virili. «E' disposta a farlo con chiunque le dia un bagatìn.» «Margherita è una grassa troia» disse Doris. «Sì, è una grassa troia» approvai io. «Chi sei tu per schernire i maiali?» disse Ubaldo. «I maiali hanno un santo protettore. San Toni amava molto i porci.» «Ma non avrebbe amato Margherita» disse Doris, con fermezza. Ubaldo continuò. «C'è anche la madre di Daniele. E' disposta a starci senza pretendere nemmeno un bagatìn.» Doris ed io emettemmo suoni di ripugnanza. Poi ella disse: «C'è qualcuno, là sotto, che ci sta facendo cenni con la mano.»
Noi tre trascorrevamo pigramente il pomeriggio sul tetto di una casa. E' questa un'occupazione prediletta dalle classi umili. Siccome tutte le case povere di Venezia sono a un solo piano, e tutte hanno il tetto a terrazza, chi vi abita ama passeggiare oppure oziare sui tetti e godersi il panorama. Da quel punto di osservazione si possono vedere le viuzze e i canali sottostanti, la laguna e le navi al largo, nonché i più eleganti palazzi di Venezia che si levano sopra la massa delle modeste abitazioni: le cupole e le guglie delle chiese, i campanili, le facciate scolpite delle grandi dimore. «Sta facendo cenno a me» dissi. «Quello è il nostro barcaiolo che torna a casa con el batèlo venendo da chissà dove. Vado con lui.» Non ero affatto tenuto a tornare a casa prima che le campane cominciassero ad annunciare, con i loro rintocchi, l'ora del coprifuoco, quando tutti i cittadini onesti che non rientrano dovrebbero essere muniti di una lanterna per dimostrare che sono in giro per motivi legittimi. Ma, ad essere sincero, in quel momento mi intimoriva un poco la possibilità che Ubaldo insistesse affinché mi accoppiassi immediatamente con qualche donna o qualche ragazza del popolino. Non temevo tanto l'avventura, sia pure con una sudiciona come la madre di Daniele, quanto la possibilità di rendermi ridicolo, poiché non sapevo "cosa fare" con lei. Di quando in quando, cercavo di espiare le mie frequenti villanie con il povero e vecchio Micèl, per cui quel giorno mi misi io stesso ai remi e remai verso casa mentre lui si riposava sotto la tenda della barca. Nel frattempo conversammo ed egli mi disse che, una volta arrivati, avrebbe fatto lessare una cipolla. «Cosa?» domandai, non ben sicuro di avere udito bene. Lo schiavo negro spiegò che era affetto dal disturbo dei barcaioli. Siccome, a causa del suo mestiere, trascorreva quasi tutto il tempo con le natiche sul duro e umido banco della barca, era tormentato spesso da emorroidi che sanguinavano. Il nostro mèdego di famiglia, disse, gli aveva prescritto un semplice rimedio per alleviare i tormenti di quella malattia. «Si fa bollire una cipolla finché è morbida, poi la si ficca ben bene là dentro e ci si avvolge una fascia intorno ai lombi per trattenerla. E' davvero efficace. Se per caso dovessero venirvi le emorroidi, Messer Marco, provate.» Dissi che così avrei fatto e non ci pensai più. Una volta giunto a casa, venni avvicinato da Zia Zulià. «Il buon frate Varisto è venuto qui, oggi, ed era così furente da avere il viso paonazzo, fino alla tonsura.» Osservai che la cosa non era inconsueta. Lei disse, in tono ammonitore: «Un marcolfo privo di istruzione dovrebbe essere più cauto nel parlare. Fra Varisto ha detto che stai marinando di nuovo la scuola. Sei rimasto assente per più di una settimana, stavolta. E domani dovete essere interrogati in recitazione, di qualsiasi cosa possa trattarsi, dai Censori de Scole. E' necessario che tu sia presente, mi ha detto il frate... e io ti dico, giovanotto, che domani "tu andrai" a scuola.» Pronunciai una parola che la fece rimanere senza fiato poi, a gran passi, andai a chiudermi in camera mia e a tenere il broncio. Non volli saperne di uscire, anche quando mi chiamarono per la cena. Ma allorché le campane annunciarono il coprifuoco, i miei migliori istinti avevano cominciato a prevalere sui peggiori. Pensai: oggi, quando mi sono comportato cortesemente con il vecchio Micèl, l'ho reso felice; dovrei dire qualche parola gentile di scusa alla vecchia Zulià. (Mi rendo conto di aver definito «vecchie» quasi tutte le persone che conoscevo nella fanciullezza. Questo perché tali sembravano ai miei occhi, sebbene, in realtà, soltanto poche di loro fossero davvero anziane. L'impiegato della compagnia, Isidoro, e il maggiordomo Attilio avevano forse l'età che ho io adesso. Ma il frate Varisto e lo schiavo negro Micèl si trovavano appena nell'età di mezzo. Zulià, naturalmente, sembrava vecchia perché aveva la stessa età di mia madre, e mia madre era morta; ma presumo che Zulià avesse un anno o due meno di Micèl.) Quella sera, quando decisi di fare ammenda con lei, non aspettai che ella facesse il solito giro della casa prima di coricarsi. Mi diressi verso la sua stanzetta, bussai alla porta e aprii senza aspettare che mi fosse stato detto «avanti». Probabilmente, avevo sempre supposto che la servitù non facesse altro, la notte, che dormire per ricuperare le energie in vista delle fatiche dell'indomani. Ma Zia
Zulià non si limitava al sonno, quella notte, in camera sua. Quanto vi stava accadendo fu per me spaventoso, e ridicolo, e stupefacente... nonché altamente educativo. Immediatamente dinanzi a me, sul letto, si trovava un paio di immense natiche che sobbalzavano su e giù. Si trattava di natiche caratteristiche, essendo nero-violacee come le melanzane, e ancor più caratteristiche in quanto, nel solco tra esse, una striscia di tessuto tratteneva una grossa cipolla color giallo-chiaro. Alla mia improvvisa irruzione si udì uno squittio di sgomento e le natiche balzarono via dall'alone di luce della candela per rifugiarsi in un angolo più buio della stanza. Questo rivelò sul letto un corpo dal contrastante color bianco-pesce: la nuda Zulià, distesa supina e con le cosce bene aperte. Teneva gli occhi chiusi, per cui non si era accorta del mio arrivo. Al brusco ritrarsi delle natiche emise un gemito di privazione, ma continuò a muoversi come se fosse ancora cavalcata a sobbalzi. Non avevo mai veduto la mia nena se non con molteplici gonne che arrivavano fino al pavimento e avevano tinte slave atrocemente sfarzose. Inoltre, la larga faccia slava della donna era talmente brutta che non mi ero mai neppur sognato di immaginare quale aspetto potesse avere, spogliato, il corpo altrettanto largo di lei. Ma ora osservai avidamente tutto ciò che, in modo così impudico, si trovava in mostra dinanzi a me, e un particolare era talmente vistoso che non seppi astenermi dal fare un commento: «Zia Zulià» dissi, nel tono del più grande stupore, «hai una verruca del rosso più vivido, là sotto, nella tua...» Le grasse gambe di lei si chiusero con uno schiocco ed ella spalancò gli occhi con una subitaneità quasi udibile. Fece per afferrare le coperte del letto, ma se n'era impadronito Micèl spiccando il balzo, per cui ella dovette accontentarsi dei cuscini. Vi fu un momento di costernazione e di contorcimenti mentre lei e lo schiavo annaspavano per coprirsi. Seguì poi un momento, assai più lungo, di pietrificato imbarazzo, durante il quale venni fissato da quattro pupille grandi e luminose. Mi congratulai con me stesso, poiché fui il primo a ritrovare la compostezza. Sorrisi soavemente alla mia nena e pronunciai non già le parole di scusa che ero venuto a dire, ma le parole di un perfetto ricattatore. Con compiaciuta sicumera dissi: «Domani "non" andrò a scuola, Zia Zulià», poi uscii camminando all'indietro e chiusi la porta.
4. Siccome sapevo quello che "avrei" fatto l'indomani, l'aspettativa mi rese troppo irrequieto perché riuscissi a dormire bene. Mi alzai e mi vestii prima che tutti i servi si fossero destati e feci colazione con una focaccina e un sorso di vino mentre attraversavo la cucina per uscire nel mattino perlaceo. Mi affrettai lungo le deserte viuzze e sui tanti ponti che conducevano alla distesa di fango sul lato nord della laguna, ove alcuni ragazzi della chiatta stavano appena uscendo dal loro rifugio. Tenendo conto di quel che ero venuto a chiedere, probabilmente avrei dovuto cercare Daniele. Invece mi rivolsi a Ubaldo e gli feci la richiesta. «A quest'ora?» disse lui, blandamente scandalizzato. «E' probabile che Margherita dorma ancora, la porca. Ma andrò a vedere.» Chinandosi, rientrò nella chiatta, e Doris, che aveva udito, mi disse: «Non credo che dovresti, Marco.» Ero abituato a sentirla sempre commentare qualsiasi cosa tutti facessero o dicessero, e non sempre gradivo le sue ciarle, ma le domandai: «Perché non dovrei?» «Non voglio che tu lo faccia.» «Questa non è una ragione.» «Margherita è una grassa troia.» Non potevo negarlo e non lo negai; dopo qualche istante, ella soggiunse: «Persino io sono più bella di Margherita.» Villanamente, risi, ma fui cortese quanto bastava per non dirle che v'era ben poco da scegliere tra una grassa troia e una gattina tutta pelle e ossa.
Doris sferrò, stizzita, calci al fango, poi disse, accavallando le parole: «Margherita lo farà con te, perché non le importa con chi lo fa, uomo o ragazzo. Ma io con te lo farei perché ci tengo.» La guardai con divertito stupore, e forse anche, per la prima volta, con apprezzamento. Il suo virgineo rossore era percettibile anche attraverso il sudiciume del viso, così come la sincerità di lei, nonché un vago preannuncio di leggiadria. In ogni modo gli occhi, non velati dalla sporcizia, erano di un bell'azzurro, e sembravano straordinariamente grandi, anche se, forse, questo accadeva perché il viso era reso alquanto smunto dai continui digiuni. «Un giorno diventerai una bella donna, Doris» dissi, per rasserenarla. «Se ti deciderai a lavarti... o almeno a raschiarti di dosso la "cracia". E se il tuo corpo si arrotonderà un po' più di un manico di scopa. Margherita è già diventata ampia quasi quanto sua madre.» Doris disse, con acredine: «In realtà somiglia più a suo padre, visto che le sono cresciuti anche i baffi.» Una testa dai capelli scarmigliati e dalle palpebre grevi di sonno fece capolino da uno degli squarci frastagliati nello scafo della chiatta, e Margherita gridò: «Be', allora vieni, prima che mi infili il vestito, così non dovrò togliermelo!» Mi voltai per andare e Doris disse: «Marco!», ma, quando la guardai spazientito, soggiunse, a bassa voce: «Non importa. Va pure a fare il porco.» Mi infilai all'interno del buio e umido scafo e avanzai con cautela sulle putride assi finché giunsi nell'angolo della stiva, chiuso da un tramezzo, ove Margherita si accosciò su un giaciglio di canniccio e di stracci. Con le mani brancolanti la trovai prima ancora di averla veduta e il corpo nudo di lei parve umido e spugnoso come il legno della chiatta. Immediatamente ella disse: «Nemmeno un brancicamento finché non avrò avuto il bagatìn.» Le diedi la monetina di rame e lei si distese supina sul pagliericcio. Le salii sopra, assumendo la stessa posizione nella quale avevo sorpreso Micèl. Poi trasalii mentre si udiva un tonfo sonoro all'esterno della chiatta, ma vicinissimo al mio orecchio, e poi uno stridulo miagolio. I ragazzi della chiatta si stavano divertendo con uno dei loro trastulli prediletti. Uno di essi aveva catturato un gatto, e questa non è un'impresa facile, sebbene i gatti brulichino a Venezia; la bestiola era stata poi legata a un lato della chiatta e i monelli prendevano a turno la rincorsa e la urtavano con la testa, in gara per vedere quale di loro sarebbe riuscito per primo a ucciderla, maciullandola. Man mano che gli occhi si abituavano all'oscurità, constatai quanto Margherita fosse davvero pelosa. I seni, pallidamente luminosi, erano la sola parte di lei sulla quale non crescessero peli. Oltre alla zazzera sulla testa e alla peluria sul labbro superiore, ella aveva un vello sulle braccia e sulle gambe e un gran ciuffo di peli pendeva da ciascuna ascella. Sia a causa dell'oscurità nella stiva, sia per il vero e proprio cespuglio che le cresceva sulla topa, potei vedere, del suo apparato femminile, considerevolmente meno di quanto avessi veduto di quello della Zia Zulià. (Potei sentirne l'afrore, però, poiché Margherita non era portata per i lavacri più di tutti gli altri della chiatta). Ella si aspettava, lo sapevo, che mi inserissi da me in qualche punto là sotto, ma... «"Sbam!"» Un altro tonfo sullo scafo e un nuovo urlo del gatto, mi resero più che mai confuso. In preda a una certa perplessità, cominciai a tastare le zone basse di Margherita. «Perché ti stai trastullando con la mia potta?» domandò lei, servendosi del termine più volgare per designare quell'orifizio. Risi, una risatina tremula e incerta, senza dubbio, e risposi: «Sto cercando di trovare la... ehm... la tua lumaghèta.» Abbassò una mano per allargare se stessa, e l'altra per guidarmi dentro. Vi riuscì facilmente. «"Sbam!"» Ancora un tonfo e ancora un miagolio acuto. «Maldestro! Lo hai fatto uscire di nuovo!» disse lei, stizzosamente, e rimediò con alcuni rapidi movimenti. Rimasi impalato là dentro per un momento, sforzandomi di ignorare la sua sporcizia, e lo squallore che ci circondava, sforzandomi di godere l'inconsueta cavità che mollemente mi risucchiava. «Be', sbrigati» si lagnò lei. «Non ho ancora pisciato, stamattina.»
Cominciai a sobbalzare, come avevo veduto fare da Micèl, ma, prima di essermi avviato sul serio, la chiatta parve diventare ancor più buia davanti ai miei occhi. Sebbene tentassi di trattenerlo e di gustarlo, lo spruzzo schizzò, incoercibile, e senza che io provassi la benché minima sensazione di autentico piacere. «"Sbam!"» Ancora un tonfo, ancora un miagolio frenetico. «Oh, che braga!» esclamò Margherita con disgusto. «Le cosce mi resteranno appiccicate per tutto il giorno. Toglimiti di dosso, idiota, affinché possa saltare.» «Cosa?» domandai io, stordito. Contorcendosi, ella si sottrasse di sotto a me, si alzò in piedi e spiccò un balzo all'indietro. Poi saltò in avanti, poi di nuovo all'indietro, e l'intera chiatta dondolò. «Fammi ridere!» mi ordinò Margherita, tra un balzo e l'altro. «Cosa?» ripetei. «Raccontami una storiella buffa. Ecco, con questo fanno sette salti. Ti ho detto di farmi ridere, marcolfo! O vorresti forse che mettessi al mondo un marmocchio?» «Cosa?» dissi ancora una volta. «Oh, lascia perdere. Starnutirò, invece.» Prese tra le dita una ciocca dei lunghi capelli, ne infilò la sudicia estremità in una delle narici e starnutì in modo esplosivo. «"Sbam!"» Il lamento agonico del gatto si spense mentre, evidentemente, la bestiola stessa moriva. Udii le grida litigiose dei ragazzi per decidere che cosa dovevano fare della carogna. Ubaldo voleva lanciarla addosso a me e a Margherita, Daniele voleva gettarla sulla soglia della bottega di qualche ebreo. «Spero di averlo fatto uscire tutto» disse la ragazza, pulendosi le cosce con uno straccio che copriva il letto. Lasciò ricadere lo straccio sul pagliericcio, si portò al lato opposto della stiva, si accosciò e orinò abbondantemente. Io aspettavo, pensando che uno di noi due avrebbe dovuto dire qualcos'altro. Ma infine decisi che, al mattino, la vescica di lei era inesauribile e pertanto strisciai fuori della chiatta. «Sana capana!» gridò Ubaldo, come se mi fossi appena unito alla compagnia. «Come è andata?» Gli rivolsi lo stanco sorriso di un uomo di mondo. Tutti i ragazzi schiamazzarono, lanciando urla festose, e Daniele gridò: «Mia sorella è buona, sì, ma mia madre lo è di più!» Doris era scomparsa ed io fui lieto di non doverne sostenere lo sguardo. Avevo compiuto il mio primo viaggio di scoperta: una breve incursione verso la virilità, ma non mi andava di pavoneggiarmi per questo. Ma in cuor mio ero deciso, una volta di più, a essere gentile con Zia Zulià. Non l'avrei schernita per quello che era accaduto in camera sua, non l'avrei disprezzata, né sarei andato a raccontarlo in giro, né avrei cercato di strapparle concessioni con la minaccia di parlare. Ero spiacente per lei. Se io mi sentivo insozzato e infelice dopo l'esperienza con una ragazzetta della chiatta, quanto più infelice doveva sentirsi la mia nena, non avendo nessuno disposto a farsela con lei tranne un negro. Ma non doveva presentarmisi la possibilità di dimostrare la mia nobiltà d'animo. Tornai a casa e vi trovai tutti gli altri servi in preda all'agitazione, in quanto Zia Zulià e Micèl erano scomparsi durante la notte. Maestro Attilio aveva già chiamato gli sbirri e quegli scimmioni della polizia stavano facendo le congetture tipiche da parte loro: dicevano che Micèl doveva aver portato con la forza Zulià sul batèlo, o che i due, usciti per qualche motivo in barca nel corso della notte, dovevano essere affogati in seguito al capovolgimento dell'imbarcazione. Per conseguenza gli sbirri avrebbero invitato i pescatori lungo la Riva di Venezia a tenere attentamente d'occhio ami e reti, e i contadini dell'entroterra Veneto a vigilare nell'eventualità che avessero veduto un barcaiolo negro che trascinava con sé una damigella bianca prigioniera. Ma poi pensarono di dare un'occhiata al canale proprio davanti a Ca' Polo, ed ecco là il batèlo innocentemente ormeggiato al suo palo, dopodiché gli sbirri si grattarono la testa, spremendosi il cervello per escogitare nuove teorie. In ogni caso, se fossero riusciti a catturare Micèl, anche senza la donna, avrebbero avuto il piacere di giustiziarlo.
Ogni schiavo fuggiasco è ipso facto un ladro, in quanto ruba ciò che appartiene al suo padrone, se stesso. Non rivelai quel che sapevo. Ero persuaso che Micèl e Zulià, allarmati dalla scoperta da parte mia dei loro sordidi rapporti, fossero fuggiti insieme. In ogni modo non vennero mai catturati né mai più si seppe qualcosa di loro. Dovevano pertanto essersi diretti verso qualche angolo remoto del mondo, come la Boemia, il paese d'origine di lei, ove avrebbero potuto condurre, nella migliore delle ipotesi, una squallida esistenza.
5. Mi sentivo a tal punto in colpa, per un gran numero di ragioni diverse, che feci una cosa senza precedenti per me. Di mia iniziativa, senza esservi costretto da nessuno, andai in chiesa a confessarmi. Non mi recai in quella del nostro confino di San Felice, poiché il vecchio parroco, Pare Nunziata, mi conosceva bene quanto gli sbirri del vicinato, ed io volevo un ascoltatore più disinteressato. Pertanto arrivai fino alla Basilica di San Marco. Lì nessuno dei sacerdoti mi conosceva, ma in quella chiesa giacevano le ossa del Santo il cui nome io porto, e speravo che sarebbero state comprensive. Sotto la grande navata a volta mi sentii insignificante come un insetto, sminuito da tutti gli ori e i marmi splendenti, nonché dai santi maestosi e solitari raffigurati nei mosaici del soffitto. Tutto, in quel meravigliosissimo edificio, è più grande del vero, compresa la sonora musica che raglia e bela da un «rigabèlo» il quale sembra troppo piccolo per poter contenere tanto volume di suono. La basilica di San Marco è sempre affollata, per cui dovetti fare la fila davanti a uno dei confessionali. Infine mi inginocchiai e mi lanciai, infervorato, nella purificazione: «Padre, sono andato troppo liberamente dove mi ha condotto la curiosità, ed essa mi ha fatto deviare dal sentiero della virtù...» Continuai su questo tono per qualche tempo, finché il prete, spazientito, mi invitò a non riferirgli "tutte" le circostanze che avevano preceduto il peccato. E così, sebbene con riluttanza, ripiegai sulla formula «ho peccato con i pensieri, le parole le opere e le omissioni», dopodiché egli mi assegnò come penitenza un certo numero di padrenostri e di salveregine ed io mi allontanai dal confessionale per cominciare a recitarli, e fui colpito dal fulmine, tanto forte fu la scossa che provai ponendo gli occhi per la prima volta su Donna Ilaria. Allora non ne conoscevo il nome, naturalmente; sapevo soltanto che stavo contemplando la più bella donna mai veduta in vita mia, e che il mio cuore le apparteneva. Si stava allontanando in quel momento ella stessa da un confessionale, per cui aveva la veletta alzata. Stentavo a credere che una dama dalla bellezza così radiosa potesse aver avuto qualcosa di più di peccati veniali da confessare, eppure, prima che ella abbassasse il velo, scorsi un luccichio, come di lacrime, negli occhi magnifici di lei. Udii un cigolio mentre il prete faceva scorrere lo sportellino del confessionale che ella aveva appena lasciato, poi anche il sacerdote ne uscì. Disse qualcosa agli altri fedeli che aspettavano in fila, ed essi mormorarono tutti stizzosamente e si diressero verso altre file. Il prete raggiunse Donna Ilaria ed entrambi si inginocchiarono su un banco vuoto. In preda a una sorta di trance, mi feci più vicino, scivolai nel banco all'altro lato del passaggio, e sbirciai i due in tralice. Sebbene rimanessero entrambi a capo chino, potei vedere che il sacerdote era giovane e bello, in un certo qual modo austero. Si potrà non crederlo, ma provai un fremito di gelosia perché la mia dama - la "mia dama" - non aveva scelto un vecchio prete rinsecchito al quale confidare i propri guai. Sia lui, sia lei - come potevo vedere anche attraverso il velo - stavano muovendo le labbra come se pregassero, ma mormoravano a momenti alterni. Supposi che egli le stesse facendo recitare qualche litania. Sarei potuto essere consumato dalla curiosità di sapere che cosa ella avesse potuto dire nel confessionale, per richiedere ora una così intima attenzione da parte del proprio confessore, ma ero di gran lunga troppo occupato nel divorarne la bellezza. Come posso descriverla? Quando osserviamo un monumento o un edificio, una qualsiasi opera d'arte o un capolavoro architettonico, ci soffermiamo su questo a quell'altro elemento. O è la
combinazione dei particolari a renderlo meraviglioso, oppure qualche singolo particolare è talmente degno di nota che riesce a riscattare il tutto dalla mediocrità. Ma il volto umano non viene mai veduto come un insieme di particolari. O ci colpisce immediatamente apparendoci bello nella sua interezza, oppure non ci piace. Se di una donna possiamo dire soltanto che ha «sopracciglia graziosamente arcuate», allora, è ovvio, abbiamo dovuto osservarla molto attentamente per accorgercene e le altre sue fattezze non meritano molto di essere contemplate. Posso dire che Ilaria aveva una carnagione serica e chiara e i capelli di un luminoso castano chiaro dai riflessi ramati, ma anche molte altre donne veneziane posseggono queste attrattive. Posso dire che aveva occhi talmente vividi da far pensare che fossero illuminati interiormente anziché limitarsi a riflettere la luce esterna. E che il mento di lei era tale da far sì che si desiderasse accoglierlo nel palmo di una mano a coppa. Che aveva quello cui io pensavo sempre come al «naso di Verona», poiché lo si vede il più delle volte in quella città: sottile e pronunciato, ma ben fatto, come la prora sottile di una snella imbarcazione, e gli occhi profondamente infossati a ciascun lato. Ma potrei lodare soprattutto la bocca. Era formata squisitamente e prometteva di essere morbida se altre labbra avessero dovuto premere su di essa. E fare qualcosa di più. Quando Ilaria e il sacerdote si rimisero in piedi contemporaneamente, dopo le orazioni, e si furono genuflessi, ella gli fece un nuovo inchino e pronunciò alcune parole sommessamente. Non rammento quali furono, ma mi sia consentito di supporre che fossero state «Vi raggiungerò dietro la cappella, padre, dopo la compieta.» Ricordo però che concluse bisbigliando «ciao», perché questo è il languido modo veneziano di dire schiava, «vostra schiava», e a me quello parve un modo stranamente familiare di salutare un prete. Ma la sola cosa a contare, in quel momento, fu il modo con il quale ella parlava: «Vi raggiungerò dietro la c-cappella, padre, dopo la c-compieta. C-ciao.» Ogni volta che increspava le labbra per pronunciare la «c», balbettava appena percettibilmente, protraendo così lo sbocciare della bocca. Questo faceva sì che le labbra di lei sembrassero pronte a baciare e in attesa di un bacio. Era delizioso. Dimenticai all'istante che avrei dovuto pregare per essere assolto da altri peccati, e cercai di seguirla quando uscì dalla chiesa. Non poteva di certo essere consapevole della mia esistenza, eppure se ne andò dalla basilica di San Marco in un modo che sembrava quasi voler scoraggiare intenzionalmente un inseguimento. Camminando con più sveltezza e destrezza di quanto sarei riuscito a fare io stesso se fossi stato inseguito da uno sbirro, si perdette tra la folla e scomparve alla mia vista. Meravigliato, feci tutto il giro della basilica, poi andai avanti e indietro lungo tutti i portici che circondano la vasta piazza. Interdetto, attraversai varie volte a zig-zag la piazza stessa, tra nuvole di colombi, poi percorsi la più piccola piazzetta, dal campanile alle due colonne davanti alla laguna. Disperando, rientrai nella grande chiesa e guardai in ogni cappella, nel santuario e nel battistero. Desolato, salii persino le scale fino a raggiungere i cavalli dorati. Infine, con il cuore infranto, tornai a casa. Dopo una notte tormentata, andai di nuovo, l'indomani, a cercarla nella chiesa e là attorno. Dovevo sembrare un'anima errabonda in cerca di sollievo. E la donna sarebbe potuta essere un angelo vagante, disceso una sola volta sulla terra; era introvabile. Pertanto mi diressi luttuosamente verso il luogo frequentato dalla combriccola della chiatta. I ragazzi mi salutarono allegri, ma Doris mi scoccò un'occhiata di disprezzo. Quando reagii con un sospiro di scoramento, Ubaldo fu premuroso e domandò che cosa avessi. Glielo dissi: una dama mi aveva rubato il cuore e poi era scomparsa. Risero tutti, tranne Doris, che a un tratto parve affranta. «Hai in mente le ragazze, in questi giorni» disse Ubaldo. «Hai l'intenzione di essere il gallo di tutte le pollastre del mondo?» «Questa è una donna fatta, non una ragazzetta» dissi io. «Ed è troppo sublime perché si possa anche soltanto pensare o alludere a lei come a una...» «Come a una potta!» gridarono in coro molti dei ragazzi. «In ogni modo» soggiunsi, strascicando con tedio le parole «per quanto concerne la potta, tutte le donne sono uguali.» Da uomo di mondo, avevo ormai veduto, anche se non in piena luce, il fantastico numero di ben due femmine nude.
«Non lo so se questo è vero» disse uno dei ragazzi, cogitabondo. «Una volta ho sentito dire, da un marinaio che aveva molto viaggiato, come si riconosce una donna più desiderabile di ogni altra per andarci a letto insieme.» «Diccelo! Diccelo!» gridò il coro. «Quando è in piedi, con le gambe unite, si dovrebbe vederle un piccolo, anzi, un piccolissimo triangolo di luce del giorno tra le cosce e la potta.» «La tua gran dama ce l'ha, il triangolo di luce del giorno?» mi domandò qualcuno. «L'ho veduta una sola volta, e si trovava in chiesa! Credi forse che potesse essere spogliata in chiesa?» «Be', allora, ce l'ha Margherita il triangolino di luce del giorno?» Dissi, e altrettanto dissero numerosi altri ragazzi: «Non ho pensato a guardare.» Margherita ridacchiò e tornò a ridacchiare quando suo fratello disse: «Non saresti riuscito a vederlo, comunque. Il sedere le pende di gran lunga troppo, dietro, come la pancia davanti.» «Guardiamo Doris!» gridò qualcuno. «Ehilà, Doris, stringi le gambe e alzati la sottana.» «Chiedilo a una vera donna!» esclamò con scherno Margherita. «Questa qui non saprebbe se deporre uova o se allattare.»: Invece di replicare con una risposta salata, come mi sarei aspettato da lei, Doris singhiozzò e corse via. Tutte quelle celie erano abbastanza divertenti e forse anche istruttive, ma i miei pensieri andavano altrove. Dissi: «Se riuscirò a ritrovare la mia dama e ad indicarvela, forse trovereste il modo di seguirla meglio di quanto abbia fatto io e potreste dirmi dove abita.» «No, grazie!» dichiarò con fermezza Ubaldo. «Molestare una dama altolocata significa correre il rischio di finire tra i pilastri.» Daniele fece schioccare le dita. «A proposito. Ho saputo che ci sarà una frustata, là ai pilastri, proprio oggi pomeriggio. Qualche povero bastardo che ha giocato d'azzardo e perduto. Andiamo intanto a vedere.» E così facemmo. La «frustata» è una pubblica fustigazione e i pilastri sono le colonne cui ho già accennato, davanti alla laguna nella piazzetta di San Marco. Una delle colonne è dedicata al Santo del quale porto il nome e l'altra all'ex santo protettore di Venezia, Teodoro, che qui chiamano Todero. Tutte le pubbliche punizioni e le esecuzioni dei malfattori hanno luogo là - «tra Marco e Todero», come diciamo noi. A richiamare soprattutto l'attenzione, quel giorno, era un uomo che noi ragazzi conoscevamo tutti, sebbene non ne sapessimo il nome. Veniva chiamato universalmente soltanto «el zudìo», che significa sia ebreo, sia usuraio, o, più comunemente, entrambe le cose. Risiedeva nel borghèto riservato a quelli della sua razza, ma l'angusta bottega nella quale cambiava valuta e prestava denaro, si trovava sulla Strada Nova, ove noi ragazzi, di recente, commettevamo quasi tutti i furti, e più volte lo avevamo veduto curvo al tavolo sul quale contava le monete. Aveva i capelli e la barba simili a una sorta di ricciuto fungo rosso che stava diventando grigio; portava, sul lungo pastrano, la pezza rotonda e gialla che lo proclamava ebreo, e aveva in testa il cappello rosso dal quale si poteva dedurre come fosse un ebreo dell'Occidente. V'erano numerosi altri appartenenti alla sua razza, tra la folla, quel pomeriggio, quasi tutti con il cappello rosso, ma se ne vedevano alcuni dal turbante giallo, che indicava la loro origine levantina. Probabilmente non sarebbero venuti di loro iniziativa a vedere un altro ebreo fustigato e umiliato, e, proprio per tale ragione, la legge veneziana obbliga tutti gli ebrei maschi adulti a essere presenti in tali occasioni. Naturalmente, la folla era formata soprattutto da non ebrei, riunitisi lì soltanto per lo spasso, e si vedeva un numero insolitamente grande di donne. El zudìo era stato riconosciuto colpevole di un reato alquanto comune - la riscossione di interessi eccessivi su qualche prestito - ma, stando alle voci che correvano, egli aveva ordito intrighi più piccanti. Secondo una diceria assai diffusa, diversamente da ogni ragionevole prestatore su pegni cristiano, che accetta soltanto gioielli, argenterie e altri oggetti preziosi, el zudìo accettava in pegno dando in cambio denaro sonante, lettere, semplici fogli di carta, sebbene dovesse trattarsi di lettere
indiscrete o di natura compromettente. Poiché numerosissime donne veneziane si servivano di scrivani proprio per stilare lettere di questo genere, o affinché leggessero loro lettere analoghe che ricevevano, forse tutte quelle donne volevano osservare el zudìo, domandandosi se fosse in possesso di lettere compromettenti che le concernevano. O forse, come fanno così spesso molte donne, volevano semplicemente assistere alla fustigazione di un uomo. L'usuraio venne condotto fino al palo della fustigazione da numerosi gastaldi in uniforme e dall'uomo prescelto per confortarlo, un appartenente alla laica Fratellanza della Giustizia. Il Fratello, allo scopo di rimanere anonimo in quell'avvilente incarico di consolatore di un ebreo, indossava una lunga veste e portava un cappuccio con fori per gli occhi. Un pregado della Quarantia si trovava là dove ero venuto a trovarmi io il giorno prima - alto sopra la folla, vicino ai quattro cavalli di San Marco - e a questo punto lesse con voce squillante: «In quanto il condannato Mordecai Cartafilo si è comportato assai crudelmente contro la pace dello Stato e l'onore della Repubblica e la virtù dei suoi cittadini... deve espiare sopportando tredici vigorosi colpi di frusta, ed essere poi rinchiuso in un pozzo delle prigioni mentre i Signori della Notte indagheranno su altri particolari dei suoi crimini...» El zudìo, quando, come voleva la costumanza, gli venne domandato se avesse motivo di protestare contro la sentenza, si limitò a grugnire, noncurante: «Non è né buona né cattiva». Il miserabile poteva avere scrollato le spalle, abbastanza noncurante, prima di sentire la frusta, ma negli svariati minuti successivi fece dell'altro. Dapprima grugnì, poi gridò e poi ululò. Sbirciai la folla intorno a me - tutti i cristiani annuivano con un'aria di approvazione, mentre gli ebrei cercavano di guardare altrove; poi il mio sguardo si soffermò su un certo viso e vi rimase inchiodato, dopodiché cominciai a insinuarmi tra la ressa per essere più vicino alla dama che avevo perduta e ritrovata. Alle mie spalle si levò un urlo e la voce di Ubaldo gridò: «Olà, Marco, non stai ascoltando la musica della sinagoga!» Ma non mi voltai. Non intendevo correre il rischio di consentire alla donna di sottrarsi alla mia vista anche questa volta. Ella aveva di nuovo sollevato il velo, per meglio vedere le frustate, e una volta di più i miei occhi banchettarono con la bellezza di lei. Mentre mi avvicinavo, vidi che si trovava al fianco di un uomo alto di statura avvolto in un mantello il cui cappuccio era molto abbassato sul viso; rimaneva anonimo quasi quanto l'appartenente alla Fratellanza della Giustizia accanto al palo delle fustigazioni. E allorché fui vicinissimo, lo udii mormorare alla mia dama: «Allora siete stata proprio voi a parlare al muso.» «Il c-caro ebreo lo meritava» disse lei, facendo sporgere, per un attimo delizioso, le labbra. Egli mormorò: «Una pollastrella dinanzi a un tribunale di volpi.» Lei rise appena, ma non divertita. «Avreste preferito che consentissi alla pollastrella di andare al confessionale, padre?» Mi domandai se la dama fosse più giovane di quanto sembrava, dato che si rivolgeva ad ogni uomo dandogli del padre. Ma poi, essendo io più basso di statura di lui, riuscii con una sbirciatina furtiva a vedere qualcosa sotto il cappuccio dello sconosciuto e potei constatare che si trattava del prete del giorno prima nella basilica di San Marco. Domandandomi perché mai dovesse andare in giro nascondendo la veste sacerdotale, ascoltai ancora, ma la loro sconnessa conversazione non mi rivelò nulla. Egli disse, limitandosi a un mormorio: «Avete sbagliato vittima. Colui che potrebbe parlare, non colui che potrebbe ascoltare.» Di nuovo la mia dama rise e disse, maliziosa: «Non pronunciate mai il nome di quel tale.» «Allora pronunciatelo voi» mormorò lui. «Ditelo al muso. Date alle volpi un caprone anziché una pollastrella.» Ella scosse la testa. «Quel tale - quel vecchio caprone - ha amici tra le volpi. Mi occorre un mezzo ancor più segreto del muso.»
L'uomo tacque per qualche momento. Poi mormorò: «Bene.» Supposi che, con quel mormorio, stesse plaudendo all'azione della frusta; la fustigazione cessò proprio in quel momento, dopo un ultimo ululato penetrante. La folla cominciò a mettersi in moto, sul punto di disperdersi. La mia dama disse: «Sì, esaminerò questa possibilità. Ma ora» - e toccò il braccio di lui, coperto dal mantello - «quel tale si sta proprio avvicinando.» Il prete avvolse ancor più strettamente il cappuccio intorno al viso e seguì la folla, allontanandosi da lei. Ella venne raggiunta da un altro uomo; quest'ultimo, con i capelli brizzolati, rosso in faccia, vestito con abiti lussuosi quanto quelli della donna - forse il suo vero padre, pensai - disse: «Ah, sei qui, Ilaria. Come mai siamo stati separati?» Era la prima volta che udivo il nome della mia dama. Lei e l'uomo più anziano si allontanarono insieme, ella cicalando allegramente e dicendo «come sono state assestate bene le frustate, che bella giornata per una fustigazione» e facendo altre osservazioni di questo genere, tipicamente femminili. Io rimasi indietro quanto bastava per non essere notato, ma li seguii come se mi trascinassero con una cordicella. Temevo che arrivassero soltanto fino al molo e poi scendessero sul batèlo o sulla gondola dell'uomo. In tal caso mi sarebbe stato assai difficile continuare a seguirli. Tutti coloro, tra la folla, che non possedevano un'imbarcazione privata, stavano dando la caccia alle barche da nolo. Ma Ilaria e il suo compagno voltarono nella direzione opposta e attraversarono la piazzetta diretti verso la piazza principale; evitarono la ressa rasentando il muro del Palazzo dei Dogi. La ricca veste di Ilaria sfiorava le sculture di marmo a forma di teste di leone che sporgono dal muro del palazzo all'altezza della vita. I veneziani le chiamano i «musi da denonzie secrete», e ve n'è uno per ognuno dei vari tipi di reati: contrabbando, evasione fiscale, usura, cospirazione contro lo Stato, e così via. I musi hanno fessure al posto della bocca, e, dall'altra parte, entro il palazzo, se ne stanno accovacciati, simili a ragni, gli agenti della Quarantia, in attesa che la ragnatela vibri. Non devono aspettare a lungo tra un allarme e l'altro. Nel corso degli anni, quelle fessure sono state consumate, divenendo sempre più ampie e più lisce, per innumerevoli mani che infilano in esse messaggi anonimi accusando di reati nemici, creditori, amanti, vicini, parenti e persino estranei. Siccome l'accusatore rimane sconosciuto e può accusare senza addurre prove, e siccome la legge non tiene quasi in alcun conto la perfidia, la calunnia, la frustrazione e l'odio, spetta all'accusato dimostrare la falsità delle accuse. La cosa non è facile, e di rado vi si riesce. L'uomo e la donna girarono intorno a due lati dei portici della piazza, ed io continuai a seguirli vicino quanto bastava per udirne la sconnessa conversazione. Poi entrarono in una delle case sulla piazza stessa e, a giudicare dal comportamento del servo il quale aprì loro la porta, apparve chiaro che abitavano lì. Queste case nel cuore stesso della città non sono molto decorate all'esterno e pertanto non vengono denominate palazzi. Hanno nome «case mute», perché la loro semplicità esteriore non dice nulla a proposito della ricchezza di chi le occupa, vale a dire le più antiche e le più nobili famiglie di Venezia. Di conseguenza, sarò anch'io altrettanto muto per quanto concerne la casa fino alla quale seguii Ilaria, e non correrò il rischio di gettare la vergogna sul nome di quella famiglia. Venni a sapere altri due particolari durante il breve pedinamento. Da alcune frasi della conversazione apparve chiaro, anche ad uno inebetito come me, che l'uomo dai capelli brizzolati non era il padre di Ilaria, ma suo marito. Questo mi causò una certa sofferenza, ma la superai grazie alla riflessione che una donna giovane, dal marito anziano, sarebbe dovuta essere più prontamente suscettibile alle attenzioni di un uomo molto più indietro negli anni, come me. L'altra cosa che udii fu quanto dissero a proposito della festa che doveva aver luogo la settimana successiva. (Avrei dovuto accennare al fatto che eravamo nel mese di aprile, il venticinque del quale è il giorno di San Marco; e a Venezia questa giornata è sempre una festa di fiori, di allegria e di maschere dedicate a «San Marco dei Boccioli». Questa città ama i festeggiamenti e gradisce tale ricorrenza perché capita ogni anno dopo che non vi sono state più feste sin dal Carnevale, circa due mesi prima.) L'uomo e la donna parlarono dei costumi che si stavano facendo preparare nonché dei vari balli ai quali erano stati invitati, ed io sentii un'altra fitta al cuore perché tutte queste feste avrebbero avuto
luogo dietro a porte chiuse per me. Ma poi Ilaria dichiarò che intendeva altresì partecipare alle passeggiate all'aperto, alla luce delle torce, quella notte. Il marito di lei protestò un poco, borbottando a proposito della ressa e della calca da sopportare «tra il volgo», ma Ilaria insistette ridendo, e il mio cuore riprese a battere con speranza e risolutezza. Non appena i due furono scomparsi entro la loro «casa muta», corsi verso una bottega che conoscevo vicino al Rialto. Intorno all'ingresso erano appese maschere di stoffa, di legno e di cartapesta, rosse, nere, bianche e color rosa, con espressioni e fattezze grottesche, comiche, demoniache o realistiche. Irruppi nella bottega gridando a colui che creava le maschere: «Fatemi una maschera per la Festa di San Marco! Preparatemi una maschera che mi faccia sembrare bello ma più avanti negli anni! Fate in modo che ne dimostri più di venti! Ma fatemi sembrare, altresì, ben conservato e virile e galante!»
6. E così, la mattina di quella giornata festiva di fine aprile, indossai gli abiti migliori che possedessi, senza dover essere invitato a farlo da alcuno dei servi. Mi misi un farsetto di velluto color ciliegia, un paio di brache di seta color lavanda, calzai le scarpe rosse di Còrdoba che portavo di rado e, sopra il tutto, avvolsi un pesante mantello di lana il cui scopo era quello di mascherare l'esilità del mio corpo. Nascosi la maschera sotto il mantello, uscii di casa e andai a mettere alla prova il mio mascheramento con i ragazzi della chiatta. Mentre mi avvicinavo al loro rifugio, tirai fuori la maschera e me l'applicai al viso. Aveva sopracciglia e vistosi baffi fatti di peli veri e le fattezze erano quelle del viso rugoso e abbronzato dal sole di un marinaio che abbia navigato su remoti oceani. «Olà, Marco» dissero i ragazzi. «Sana capana.» «Mi "riconoscete"? Sono il "Marco" di sempre?» «Mmmm. Ora che lo dici...» mormorò Daniele. «No, non somigli molto al Marco che conosciamo. Che cosa sembra, secondo te, Boldo?» Spazientito, esclamai: «Non ho l'aspetto di un navigatore più che ventenne?» «Be'...» fece Ubaldo. «Un navigatore piccoletto...» «Il vitto sulle navi è alquanto scarso» osservò Daniele, volonteroso. «Avrebbe potuto ritardarti nella crescita.» Ero molto irritato. Quando Doris sbucò fuori dalla chiatta e immediatamente disse: «Olà, Marco», girai sui tacchi, pronto a maltrattarla. Ma quel che vidi mi indusse a trattenermi. Anche lei sembrava essersi mascherata per festeggiare la giornata. Si era lavata i capelli, in precedenza di un colore indefinibile, rivelando così che erano di un bell'oro-paglia. Si era inoltre lavata e incipriata la faccia, rendendola di un pallore attraente, come fanno le donne adulte a Venezia. Vestiva per giunta come una vera donna: indossava una gonna di broccato ricavata, restringendola, da quella che era stata un tempo di mia madre. Doris piroettò per far turbinare la gonna e disse, timidamente: «Non sono signorile e bella come la lustrisima dama che ami, Marco?» Ubaldo borbottò qualcosa a proposito di «tutte queste dame nane e tutti questi gentiluomini nani» ma io mi limitai a fissarlo irosamente. Doris insistette: «Non vuoi venire a passeggio con me, Marco, in questo giorno di festa?... Di che cosa stai ridendo?» «Delle tue scarpe.» «Cosa?» bisbigliò lei, e si rabbuiò in viso. «Rido perché nessuna "dama" porta mai quegli orribili tofi di legno.» Ella parve indicibilmente offesa e rientrò nella chiatta. Io indugiai quanto bastava perché i ragazzi mi assicurassero - e riuscissero a farmelo credere a mezzo - che nessuno avrebbe riconosciuto in me un mero adolescente, tranne coloro i quali già mi conoscevano come tale. Poi li lasciai e mi recai in piazza San Marco. Era di gran lunga troppo presto perché la gente fosse già uscita a divertirsi, ma Donna Ilaria non aveva descritto il suo costume mentre ascoltavo di nascosto. Sarebbe potuta essere
mascherata quanto me e quindi, per riconoscerla, dovevo trovarmi davanti alla porta di casa sua quando fosse uscita per andare al primo dei balli. Avrei potuto attrarre una sgradita attenzione, oziando lì, a un lato di una delle arcate dei portici, come un tagliaborse novellino e stupido all'estremo, ma per fortuna non ero la sola persona nella piazza già mascherata in modo impressionante. Sotto quasi ogni arcata, un matacìn o un montimbanco in maschera stavano montando la loro pedana e, prima ancora che vi fosse davvero un numero sufficiente di spettatori dinanzi ai quali esibirsi, cominciavano a fare sfoggio dei loro talenti. Ne fui lieto, poiché avevo così qualcosa da guardare, a parte il portoncino della casa muta. I montimbanchi, avvolti in vesti simili a quelle dei medici o degli astrologi, ma costellate in modo più stravagante di stelle e lune e soli, si esibivano in vari giuochi di prestigio, oppure, girando la manovella, suonavano un ordegnogorgia per attrarre l'attenzione e, una volta osservati da un qualsiasi passante, cominciavano chiassosamente a offrire in vendita i loro farmaci naturali: erbe essiccate, liquidi colorati, funghi e così via. I mattaccini, ancora più sfarzosi con la faccia vistosamente imbellettata e costumi a scacchi e a losanghe, non avevano altro da vendere che la loro agilità. Per cui spiccavano balzi sulle loro pedane, o vi saltavano sopra o ne saltavano fuori, eseguendo acrobazie e danze della spada; si contorcevano in fantastici grovigli, si lanciavano a vicenda, con destrezza, una serie di palle o di arance, e poi, quando si riposavano per riprendere fiato, facevano il giro con il cappello affinché gli spettatori vi gettassero una monetina. Man mano che la giornata trascorreva, giunsero altri giocolieri che montarono le loro pedane sulla piazza; vennero anche i venditori di confèti e dolciumi e bibite rinfrescanti, e anche il popolino circolò sempre più numeroso, sebbene nessuno indossasse ancora i vestiti della festa. La gente si riuniva intorno a una pedana e osservava le medicine di un montimbanco oppure ascoltava un castròn cantare barcarole con l'accompagnamento del liuto, poi, non appena l'artista cominciava a girare con il cappello in mano, o il venditore a offrire le sue mercanzie, si spostavano verso un'altra pedana. Molte di quelle persone andavano dall'uno all'altro imbonitore finché non giungevano ove io me ne stavo in disparte con la maschera e il mantello e allora si piazzavano lì, mi fissavano e si aspettavano che facessi qualcosa di divertente. La cosa era lievemente fastidiosa, in quanto non potevo fare altro che sudare - la giornata primaverile essendo divenuta insolitamente calda - e sforzarmi di assumere l'aspetto di un servo lasciato in paziente attesa del padrone. La giornata continuò a trascorrere, interminabilmente lenta, ed io mi rammaricai di non essermi messo un mantello più leggero e desiderai di poter uccidere ognuno dei milioni di odiosi piccioni nella piazza, e mi sentii grato per ogni diversivo che capitava. I primi cittadini a giungere senza indossare gli abiti di ogni giorno furono quelli delle corporazioni d'arti e mestieri, con le vesti cerimoniali. La corporazione dei medici, dei barbieri-chirurghi e dei farmacisti sfoggiava alti cappelli conici e vesti rigonfie. La corporazione dei pittori e dei miniaturisti indossava vesti che potevano essere di semplice tela, ma splendevano essendo decorate, nel modo più fantasioso, da oro in fogli e coloratissime. La corporazione dei lavoratori del cuoio e dei conciapelli esibiva grembiuli di cuoio con disegni decorativi che non erano dipinti o cuciti, bensì impressi a fuoco. Quando tutte le numerose corporazioni furono riunite nella piazza, il Doge Ranieri Zeno uscì dal suo palazzo e, sebbene le vesti da cerimonia di lui fossero alquanto familiari a me e a tutti gli altri, erano sufficientemente sfarzose per qualsiasi festività. Egli aveva sul capo la scufièta bianca e la cappa di ermellino sulla veste dorata il cui strascico veniva tenuto sollevato da tre servi che indossavano la livrea ducale. Dopo il Doge uscì il seguito, i componenti del Consiglio e della Quarantia, nonché altri nobili e funzionari, tutti analogamente e sfarzosamente vestiti. E dietro di loro venne una banda di musicanti, ma non suonarono i liuti, i flauti e le ribeche mentre andavano, a passi misurati, verso il molo. Il bucintoro a quaranta rematori del Doge stava scivolando proprio in quel momento contro la banchina, e il corteo salì a bordo. Soltanto dopo che la sfavillante imbarcazione era giunta molto al largo sull'acqua, i musicanti cominciarono a suonare. Aspettano sempre in questo modo, perché sanno quanto si avvantaggi la musica assumendo una particolare soavità quando viene echeggiata dalle piccole onde fino agli ascoltatori a terra.
Verso l'ora della compieta calò il crepuscolo, e i lampaderi si aggirarono nella piazza, accendendo le torce sopra le arcate; io continuavo ad aspettare a breve distanza dal portoncino della Dama Ilaria. Mi sembrava di essere rimasto lì per tutta la vita e stavo cominciando a sentirmi indebolito dalla fame - poiché non avevo osato arrivare nemmeno fino al banchetto del fruttivendolo - ma ero deciso ad aspettare per tutto il resto della mia esistenza, se fosse stato necessario. Per lo meno, a quell'ora non mi trovavo più tanto in vista, la piazza essendo ormai affollata; e quasi tutti coloro che vi passeggiavano indossavano un qualche tipo di costume. Alcuni danzavano alla lontana musica della banda del Doge, altri cantavano accompagnando i cinguettanti castroni; ma la maggior parte delle persone si limitava a passeggiare avanti e indietro per ostentare i propri orpelli e ammirare quelli altrui. I giovani si bersagliavano a vicenda con i confèti, vale a dire manciate di veri confetti e gusci d'uova riempiti con acqua profumata. Le fanciulle più avanti negli anni avevano con sé arance e aspettavano di vedere qualche corteggiatore preferito contro il quale lanciarne una. Si suppone che questa costumanza ricordi il dono nuziale dell'arancia scambiato tra Giove e Giunone e ogni giovane può vantarsi di essere un Giove particolarmente prediletto se la sua Giunone lo colpisce con l'arancia così violentemente da fargli un occhio nero o magari da causargli la perdita di un dente. Poi, mentre la penombra del crepuscolo si infittiva, giunse dal mare la caligine, la nebbia salsa che così spesso avvolge Venezia durante la notte, ed io cominciai ad essere contento del mantello di lana. In quella nebbia, le fiamme guizzanti delle torce, sui sostegni di ferro, si tramutarono in globi luminosi dai tenui contorni, magicamente sospesi nel vuoto. Quanto alle persone nella piazza, divennero a loro volta chiazze più scure e più compatte di nebbia in movimento nell'altra nebbia più tenue, tranne quando passavano tra me e la sfera luminosa di una delle torce. In quei momenti irradiavano stravaganti raggi e cunei d'ombra che baluginavano simili a nere lame di spade, fendendo la nebbia grigia. Soltanto quando uno di coloro che passeggiavano mi veniva vicinissimo diventava fuggevolmente solido, poi, l'attimo dopo, tornava a dissolversi. Come qualcosa emerso dai sogni, un angelo assumeva concretezza: una fanciulla tutta lustrini e tulle e occhi ridenti, che si fondeva poi con qualcos'altro emerso dagli incubi: Satana, dalla rossa faccia verniciata e con le corna. Improvvisamente la porta alle mie spalle si spalancò e la grigia nebbia venne squarciata dalla luce vivida di una lampada. Mi voltai, vidi due ombre contro il chiarore, che si tramutarono nella mia dama e nel marito di lei. Invero, se non mi fossi trovato accanto alla porta, non avrei potuto riconoscere nessuno dei due. Egli si era trasformato completamente, divenendo uno dei classici tipi delle mascherate, il buffo medico, il Dotor Balanzòn. Ma Ilaria era cambiata a tal punto che, lì per lì, non riuscii a stabilire in che cosa si fosse tramutata. Una mitra bianca e dorata nascondeva i capelli color bronzo di lei, una mascherina corta le celava gli occhi e strati su strati di camice, casula, mantello e stola facevano della sua snella figura una tozza forma a cupola. Poi mi resi conto che si era mascherata come la Papessa Zuàna dei tempi antichi. Quel costume doveva esserle costato un patrimonio ed io temetti che le sarebbe costato anche una pesante condanna se qualche vero clericale l'avesse sorpresa vestita come quella leggendaria papessa. Attraversarono la piazza passando tra il porridge di gente e immediatamente si immedesimarono con lo spirito della festa: lei lanciando confèti alla maniera di un prete che asperge con l'acqua santa, e lui distribuendoli alla maniera di un médego che dispensa dosi. La loro gondola li aspettava dalla parte della laguna; vi salirono e l'imbarcazione si staccò dal molo, diretta verso il Canal Grande. Dopo un attimo di riflessione, non mi diedi la pena di chiamare un'altra gondola sulla quale seguirli. La caligine era ormai tanto fitta che tutte le imbarcazioni in acqua si stavano muovendo con estrema cautela e in prossimità della riva. Questo mi rendeva più facile non perdere di vista la preda e seguirla trotterellando sulle vie lungo i canali e di tanto in tanto aspettando su un ponte per vedere quale canale avrebbe percorso la gondola là ove esisteva una diramazione. Trotterellai a lungo, quella notte, mentre Ilaria e il marito passavano dall'uno all'altro grande palazzo, dall'una all'altra casa muta. Ma aspettai ancora più a lungo all'esterno di quelle dimore, con la sola compagnia di gatti vagabondi, mentre la mia dama si godeva le feste all'interno.
Celato nella nebbia che sapeva di salso, ormai tanto densa da condensarsi sulle gronde, sulle arcate e sulla punta del naso della mia maschera, e da gocciolarne, ascoltavo la musica soffocata entro le case e immaginavo Ilaria intenta a danzare la furlana. Mi addossavo ai muri bagnati e scivolosi e invidiosamente adocchiavo i vetri delle finestre al di là dei quali la luce delle candele baluginava attraverso la nebbia. Mi mettevo a sedere sulle balaustrate gelide dei ponti e udivo il mio stomaco gorgogliare e mi sembrava di vedere Ilaria intenta ad affondare i piccoli denti, con grazia, nei pasticcini e nei bignè. Mi alzavo, battevo i piedi che a poco a poco erano andati intorpidendosi e di nuovo maledicevo il mantello, in quanto si appesantiva sempre più, saturo di umidità e freddo, arrivandomi fino alle caviglie. Nonostante quella mia zuppa infelicità, mi raddrizzavo e cercavo di sembrare qualcuno che innocentemente stesse facendo baldoria ogni qual volta altre persone in maschera emergevano dalla caligine e mi gridavano brilli saluti - un bufòn cachinnante, un barcollante corsaro, tre ragazzi che folleggiavano in compagnia, mascherati da tre «m», médego, musicante e matto. Nella città, durante le notti di festa, non viene suonato il coprifuoco, ma, quando fummo arrivati al terzo o quarto palazzo di quella notte, e mentre aspettavo, zuppo, all'esterno, udii le campane di tutte le chiese annunciare la compieta. Come se quello fosse stato un segnale, Ilaria sgattaiolò fuori del salone da ballo, uscì dal palazzo e venne direttamente verso il punto ove me ne stavo rannicchiato entro una rientranza del muro, con il cappuccio e il mantello strettamente avvolti intorno a me. Ella era ancora mascherata da papessa, ma aveva deciso di togliersi il domino. Disse, sommessamente: «Caro», il saluto impiegato soltanto tra amanti, e questo mi fece irrigidire come una statua. L'alito di lei sapeva soavemente di un liquore quando ella bisbigliò verso le pieghe del mio cappuccio: «Il vecchio caprone si è ubriacato, finalmente, e non ci verrà a cercare... "Dio me varda! Chi siete?"» Così dicendo indietreggiò da me. «Mi chiamo Marco Polo» risposi. «Vi ho seguita...» «Sono stata scoperta!» esclamò lei, con una voce così stridula da farmi temere che uno sbirro potesse udirla. «Voi siete il suo bravo!» «No, no, mia signora!» Mi misi in piedi e spinsi indietro il cappuccio. Poiché la maschera da navigatore l'aveva tanto spaventata, mi liberai anche di quella. «Non appartengo a nessuno, soltanto a voi!» Ella indietreggiò ancora, gli occhi spalancati e increduli. «Siete un ragazzo!» Questo non potevo negarlo, ma mi era possibile precisare. «Con l'esperienza di un uomo» mi affrettai a dire. «Vi ho amata e vi ho cercata sin dalla prima volta che vi ho veduta.» Ilaria socchiuse gli occhi per osservarmi più attentamente. «Che cosa state facendo, qui?» «Aspettavo» farfugliai «di deporre il mio cuore ai vostri piedi, di mettere il mio braccio al vostro servizio e di affidarvi la mia sorte.» Ella si guardò attorno nervosamente. «Ne ho già a sufficienza di paggi. Non voglio assumere...» «Non voglio essere assunto!» dichiarai. «Per amore della mia dama, la servirò in eterno!» Forse avevo sperato in uno sguardo di intenerita resa. Lo sguardo che lei mi rivolse fu, più che altro, di esasperazione. «Ma questa è l'ora della compieta» disse. «Dove è... Sì, dico, non avete veduto nessun altro qui attorno? Siete solo?» «No, non é solo» disse un'altra voce, una voce molto pacata. Mi voltai e mi resi conto che la punta di una spada mi aveva sfiorato la nuca. Si stava ritraendo proprio in quel momento nella nebbia, e rifletté un bagliore freddo, di acciaio imperlato di rugiada, mentre scompariva sotto il mantello di colui che la stava maneggiando. Mi era sembrato che la voce fosse quella del prete amico di Ilaria, ma i preti non sono armati di spada. Prima che io o lei avessimo potuto parlare, la sagoma incappucciata tornò a mormorare. «Vedo dal vostro costume di stanotte, mia signora, che siete una burlona. Sia pure. Adesso la burlona è burlata. Questo giovane intruso vuole essere il bravo di una dama ed è disposto a servirla senza paga, ma per amore. Consentiteglielo, allora, e che questa sia la vostra penitenza per la burla.» Ilaria risucchiò il respiro e prese a dire: «State insinuando...»
«Vi sto assolvendo. Siete già perdonata, qualsiasi cosa debba essere fatta. E quando l'ostacolo più grande sarà stato eliminato, il più piccolo potrà essere più facilmente rimosso.» Ciò detto, la sagoma nebulosa indietreggiò ancora nella nebbia, si fuse con la nebbia e scomparve. Non avevo idea di quello che poteva essere stato il senso delle parole dello sconosciuto, ma mi rendevo conto che egli aveva parlato a mio favore e gli ero grato. Tornai a voltarmi verso Ilaria, che mi osservava con una sorta di mesto apprezzamento. Ella infilò sotto la veste un'esile mano, prese il domino e se lo portò davanti agli occhi, come per nascondervi qualcosa. «Vi chiamate... Marco?» Chinai il capo e mormorai che quello era il mio nome. «Dite di avermi seguita. Sapete dove abito?» Farfugliai un sì. «Presentatevi là domani, Marco. Alla porta di servizio. All'ora del mezzo vespro. Non venitemi meno.»
7. Non la delusi, almeno in fatto di puntualità. Il pomeriggio dell'indomani mi presentai, come ella aveva ordinato, e la porta della servitù venne aperta da una vecchia megera. Gli occhietti della megera erano diffidenti come se la vecchia fosse stata a conoscenza di ogni cosa vergognosa di Venezia, e la donna mi fece entrare in casa disgustata quasi io avessi rappresentato una delle peggiori. Mi condusse di sopra, lungo un corridoio, puntò l'indice avvizzito verso una porta e mi lasciò solo. Bussai e Donna Ilaria aprì. Entrai ed ella fece scorrere il chiavistello alle mie spalle. Mi invitò a sedermi, poi andò avanti e indietro, osservandomi riflessiva. Indossava un vestito coperto di scaglie color dell'oro, che brillavano come le scaglie di un serpente. Era un vestito aderente ed ella camminava con un'andatura sinuosa. La dama avrebbe avuto un aspetto alquanto insidioso e pericoloso, se non fosse stato per il fatto che continuava a torcersi le mani, tradendo così la propria incertezza perché ci trovavamo insieme soli. «Ho continuato a pensare a voi da stanotte» disse. Io mi accinsi a riecheggiare con tutto il cuore queste parole, ma non riuscii a trovare la voce e lei continuò. «Dite di avere dec-ciso di servirmi, e v'è, in effetti, un servigio che potreste rendermi. Dite inoltre che lo fareste per amore, e, lo confesso, questo desta la mia... la mia curiosità. Ma credo sappiate che ho marito.» Deglutii sonoramente e dissi che, sì, lo sapevo. «E' molto più anziano di me, e amareggiato dalla vecchiaia. E' geloso della mia gioventù e invidioso di tutte le cose giovanili. Inoltre ha un'indole violenta. Ovviamente non posso assicurarmi i servigi di un giovanotto - per non parlare di godermene l'amore. Capite? Potrei desiderarlo, persino anelarlo, ma non posso, perché sono una donna maritata.» Riflettei un momento su queste parole, poi mi schiarii la gola e dissi ciò che mi sembrava ovvio: «Un marito anziano muore, prima o poi, e voi sarete ancora giovane.» «Capite, allora!» Smise di torcersi le mani e le batté, applaudendo. «Siete di intelligenza pronta per essere così... un uomo così giovane.» Reclinò il capo, per meglio guardarmi con ammirazione. «Sicché deve morire. Eh?» Deluso, mi alzai per andarmene; ci eravamo trovati d'accordo, supponevo, nel senso che ogni anelato rapporto tra noi doveva aspettare fino a quando il suo irascibile e anziano marito fosse deceduto. Il rinvio non mi rallegrava, ma, come aveva detto Ilaria, eravamo entrambi giovani. Potevamo trattenerci per qualche tempo. Prima che avessi potuto voltarmi verso la porta, tuttavia, ella venne a mettersi molto vicina a me. Mi si schiacciò contro, in effetti, abbassò lo sguardo fissandomi negli occhi e, molto sommessamente, domandò: «Come lo farete?» Deglutii e dissi, rauco: «Come farò che cosa, mia signora?» Lei rise, una risatina da cospiratrice. «Siete anche discreto, per giunta! Ma credo che dovrò saperlo, perché sarà necessario studiare, prima, qualche piano per garantire che non debba... In ogni modo, questo può aspettare. Per il momento, fingiamo che vi abbia chiesto come... mi amerete.» «Con tutto il cuore!» risposi, una sorta di gracidio.
«Oh, anche con questo, speriamolo. Ma senza dubbio... vi scandalizzo, Marco?... anche con qualche altra parte di voi?» E rise allegramente di quella che doveva essere stata l'espressione di sorpresa stampatasi sulla mia faccia. Emisi un suono strozzato, tossii e dissi: «Sono stato l'allievo di una maestra esperta. Quando sarete libera e potremo fare l'amore, saprò come regolarmi. Ve lo assicuro, mia signora, non mi renderò ridicolo.» Ella inarcò le sopracciglia e disse: «Bene! Sono stata corteggiata con promesse di molte e diverse delizie, mai però proprio di questa.» Mi studiò ancora, attraverso ciglia che erano come artigli protesi verso il mio cuore. «Dimostratemi, allora, come riuscirete a non rendervi ridicolo. Vi devo almeno un onesto compenso in cambio dei vostri servigi.» Ilaria portò le mani alle spalle e, in qualche modo, slacciò la veste dorata e attillata. Le scivolò giù fino alla vita. Lei si tolse la bustina che portava sotto, lasciandola cadere sul pavimento. Potevo contemplare, adesso, i seni fatti di latte e di rose. Dovetti tentare, credo, di afferrarla e al contempo di strapparmi di dosso i vestiti, poiché ella si lasciò sfuggire un gridolino. «Chi è stato a insegnarti, ragazzo? Una capra? Vieni a letto.» Tentai di mitigare la mia avidità di adolescente con un decoro virile, ma questo mi riuscì ancor più difficile quando venimmo a trovarci sul letto, entrambi completamente spogliati. Il corpo di Ilaria mi apparteneva, potevo assaporarlo in ogni suo invitante particolare, ed anche un uomo la cui volontà fosse stata più forte della mia avrebbe preferito rinunciare ad ogni ritegno. Color del latte e delle rose, fragrante di latte e di rose, delicata come il latte e le rose, la carne di lei era così mirabilmente diversa da quella scura e ruvida di Margherita e di Zulià che ella sarebbe potuta appartenere a una razza nuova e superiore. Soltanto a stento riuscii a trattenermi dal mordicchiarla per accertare se il suo sapore fosse squisito come era squisito contemplarla, odorarla e toccarla. Glielo dissi e lei sorrise e si stiracchiò languidamente e chiuse gli occhi e mi suggerì: «Mordicchiala, allora, ma c-con dolcezza. Fammi "tutte" le cose interessanti che hai imparato.» Feci scorrere un dito tremulo per tutta la lunghezza del suo corpo, dalla frangia delle ciglia abbassate al profilo del grazioso naso di Verona, poi sulle labbra tumide, sul mento e sulla serica gola, sulla collinetta di un sodo seno e sull'impertinente capezzolo, quindi più giù, sul ventre liscio e arrotondato, fino al piumaggio di serici peli là in basso ed ella si contorse e miagolò di piacere. Poi ricordai qualcosa che mi indusse a fermare lo scorrere del dito in quel punto. Con soave disinvoltura le dissi: «Non mi trastullerò con la tua potta, nel caso che tu debba pisciare.» Tutto il corpo di lei sobbalzò ed ella spalancò gli occhi ed esplose: «"Amore Dei!"» e irosamente si scostò da me. Inginocchiata sulla sponda del letto mi fissò come se fossi stato un qualcosa appena sbucato fuori da qualche crepa nel pavimento. Dopo avermi fulminato con lo sguardo per un momento, domandò: «Chi "è stato" a insegnarti, asenazzo?» Io, il somaro, farfugliai: «Una ragazza della gente dei moli.» «Dio t'agiuta» sospirò lei. «Meglio una capra.» Si ridistese, ma voltata sul fianco, il capo appoggiato a una mano, per poter continuare a fissarmi. «Ora sono davvero curiosa» disse. «Poiché non devo... scusarmi... che cosa farai adesso?» «Be'» risposi, sconcertato, «metto il mio... Sai, la mia candela... Nella tua, ehm... E la muovo. Su e giù. E, be', ecco quello che faccio.» Seguì un silenzio attonito e terribile, finché io dissi, a disagio: «Non è così?» «Ma credi davvero che tutto si riduca a questo? Una melodia su una sola corda?» Ella scosse la testa, con lento stupore. Miseramente, feci per alzarmi dal letto. «No, non andartene. Non muoverti. Resta dove sei e lascia che ti insegni come si deve. Dunque, tanto per cominciare...» Rimasi sorpreso, ma piacevolmente, venendo a sapere che fare l'amore sarebbe dovuto essere un po' come fare musica, e che, «tanto per cominciare», entrambi i suonatori dovevano iniziare il concerto tenendosi a distanza dagli strumenti principali... servendosi invece delle labbra, delle ciglia e dei lobi delle orecchie. La musica poteva essere quanto mai godibile anche nei suoi pianissimi iniziali. Ma la musica passò al vivace quando Ilaria introdusse come strumenti i sodi seni e i capezzoli
morbidamente rigidi, stuzzicandomi e invitandomi a servirmi della lingua, anziché delle dita, per pizzicarne le note. A quel pizzicato ella diede, letteralmente, una voce e cantò accompagnata dalla musica. Durante un breve intervallo tra questi cori, mi informò, con la voce divenuta bisbigliante: «Hai udito, adesso, l'inno del convento.» Imparai inoltre che le donne possiedono realmente la lumagheta della quale avevo sentito parlare, e che il termine è esatto in entrambe le sue accezioni. La lumagheta è davvero un qualcosa che somiglia in qualche modo a una piccola lumaca, ma la sua funzione è più simile a quella della chiavetta per accordare impiegata dal suonatore di liuto. Quando Ilaria mi mostrò, facendolo prima lei stessa, come si manipola la lumagheta, delicatamente e con destrezza, riuscii a farla vibrare e fremere e deliziosamente suonare come un vero e proprio liuto. Ella mi insegnò anche altre cose, che non poteva fare lei stessa e che la mia immaginazione non si sarebbe mai sognata. Così, a un certo momento, muovevo le dita come sulle sbarrette rilevate di uno strumento a corda e subito dopo mi servivo delle labbra alla maniera di chi suona la dulzaina e, di lì a qualche attimo ancora, facevo guizzare la lingua alla maniera di un flautista con il suo strumento. Soltanto dopo che ci eravamo abbandonati a lungo a questo divertimento pomeridiano, Ilaria mi fece capire che era giunto il momento di unire i nostri strumenti principali, per cui suonammo all'unisono, e la musica salì in crescendo fino a un culmine incredibile di «tuti fortisimi». Poi continuammo a risalire fino a quel culmine, ancora e ancora, per quasi tutto il resto del pomeriggio. Infine suonammo numerose code, ognuna un po' più in diminuendo, finché fummo entrambi completamente svuotati di musica. Giacemmo allora silenziosi l'uno accanto all'altra, godendoci il tremolo dileguantesi degli echi ritardati... dolce, dolce... dolce... Quando fu trascorso un po' di tempo, pensai di porle una domanda galante: «Non vuoi saltare avanti e indietro e starnutire?» Ella trasalì un poco, mi sbirciò in tralice e mormorò qualcosa che non riuscii a udire. Poi disse: «No, grazie, non voglio, Marco. Voglio parlare, adesso, di mio marito.» «Perché rattristare la giornata?» obiettai. «Riposiamoci ancora un po' e vediamo poi se ci riuscirà di suonare un altro motivo.» «Oh, no! Finché continuerò ad essere una donna maritata, rimarrò c-casta. Non faremo più queste cose fino alla morte di mio marito. Siamo intesi?» Avevo acconsentito quando mi era stata posta, prima, quella condizione. Ma ora, una volta gustata l'estasi che mi aspettava, l'idea di un rinvio mi riusciva intollerabile. Dissi: «Anche se è vecchio, potrebbero trascorrere anni.» Ella mi scoccò un'occhiata e disse, aspra: «Perché mai? A quali mezzi ti proponi di ricorrere?» Smarrito, mormorai: «Io?» «Intendevi semplicemente c-continuare a seguirlo c-come hai fatto stanotte? Sperando, forse, di farlo crepare di "irritazione"?» La verità cominciò infine a filtrare attraverso la mia mente ottusa. Domandai, intimorito: «Vuoi dire sul serio che deve essere ucciso?» «Voglio dire che deve essere ucciso sul serio» rispose lei con scoperto sarcasmo. «Di che cosa avevamo parlato secondo te, asenazzo, accennando al servigio che devi rendermi?» «Credevo che tu alludessi a... questo.» E, timidamente, la toccai là sotto. «No, basta.» Si contorse, scostandosi un poco da me. «E a proposito, se proprio devi servirti di termini volgari, cerca almeno di chiamarla mona. Suona un "po'" meno orribilmente di quell'altra parola.» «Ma non potrò più toccarti la mona» dissi, disperato, «finché non ti avrò reso quell'altro servigio?» «Il bottino al vincitore. E' stato piacevole lucidarti lo stiletto, Marco, ma qualche altro bravo potrebbe offrirmi una spada.» «Un bravo» dissi, riflessivo. «Sì, un'azione di questo genere farebbe di me un vero bravo, non ti pare?»
Ilaria disse, persuasiva: «Ed io preferirei di gran lunga amare un bravo audace che un furtivo saccheggiatore di mogli altrui.» «In un armadio a casa c'è una spada» mormorai, come se stessi rivolgendomi a me stesso. «Deve essere appartenuta a mio padre o a uno dei fratelli di lui. E' antica, ma è stata sempre affilata e lucidata.» «Nessuno ti incolperà mai o potrà anche soltanto sospettare di te. Mio marito deve avere molti nemici; quale uomo importante non ne ha, infatti? E certo saranno della sua stessa età e della sua levatura. Nessuno si sognerebbe di sospettare un mero... un uomo più giovane, voglio dire... che non ha un solo movente immaginabile per togliergli la vita. Dovrai soltanto avvicinarlo nell'oscurità, quando sarà solo, e accertarti di colpirlo in modo che non sopravviva abbastanza a lungo per dare una qualsiasi descrizione...» «No» la interruppi. «Meglio se riuscissi a sorprenderlo tra un'accolta di suoi pari, alcuni dei quali sono i suoi veri nemici. Se in queste circostanze potessi agire inosservato... Ma no.» Mi resi conto, a un tratto, che stavo contemplando l'assassinio. Esitante, conclusi: «Probabilmente sarebbe impossibile.» «Non per un vero bravo» disse Ilaria, con la voce di una colomba. «Non per chi verrebbe ricompensato così generosamente.» Si spostò di nuovo contro di me, e continuò a muoversi, allettandomi con la promessa di quella ricompensa. Questo destò in me varie contrastanti emozioni, ma il mio corpo ne riconobbe una sola, e sollevò la bacchetta per suonare una fanfara a mo' di saluto. «No» disse Ilaria, respingendomi e divenendo molto pratica. «Una maestra di musica può dare gratuitamente la prima lezione, per far capire che cosa può essere imparato. Ma, se vuoi altre lezioni sulla tecnica progredita, devi meritartele.» Fu scaltra, congedandomi non del tutto sazio. Così stando le cose, uscii dalla dimora - di nuovo per la porta di servizio - dolorosamente pulsante e concupiscente come se non fossi stato saziato affatto. Venivo guidato e diretto, per così dire, da quella mia bacchetta, la quale propendeva a ricondurmi nel recesso ombroso di Ilaria, qualsiasi cosa questo avesse potuto esigere da me. Altri eventi parvero inoltre congiurare a tale fine. Quando uscii da dietro la fila di case, trovai piazza San Marco gremita di gente in preda a una ronzante agitazione, mentre un banditore in uniforme stava ancora gridando la notizia: Il Doge Ranieri Zeno era stato colpito da un improvviso attacco di cuore, quel pomeriggio, nelle sale del suo palazzo. Il Doge era morto. Il Consiglio era stato convocato affinché eleggesse il successore alla corona ducale. L'intera Venezia veniva invitata a osservare un periodo di tre giorni di lutto prima dei funerali del Doge Zeno. Bene, pensai, proseguendo, se un grande Doge può morire, perché non dovrebbe perdere la vita un nobiluomo meno importante? Mi dissi, inoltre, che le cerimonie funebri avrebbero implicato qualcosa di più d'una sola riunione di quei nobiluomini di mezza tacca. Tra essi si sarebbe trovato il marito della mia dama e senza dubbio sarebbero stati presenti, come lei aveva fatto osservare, alcuni di coloro che lo invidiavano e gli erano nemici. Sarebbe stato logico aspettarsi che andassi subito in cerca di Ubaldo e degli altri ragazzi, per vantarmi dell'insolita conquista e del possesso di una bellissima e nobile mona. Ma sentivo di essermi ormai innalzato rispetto ai ragazzi della chiatta. Stavo per diventare un bravo. Di conseguenza, tornai invece direttamente a casa, per cercarvi la vecchia spada.
8. Durante i tre giorni che seguirono, il defunto Doge Zeno venne esposto in pompa magna nel suo palazzo; nelle ore di luce andarono a rendergli omaggio i cittadini rispettosi, e di notte lo vegliarono persone che facevano questo di mestiere. Io trascorsi quasi tutto questo periodo di tempo in camera
mia, esercitandomi con la vecchia, ma ancor valida spada, finché divenni molto abile nel vibrare fendenti e nell'infilzare fantomatici mariti. A mettermi soprattutto in difficoltà era il semplice aggirarmi armato, la spada essendo lunga quasi quanto le mie gambe. Non potevo semplicemente infilarla sguainata sotto la cintola, altrimenti, camminando, avrei corso il rischio di infilzarmi un piede. Per recarmi in qualsiasi luogo con quell'arma, sarei stato costretto a lasciarla nel fodero, e questo la rendeva ancor più ingombrante. Inoltre, per nasconderla, avrei dovuto mettermi il lungo mantello che mi avvolgeva completamente e dal quale non mi sarebbe stata consentita alcuna fulminea stoccata. Nel frattempo, studiai scaltri piani. Il secondo giorno della veglia, scrissi un biglietto, tracciando con somma cura le lettere nella mia scrittura da scolaretto. «Lui sarà tanto al funerale quanto all'insediamento?» Rilessi le parole, poi sottolineai il lui affinché non potessero sussistere dubbi riguardo a chi mi riferivo. Faticosamente, tracciai il mio nome sotto le parole affinché non potessero sussistere dubbi nemmeno sullo scrivente. In seguito non affidai il biglietto ad alcun servo, ma lo portai io stesso alla casa muta e aspettai per un altro interminabile lasso di tempo, finché vidi che "lui" usciva di casa vestito a lutto. Feci allora il giro fino alla porta di servizio, consegnai il biglietto alla vecchia portinaia e le dissi che avrei aspettato la risposta. Dopo qualche tempo ancora ella tornò. Non portava alcuna risposta scritta, ma mi fece cenno con un dito nodoso. Di nuovo la seguii fino all'appartamento di Ilaria, e vi trovai la mia dama che stava studiando lo scritto. Sembrava in qualche modo turbata e non mi salutò con tenerezza, ma si limitò a dire: «So leggere, naturalmente, però non riesco a decifrare la tua orribile scrittura. Leggimelo tu.» Così feci e lei disse che, sì, suo marito, come ogni altro membro del Gran Consiglio veneziano, avrebbe partecipato sia ai riti funebri del defunto Doge, sia alle cerimonie dell'insediamento del nuovo, quando fosse stato eletto. «Perché vuoi saperlo?» «Avrò così due possibilità» risposi. «Tenterò di... rendere il servigio... il giorno del funerale. Se questo risulterà impossibile, potrò almeno avere un'idea più chiara sul modo di procedere durante la riunione successiva dei nobili.» Ella mi tolse di mano il biglietto e lo esaminò. «Non vedo il mio nome in questo scritto.» «Non c'è, naturalmente» dissi io, l'esperto cospiratore. «Non comprometterei mai una lustrisima.» «E il tuo nome vi figura?» «Sì.» Lo additai con fierezza sul biglietto. «Eccolo. Questa è la firma, dama mia.» «Ho imparato che non sempre è prudente mettere le cose per iscritto.» Ella piegò il biglietto e lo infilò sotto il busto. «Lo terrò io al sicuro.» Feci per dirle di limitarsi a strapparlo, ma lei continuò e parve stizzita: «Ti renderai conto, spero, che sei stato molto, molto stupido venendo qui senza essere chiamato.» «Mi sono accertato, prima, che "lui" fosse uscito.» «Ma se qualcun altro, se uno dei suoi parenti o amici, si fosse trovato in casa? Ora ascoltami bene. Non devi tornare qui mai più finché non te lo dirò io.» Sorrisi. «Finché non saremo liberi di...» «"Finché non sarò io a chiamarti". Ora vattene, e subito. Sto aspettando... voglio dire, "lui" potrebbe tornare da un momento all'altro.» Così me ne tornai a casa e mi addestrai ancora un poco. Poi, l'indomani, quando, al tramonto, il funerale incominciò, venni a trovarmi tra gli spettatori. Anche la sepoltura del più umile tra i comuni cittadini, a Venezia, ha luogo con tutta la pompa che i suoi familiari possono permettersi, e, di conseguenza, il funerale del Doge fu davvero splendido. Il defunto giaceva non già in una bara, ma su un catafalco, con indosso le vesti più sfarzose della sua carica, le rigide mani strette intorno alla mazza del potere, il viso plasmato dagli specialisti delle pompe funebri in una espressione di serena santimonia. La Dogaressa vedova gli rimaneva sempre accanto, talmente drappeggiata nei veli neri che soltanto la candida mano di lei era visibile, poggiata sulla spalla del defunto consorte. La salma venne dapprima deposta sul tetto del grande bucintoro del Doge, alla cui prora la bandiera ducale oro e scarlatta pendeva a mezz'asta. L'imbarcazione venne spinta a remi con solenne lentezza
- i quaranta remi sembravano quasi immobili - lungo i principali canali della città. Dietro e intorno ad essa si raggruppavano nere e funeree gondole, nonché batèli festonati di neri nastri e burchielli sui quali si trovavano i membri del Consiglio della Signoria e della Quarantia, nonché i più alti prelati della città e i confratèli delle corporazioni delle arti; e tutto il seguito ora intonava inni, ora cantilenava preghiere. Dopo che il defunto era stato sufficientemente esibito lungo i canali, venne sollevato dall'imbarcazione e issato sulle spalle di otto dei suoi nobili. Poiché il corteo funebre doveva ora serpeggiare lungo tutte le vie principali del centro della città, ed essendo, molti di coloro che reggevano a spalla il Doge, anziani, venivano sostituiti frequentemente da altri uomini. Il defunto continuava ed essere seguito dalla Dogaressa e da tutti gli altri della sua corte, ora a piedi, nonché da gruppi di musicanti che suonavano melodie lente e meste; venivano poi gruppi delle confraternite dei flagellanti, che letargicamente fingevano di fustigarsi, e infine ogni altro veneziano non troppo in tenera età né troppo vecchio o storpio per poter camminare. Non avevo potuto fare altro, durante la processione sull'acqua, che stare a guardarla dalle rive insieme agli altri cittadini. Ma quando il corteo sbarcò, decisi che la fortuna era propizia al mio piano. Infatti, dai canali tornò ancora la caligine crepuscolare e le esequie divennero ancor più malinconiche e misteriose, avvolte com'erano dalla nebbia, con la musica smorzata e le cantate funebri lugubremente cavernose. Lungo l'itinerario del corteo vennero accese le torce infitte nei muri e quasi tutti i partecipanti al funerale tirarono fuori e accesero candele. Per qualche tempo camminai insieme al branco - o meglio zoppicai, in quanto la spada lungo la mia gamba sinistra mi costringeva a muovere quest'ultima rigidamente - ma a poco a poco mi insinuai tra le prime file della folla. Di là potei constatare che quasi ogni partecipante ufficiale al corteo funebre indossava mantello e cappuccio, tranne i sacerdoti. Ero pertanto ben mimetizzato e, nella nebbia fitta, sarei potuto essere scambiato per uno degli artisti o degli artigiani delle corporazioni. Persino la mia statura non era molto evidente; la processione comprendeva numerose donne velate non più alte di me, nonché alcuni nani e gobbi incappucciati più piccoli di me. Pertanto, senza essere notato, mi insinuai a poco a poco tra i partecipanti ufficiali al corteo, e più avanti ancora, senza che la mia presenza venisse contestata da nessuno, finché in ultimo, dalla salma e da coloro che la portavano mi separò soltanto una fila di sacerdoti i quali cantilenavano la loro tradizionale tiritera facendo oscillare gli incensieri per aggiungere fumo alla nebbia. Non ero il solo a marciare inosservato nel corteo funebre. E poiché tutti erano così bene avvolti nei mantelli, nonché dalla nebbia quasi altrettanto lanugginosa, stentai a individuare la mia preda. Ma il cammino risultò essere così lungo che, spostandomi con cautela da un lato all'altro e scrutando quel poco del profilo di ciascun uomo sporgente dal cappuccio, riuscii infine ad accertare qual era il marito di Ilaria e, da quel momento in poi, a tenerlo d'occhio. L'occasione propizia si presentò quando il corteo uscì infine da un'angusta viuzza e venne a trovarsi sulla banchina acciottolata della riva nord della città - lungo la Laguna Morta, non lontano dalla chiatta dei ragazzi, sebbene quest'ultima rimanesse ora invisibile nella nebbia e nella quasi-oscurità. Accostata alla banchina v'era l'imbarcazione del Doge, che aveva girato intorno alla città per precederci, e aspettava di traghettarlo per l'ultimo viaggio fino all'Isola dei Morti, lontana dalla riva e anch'essa invisibile. Vi fu un rimescolio tra i partecipanti al funerale, mentre tutti gli uomini più vicini al defunto tentavano di aiutare coloro che lo portavano a issarlo sull'imbarcazione, e questo mi diede il modo di frammischiarmi ad essi. Mi feci largo a furia di gomiti finché venni a trovarmi proprio accanto alla preda e, tra tutti gli urtoni e l'agitazione, nessuno si accorse degli sforzi che dovetti compiere per sguainare la spada. Fortunatamente, il marito di Ilaria non riuscì a insinuare la spalla sotto la lettiga, altrimenti spacciarlo avrebbe potuto far piombare la salma del Doge nella Laguna Morta. A cadere fu invece il pesante fodero della spada; in qualche modo, i miei annaspamenti lo avevano sganciato dalla cintola della tunica. Tintinnò sonoramente sull'acciottolato e continuò a proclamare rumoroso la propria presenza mentre i tanti piedi, spostandosi, lo calciavano qua e là. Il cuore mi
salì in gola e poi quasi mi balzò fuori della bocca mentre il marito di Ilaria si chinava per raccattare il fodero. Ma l'uomo non si allarmò in alcun modo; me lo restituì, invece, con il cortese commento: «Tenete, giovane amico, lo avete lasciato cadere.» Mi trovavo ancora vicinissimo a lui ed entrambi venivamo sbalestrati dai movimenti della folla intorno a noi, ed io stavo impugnando la spada sotto il mantello, e quello era il momento per colpire, ma come avrei potuto? Egli mi aveva evitato l'arresto immediato; potevo forse trapassarlo per ricambiare il favore? Ma poi un'altra voce parlò, sibilando accanto al mio orecchio, «Stupido asino», e qualcuno emise un suono strozzato e qualcosa di metallico balenò nella luce delle torce. Questo accadde al margine della mia visuale, per cui riportai impressioni frammentarie e confuse. Ma mi parve che uno dei sacerdoti, intento a fare oscillare un incensiere d'oro, avesse bruscamente vibrato, invece, qualcosa di argenteo. E poi il marito di Ilaria si piegò in due davanti ai miei occhi e aprì la bocca e vomitò una sostanza che sembrava nera in quella luce. Non gli avevo fatto niente, eppure "qualcosa" gli era accaduto. Barcollò e urtò contro gli altri uomini del gruppo serrato, e lui e almeno altri due stramazzarono. Poi una mano massiccia mi agguantò la spalla, ma mi sottrassi ad essa con uno strattone e quel rinculo mi portò fuori del centro del tumulto. Mentre mi dibattevo per aprirmi un varco fuori del margine esterno della gente e rimbalzavo contro un paio di individui, di nuovo lasciai cadere il fodero e poi anche la spada, ma non mi fermai. Ero in preda al panico e non riuscivo a pensare ad altro che a fuggire il più lontano e il più rapidamente possibile. Dietro di me udii esclamazioni di stupore e di violenta riprovazione, ma nel frattempo ero già ben lontano dall'alone luminoso delle torce e delle tante candele accese, ben lontano nella benedetta oscurità e nella nebbia fitta. Continuai a correre lungo la banchina finché scorsi due nuove sagome prendere forma davanti a me nella notte nebbiosa. Avrei potuto evitarle scantonando, ma vidi che si trattava di ragazzi e, un momento dopo, risultarono essere Ubaldo e Doris Tagiabue. Provai un sollievo enorme vedendo qualcuno che conoscevo... e che era piccoletto. Cercai di assumere un'espressione allegra, e probabilmente riuscii soltanto ad essere spettrale, ma mi rivolsi a loro in tono allegro: «Doris, continui ad essere strigliata e pulita.» «Tu no» disse lei, e mi additò. Abbassai gli occhi su me stesso. Il davanti del mantello non era bagnato soltanto dall'umidore della caligine. Era macchiato e schizzato di rosso lucente. «Inoltre hai la faccia bianca come una pietra tombale» disse Ubaldo. «Che cosa è accaduto, Marco?» «Sono stato... sono stato quasi un bravo» dissi, e la mia voce divenne a un tratto malferma. Mi fissarono entrambi con gli occhi spalancati, e spiegai. Fu piacevole dirlo a qualcuno non coinvolto nella faccenda. «La mia dama mi ha mandato a uccidere un uomo. Ma è morto, credo, prima che potessi spacciarlo io. Qualche altro suo nemico deve essere intervenuto, o potrebbe aver pagato un bravo perché lo uccidesse.» Ubaldo esclamò: «"Credi" che sia morto?» «Tutto è accaduto nello stesso momento. Ho dovuto fuggire. Credo che non saprò cosa è successo realmente finché i banditori notturni non annunceranno la notizia.» «Ma dove è stato?» «Laggiù, dove hanno portato il Doge defunto sulla sua imbarcazione. O forse non lo hanno ancora fatto. C'era un gran subbuglio.» «Potrei andare io a vedere. Saprei dirtelo prima dei banditori.» «Sì» approvai. «Ma fa attenzione, Boldo. Sospetteranno di ogni sconosciuto.» Boldo corse via nella direzione dalla quale ero venuto e Doris ed io ci mettemmo a sedere su una bitta della banchina. Ella mi osservò con gravità, poi, dopo qualche momento, disse: «L'uomo era il marito della dama.» Non si trattava di una domanda, ma io annuii, ammutolito. «E tu speri di prenderne il posto.» «L'ho già preso» dissi, con tutta la vanteria di cui ero capace. Doris parve trasalire e pertanto soggiunsi, sinceramente: «Una volta, perlomeno.»
Quel pomeriggio sembrava ormai lontano nel passato e, sul momento, io non sentii affatto ripetersi l'eccitazione del desiderio. E' curioso, pensai, che l'ansia possa diminuire fino a questo punto l'ardore di un uomo. Se mi trovassi in questo momento nella camera di Ilaria e lei mi sorridesse e mi facesse cenno, non potrei... «Forse ti trovi in un guaio tremendo» disse Doris, come per raggelare del tutto il mio ardore. «Non credo» mormorai, più per persuadere me stesso che lei. «Non ho fatto niente di più grave del trovarmi dove non sarei dovuto essere. E me la sono filata senza lasciarmi prendere e senza essere riconosciuto, per cui nessuno sa che sono colpevole sia pur soltanto di quello. Tranne te, adesso.» «E ora che cosa accadrà?» «Se l'uomo è morto, la mia dama mi chiamerà ben presto per abbracciarmi con gratitudine. Andrò da lei vergognandomi un poco, perché avevo sperato di tornare come un prode bravo, l'uccisore di colui che l'opprimeva.» Poi una riflessione mi balenò nella mente. «Ma adesso, almeno, avrò la coscienza pulita.» Pensare a questo mi rallegrò un poco. «E se non fosse morto?» L'allegria si dileguò. Non avevo preso in considerazione questa eventualità. Tacqui e cercai di riflettere sul da farsi... «Forse, in questo caso» si azzardò a dire Doris, con una vocetta esile, «potresti prendere me, al posto di lei, come la tua ragazza, eh?» Digrignai i denti. «Perché continui a farmi una proposta così ridicola? Specie in questo momento, mentre ho tanti altri problemi da risolvere?» «Se mi avessi accettata quando mi sono offerta la prima volta, ora non li avresti, tutti questi problemi.» Questa era un'assenza di logica femminile, o giovanile, e una tesi per giunta palpabilmente assurda; ciò nonostante, conteneva quel tanto di verità che mi indusse a ribattere in modo crudele: «Donna Ilaria è bellissima; tu non lo sei. Lei è una donna, tu sei una bambina. Lei merita di essere chiamata Donna ed io, inoltre, non potrei mai scegliere come mia signora nessuna donna che non fosse nobile di nascita e...» «Lei non si è comportata molto nobilmente. E tu nemmeno.» Ma io continuai, noncurante: «Lei è sempre pulita e fragrante; tu hai appena scoperto che ci si può lavare. Lei sa fare l'amore in modo sublime, tu invece non saprai mai niente di più di quella porca di Margherita...» «Se la tua dama sa fottere così bene, allora devi avere imparato anche tu, e potresti insegnarmi...» «Ecco che ci ricaschi! Nessuna signora si servirebbe di una parola come "fottere"! Ilaria lo chiama fare musica.» «Allora insegnami a parlare come una signora. Insegnami a fare musica come lei.» «Tutto questo è insopportabile. Con le mille cose che ho per la testa perché me ne devo stare seduto qui a discutere con una imbecille?» Poi balzai in piedi e mi limitai ad aggiungere: «Doris, tutti ti credono una brava ragazza. Perché ti sei messa in mente di non esserlo?» «Perché...» Ella chinò il capo, per cui i capelli biondi le spiovvero intorno al viso come un casco, nascondendo la sua espressione. «Perché è la sola cosa che posso offrirti.» «Olà, Marco!» gridò Ubaldo, in quel momento, concretandosi nella nebbia e avvicinandosi a noi, ansimante per aver corso. «Che cosa hai saputo?» «Lascia che te lo dica, scemo. Sii contento di "non" essere tu il bravo che ha fatto quello.» «Che ha fatto cosa?» domandai, apprensivo. «Che ha ammazzato l'uomo. L'uomo del quale parlavi. Sì, è morto. Hanno trovato la spada che lo ha ucciso.» «Non è vero!» protestai. «La spada che hanno trovato deve essere la mia, e non è insanguinata.» Ubaldo fece una spallucciata. «Hanno trovato un'arma. Troveranno di sicuro anche un sassìn. Dovranno trovare qualcuno da incolpare, a causa della persona che è stata assassinata.» «Era soltanto il marito di Ilaria...»
«Era il nuovo Doge.» «"Cosa?"» «Proprio così. Se non fosse stato ucciso, i banditori lo avrebbero proclamato domani Doge di Venezia. Era sacro! Questo è quel che ho sentito dire, e l'ho udito ripetere molte volte. Il Consiglio aveva eletto lui affinché succedesse a Sua Serenità Zeno, e si aspettava soltanto che la sepoltura avesse avuto luogo, prima di dare l'annuncio.» «Oh, Dio mio!» Stavo per dirlo io, ma Doris mi precedette. «Ora dovranno ricominciare daccapo con la votazione. Ma non prima di aver trovato il bravo colpevole dell'assassinio. Non si tratta di uno dei tanti accoltellamenti nei vicoli. Da come parlavano, una cosa simile non è mai accaduta prima d'ora nella storia della nostra Repubblica.» «Dio mio» ansimò di nuovo Doris, poi mi domandò: «Che cosa farai, adesso?» Dopo aver riflettuto per qualche attimo, ammesso che il turbamento nella mia mente potesse essere definito riflessione, dissi: «Forse non dovrei tornare a casa mia. Posso dormire in un angolo della chiatta?» Naturalmente, Doris rispose di sì.
9. E così, ecco dove trascorsi la notte, su un giaciglio di fetidi stracci. Ma non dormendo; vegliando, con gli occhi spalancati. Quando, nelle ore piccole, Doris udì che mi giravo e mi rigiravo irrequieto, e si avvicinò strisciando e mi domandò se non volessi essere abbracciato e calmato, io mi limitai a ringhiare, e lei se ne andò, furtiva. Doris e Ubaldo e tutti gli altri ragazzi della chiatta dormivano quando l'alba cominciò a insinuare le sue dita tra le tante fessure nel vecchio scafo della chiatta ed io mi alzai e, lasciato lì il mantello sporco di sangue, uscii nel mattino. La città era tutta freschi colori rosa e ambra, e ogni sasso scintillava della rugiada lasciata dalla caligine. Io, all'opposto, mi sentivo tutt'altro che raggiante, una sorta di tenebra mi pervadeva e mi sembrava persino di sentirne il sapore nella bocca. Vagabondai senza meta lungo le viuzze che andavano destandosi e le deviazioni nel mio cammino vennero determinate soltanto dal fatto che schivavo qualsiasi altra persona uscita così di buon'ora. Ma a poco a poco le calli cominciarono a riempirsi di gente, troppa perché potessi evitare tutti, e inoltre udii le campane suonare la terza, l'inizio della giornata lavorativa. Pertanto mi diressi verso la laguna, verso la Riva Ca' de Dio, ed entrai nel magazzino della Compagnia Polo. Avevo in mente, credo, il vago proposito di chiedere all'impiegato Isidoro Friuli se non potesse, rapidamente e di nascosto, procurarmi la cuccetta di un mozzo su qualche nave in partenza. Entrai nella stanzetta della contabilità talmente calato in una sorta di tetraggine che mi occorse un momento per notare come il minuscolo ambiente fosse più soffocante del solito e come Maestro Doro stesse dicendo, a una ressa di visitatori: «Posso soltanto ripetere che egli non ha più posto piede a Venezia da oltre vent'anni. Lo confermo, Messer Marco Polo ha vissuto per lungo tempo a Costantinopoli e continua a risiedervi. Se non siete disposti a credere a me, ecco qui suo nipote, che porta lo stesso nome di lui, e che può confermare...» Girai sui tacchi per uscire, essendomi reso conto che la «ressa» consisteva di due soli individui, ma corpulenti all'estremo, due gastaldi in uniforme della Quarantia. Prima che avessi potuto fuggire, uno dei due ringhiò: «Lo stesso nome, eh? E guarda l'aria colpevole che ha sulla faccia!» e l'altro si protese e mi strinse la parte alta del braccio nella morsa di una mano massiccia. Insomma, mi portarono via, mentre l'impiegato e gli uomini del magazzino ci guardavano con gli occhi fuori della testa. Non avevamo un gran tratto da percorrere, ma mi parve il più lungo dei viaggi che avessi mai fatto. Mi dibattevo debolmente nella stretta ferrea dei gastaldi, più come un bimbetto che come un bravo, chiedendo in lacrime di sapere di che cosa ero accusato. Mentre arrancavamo lungo la Riva, tra gruppi di passanti anch'essi con gli occhi sbarrati, si levò un tumulto
di interrogativi nella mia mente. «V'era una taglia? Chi mi aveva denunciato? Doris o Ubaldo avevano in qualche modo parlato?» Domandavo, ma i due imperturbabili individui non rispondevano mai. Attraversammo il Ponte della Paglia, ma non proseguimmo fino all'ingresso del Palazzo Ducale nella piazzetta. Alla Porta del Grano voltammo nella Torresella, che si trova in prossimità del palazzo ed è quanto rimane di quello che era, nei tempi andati, un castello fortificato. Adesso è ufficialmente la prigione statale di Venezia, ma coloro i quali vi si trovano rinchiusi lo chiamano diversamente. Vale a dire con lo stesso nome attribuito dai nostri antenati alla voragine di fuoco, prima che la cristianità insegnasse loro a chiamarla Inferno. La prigione viene denominata Vulcano. Dopo i colori luminosi, rosa e ambra, del mattino, venni ad essere sospinto all'improvviso in una orba, un termine che può non avere un suono molto impressionante per chi ignori che significa accecata. L'orba è una cella grande appena quanto basta per contenere un uomo. Trattasi di un cubicolo di pietra completamente nudo e assolutamente privo di qualsiasi apertura per fare entrare luce o aria. Venni a trovarmi pertanto in una tenebra assoluta, in un luogo angusto fino ad essere soffocante, e saturo di laido fetore. Sul pavimento si trovava uno spesso strato di qualcosa di colloso e di schifoso che mi risucchiava i piedi ogni qual volta li muovevo, per cui non tentai neppure di mettermi a sedere, e le pareti erano rese spugnose da qualcosa di viscido che sembrava brulicare quando lo toccavo, per cui neppure mi addossai ai muri. Quando mi stancavo di restare in piedi, mi accosciavo. E cominciai a tremare come in preda alla febbre malarica mentre, a poco a poco, mi rendevo conto di tutto l'orrore del luogo in cui mi trovavo e di quello che mi era accaduto. Io, Marco Polo, appartenente alla nobile casata dei Polo, io che portavo un nome figurante nel Libro d'Oro - appena pochi momenti prima un uomo libero, un ragazzo spensierato, io che avrei potuto recarmi ovunque avessi voluto in tutto il vasto mondo - mi trovavo in "carcere", disonorato, disprezzato, rinchiuso in un cubicolo che nemmeno un topo di fogna avrebbe scelto come rifugio. Oh, quanto piansi! Non so quanto a lungo rimasi in quella cieca cella. Come minimo per tutto il resto di quel giorno, ma poterono essere anche due o tre giorni, poiché, sebbene facessi del mio meglio per tenere a bada le budella scombussolate dalla paura, contribuii varie volte ad accrescere la schifosa melma sul pavimento. Quando, infine, una guardia venne a farmi uscire, credetti di essere liberato perché innocente, ed esultai. Anche se fossi stato colpevole di avere ucciso il nuovo Doge, ero stato punito a sufficienza, ne avevo la certezza, oltre ad essere stato tormentato a sufficienza dal rimorso e ad aver giurato quanto bastava che mi pentivo. Ma, naturalmente, quell'esultanza venne distrutta non appena la guardia mi disse che avevo subito soltanto il primo, e, probabilmente, il minore dei castighi - spiegandomi come l'orba sia soltanto la cella temporanea ove un detenuto rimane rinchiuso fino al momento del primo interrogatorio. Così, fui portato dinanzi al tribunale dei giudici denominati i Signori della Notte. In una stanza a un piano più alto del Vulcano, venni a trovarmi di fronte a un lungo tavolo dietro il quale sedevano otto uomini anziani, dall'aria grave e dalla lunga veste nera. Non fui fatto avvicinare troppo al tavolo, e le due guardie, a entrambi i lati rispetto a me, a loro volta non mi rimasero molto vicine, poiché dovevo emanare un fetore tremendo com'era terribile il mio stato d'animo. Se avevo un aspetto altrettanto orribile, dovevo sembrare il ritratto stesso del peggiore e del più brutale dei criminali. I Signori della Notte cominciarono a pormi, a turno, alcune domande innocue: come mi chiamavo, qual era la mia età, dove abitavo, particolari relativi alla storia della famiglia, e così via. Poi, uno di loro, consultando un documento che aveva dinanzi, mi disse: «Molte altre domande dovranno esserti rivolte prima che possiamo incriminarti. Ma questo interrogatorio non avrà luogo finché non ti sarà stato assegnato un Fratello della Giustizia per difenderti come tuo avvocato, in quanto sei stato denunciato come il colpevole di un delitto punibile con la morte...» Denunciato! Ero sbalordito a tal punto che mi sfuggirono quasi tutte le parole pronunciate successivamente dall'uomo. A denunciarmi non potevano essere stati che Doris o Ubaldo, poiché soltanto loro sapevano come avessi avvicinato l'uomo ucciso. Ma come avrebbero potuto, sia l'uno,
sia l'altra, agire così rapidamente? E da chi mai si erano fatti scrivere la denuncia da infilare in uno dei musi? Il gentiluomo concluse il discorso domandandomi: «Hai qualcosa da dire a proposito di queste gravissime accuse?» Mi schiarii la gola e dissi, esitante: «Chi... chi è stato a denunciarmi, Messere?» Era una domanda stupida a porsi, in quanto non potevo ragionevolmente aspettarmi che egli rispondesse, ma si trattava dell'interrogativo che più campeggiava nella mia mente. E, con grande stupore da parte mia, l'esaminatore rispose: «Sei stato tu stesso a denunciarti, giovane messere.» Dovetti fissarlo stupidamente battendo le palpebre, poiché egli soggiunse: «Non fosti tu a scrivere questo biglietto?» e lesse, da un pezzo di carta: «'"Lui" sarà tanto al funerale quanto all'Insediamento?'» Sono certo che continuai a battere le palpebre e a fissarlo stupidamente, poiché egli soggiunse: «E' firmato Marco Polo.» Camminando come un sonnambulo, venni riportato dalle guardie giù per le scale, e poi ancora per un'altra rampa di gradini, in quelli che chiamavano «i pozzi», la parte più profonda del Vulcano. Ma anche queste, mi dissero, non erano le vere segrete della prigione; potevo prevedere che, una volta debitamente riconosciuto colpevole, sarei stato trasferito nei Giardini Foschi, ove venivano tenuti rinchiusi i condannati a morte fino al giorno dell'esecuzione. Ridendo clamorosamente, aprirono una porta di legno, massiccia, ma alta soltanto fino alle ginocchia, incassata nel muro di pietre, mi conficcarono in essa, mi spinsero giù, e la chiusero con un tonfo simile al rintocco funebre del Giorno del Giudizio. Questa cella era almeno notevolmente più grande dell'orba e aveva, perlomeno, un foro, uno spioncino ricavato nella bassa porta. Il foro era troppo piccolo per consentirmi di minacciare con il pugno, attraverso ad esso, i carcerieri che si allontanavano, ma lasciava passare un filo d'aria e quel tanto di luce che impediva alla cella di essere completamente buia. Quando i miei occhi si furono abituati alla fitta penombra, potei vedere un secchio con coperchio che serviva da latrina e due tavolacci di nude assi che servivano da giacigli. Non scorsi altro tranne quello che sembrava un mucchio di coperte gettate in un angolo. Tuttavia, quando mi avvicinai, il mucchio si sollevò, si mise in piedi e risultò essere un uomo. «Salamelèch» disse, rauco. Il saluto sembrava forestiero. Scrutai quell'individuo e riconobbi i capelli rosso-grigiastri a forma di fungo e la barba. Era el zudìo alla cui pubblica fustigazione avevo assistito in un giorno memorabile per molte altre ragioni.
10. «Mordecai» egli si presentò. «Mordecai Cartafilo.» E pose la domanda che di norma tutti i detenuti si rivolgono al primo incontro. «Perché sei dentro?» «Per assassinio» risposi, tirando poi su col naso. «E credo anche per tradimento e lesa maestà e alcune altre cose.» «Basterà l'assassinio» disse lui, asciutto. «Non stare a crucciarti, ragazzo. Passeranno sopra a quelle altre inezie. Non puoi essere punito per esse dopo essere stato punito per omicidio. Si tratterebbe di quella che ha nome duplice condanna, e le leggi del paese la vietano.» Lo guardai storto. «Stai scherzando, vecchio.» Lui fece una spallucciata. «Ognuno illumina le tenebre come sa e come meglio può.» Tacemmo, tetri, per qualche tempo, nella tetra oscurità. Poi dissi: «Ti trovi qui per usura, non è vero?» «No. Mi trovo qui perché una certa dama mi ha "accusato" di usura.» «Quale coincidenza. Anch'io mi trovo qui - almeno indirettamente - a causa di una dama.» «Be', ho detto dama soltanto per indicarne il sesso. In realtà» e sputò sul pavimento «è una shèquesa kàrove.» «Non capisco le tue parole forestiere.»
«Una puttana cagna gentile» disse lui, come se stesse di nuovo sputando. «Mi ha supplicato affinché le concedessi un prestito e mi ha dato in pegno alcune certe lettere d'amore. Quando non ha potuto pagare, e poiché io non volevo restituire le lettere, ha fatto in modo che non potessi consegnarle ad alcun altro.» Scossi la testa, comprensivo. «La tua è una triste situazione, ma la mia è più ironica. La mia dama mi ha pregato affinché le rendessi un servigio, e ha promesso se stessa come ricompensa. Il servigio le è stato reso, ma non da me. Ciò nonostante, eccomi qui, compensato alquanto diversamente, ma la mia dama, probabilmente, ancora non lo sa. Non è ironica la situazione?» «Fino all'ilarità.» «Sì, Ilaria! Conosci la signora?» «Cosa?» Egli mi fissò. «Anche la tua kàrove si chiama Ilaria?» A mia volta lo fissai con ira. «Come osi dare della puttana cagna alla mia dama?» Poi smettemmo di guatarci a vicenda; seduti sui tavolacci, cominciammo a paragonare le nostre esperienze e, ahimè, divenne ovvio che entrambi avevamo conosciuto la stessa Donna Ilaria. Raccontai al vecchio Cartafilo tutta la mia avventura, e conclusi: «Ma tu hai accennato a certe lettere d'amore. Io non gliene ho mai scritte.» Lui mormorò: «Sono spiacente di dover essere io a dirtelo. Non erano firmate con il tuo nome.» «Allora è sempre stata innamorata di qualcun altro?» «Così sembrerebbe.» «E l'unico biglietto che ho firmato - quello ora in possesso dei Signori della Notte - "deve" averlo infilato lei in uno dei musi. Ma perché avrebbe dovuto farmi una cosa simile?» «Non sa più che farsi del suo bravo. Il marito è morto, l'amante è disponibile, tu sei soltanto un intralcio di cui liberarsi.» «Ma non l'ho ucciso io suo marito!» «E allora chi è stato? L'amante, probabilmente. Ti aspettavi forse che ella denunciasse lui mentre poteva sacrificare te, invece, e in questo modo garantirgli l'impunità?» A questo non seppi che cosa rispondere. Dopo un momento egli domandò: «Hai mai sentito parlare della lamia?» «Lamia? Non significa strega?» «Non esattamente. La lamia può assumere le sembianze di una donna giovanissima e bellissima. E lo fa per tentare i giovani affinché si innamorino di lei. Quando ne ha intrappolato uno, fa all'amore con lui così voluttuosamente e assiduamente da spossarlo del tutto. E non appena egli è fiacco e indifeso, lo divora vivo. Si tratta soltanto di un mito, naturalmente, ma di un mito diffuso e insistente in modo curioso. Ne ho sentito parlare in ogni paese che ho visitato intorno al Mare Mediterraneo. E ho viaggiato molto, sai. E' strano che tanti popoli diversi credano nella sete di sangue della bellezza.» Riflettei su queste parole, e poi dissi: «Ilaria sorrideva mentre tu venivi fustigato, vecchio.» «Questo non mi stupisce. Probabilmente raggiungerà il culmine delle voluttà di Venere proprio quando ti vedrà affidato al carnefice.» «A chi?» «E' così che viene chiamato il giustiziere, carnefice.» Gridai, in preda alla disperazione: «Ma non posso essere giustiziato! Sono innocente! Non dovrei nemmeno essere rinchiuso qui con un ebreo!» «Oh, scusatemi tanto, Vostra Signoria. Il fatto è che la luce così fioca, qui dentro, mi ha velato gli occhi. Ti avevo scambiato per un comune detenuto nei pozzi del Vulcano.» «Non sono un "volgare" detenuto!» «Scusami ancora» disse lui e tese la mano oltre lo spazio che separava i due tavolacci. Tolse qualcosa dalla mia tunica e scrutò da vicino quel che aveva preso. «E' soltanto una pulce. Una volgarissima pulce.» La spiaccicò tra le unghie. «Sembrava essere volgare esattamente quanto le mie.» Borbottai: «Tu ci vedi benissimo.»
«Se davvero sei nobile, giovane Marco, devi fare quello che fanno tutti i prigionieri appartenenti alla nobiltà. Devi agitarti per avere una cella migliore, una cella privata, con la finestra che dia sulla strada o sul canale. Dopodiché potrai calare una cordicella e mandare messaggi, o tirar su leccornie. In teoria non sarebbe consentito, ma, trattandosi di nobiluomini, si chiude un occhio sul regolamento.» «Parli come se dovessi restare qui a lungo.» «No.» Egli sospirò e chinò il capo. «Probabilmente la tua non sarà una lunga attesa.» Il significato di queste parole mi fece drizzare i capelli. «Continuo a dirtelo, vecchio scemo. "Sono innocente!"» Ciò lo indusse a rispondere, urlando quanto me e con altrettanta indignazione: «Perché raccontarlo al qui presente, disgraziato mamzar? Dillo ai Signori della Notte! Anch'io sono innocente, eppure qui mi trovo e qui marcirò!» «Aspetta, ho un'idea» dissi. «Ci troviamo entrambi in galera a causa delle astuzie e delle menzogne di Donna Ilaria. Se lo dichiarassimo insieme ai Signori della Notte, potrebbero dubitare della veridicità di lei.» Mordecai scosse la testa, dubbioso. «A chi crederebbero? Lei è la vedova di un uomo che stava per diventare Doge. Tu sei accusato di assassinio ed io sono un usuraio riconosciuto colpevole.» «Forse hai ragione» mormorai, scoraggiato. «E' davvero un guaio che tu sia ebreo.» Mi fissò con occhi tutt'altro che velati e disse: «La gente non fa altro che accusarmi di questo. Perché me lo rimproveri anche tu?» «Oh... è solo che la testimonianza di un ebreo conta poco.» «Già, l'ho notato spesso. E mi domando perché.» «Be'... siete stati voi a crocifiggere Nostro Signore Gesù Cristo...» Egli sbuffò e disse: «Io, sicuro!» Poi, quasi fosse disgustato di me, mi voltò le spalle, si allungò sul tavolaccio e si avvolse nella voluminosa veste. Borbottò, rivolto al muro: «Mi sono limitato a dire a costui... appena due parole...» poi, a quanto parve, si addormentò. Dopo che era trascorso, lugubremente, molto tempo e il buio aveva colmato lo spioncino nella porta, quest'ultima venne rumorosamente aperta e due carcerieri entrarono trascinando una sorta di grande tinozza. Il vecchio Cartafilo smise di russare e subito si drizzò a sedere. I carcerieri consegnarono a lui e a me una ciotola di legno e vi versarono, dalla tinozza, una sbobba tiepida e collosa. Poi ci lasciarono una fioca lampada, una scodella colma d'olio di pesce nella quale ardeva un pezzo di straccio facendo molto fumo e ben poca luce. Dopodiché uscirono sbattendo la porta. Io guardai, dubbioso, il cibo. «Polenta» mi disse Mordecai, portandosela avidamente alla bocca con due dita. «E' holosh, ma faresti meglio a mangiarla. Si tratta dell'unico pasto ogni giorno. Non avrai niente altro.» «Non ho appetito» dissi. «Puoi prenderti la mia razione.» Me la strappò, quasi, dalle mani e le divorò entrambe con molti schiocchi delle labbra. Quando ebbe terminato, si succhiò i denti come se non volesse privarsi nemmeno di una minuscola particella di cibo, mi fissò di sotto le ispide sopracciglia e infine disse: «Che cosa mangeresti di solito, a cena?» «Oh, forse un piatto di taiadele con persuto... e poi un zabaiòn...» «Sei un buongustaio» commentò lui, sardonico. «Non posso pretendere di tentare gusti così raffinati, ma forse gradiresti alcuni di questi.» Frugò sotto la veste. «Le tolleranti leggi veneziane mi consentono di rispettare, almeno in parte, i precetti religiosi, anche in prigione.» Non capii cosa avesse a vedere quanto diceva con i biscotti quadrati, secchi e bianchi che mi porse. Ma li mangiai con gratitudine, sebbene fossero quasi insapori, e lo ringraziai. L'indomani, all'ora di cena, ero abbastanza affamato per non fare lo schizzinoso. Probabilmente avrei mangiato in ogni caso la poltiglia del carcere soltanto perché costituiva un diversivo nella monotonia del non far nulla tranne restare seduti, dormire sui duri tavolacci senza coperte e, di quando in quando, conversare con Cartafilo. Ma le giornate trascorrevano in questo modo, ognuna caratterizzata soltanto dall'illuminarsi e dall'oscurarsi dello spioncino nella porta, dalle preghiere, tre volte al giorno, mormorate dal vecchio zudìo, e dall'arrivo serale dell'orrido cibo.
Forse l'esperienza non era poi così spaventosa per Mordecai, in quanto, o almeno così risultava a me, egli aveva trascorso, in passato, tutte le sue giornate rannicchiato nel cubicolo di prestiti su pegni che possedeva sulla Strada Nova, e questa relegazione non poteva essere molto diversa. Ma io ero sempre stato libero, senza pastoie e molto socievole. Mi rendevo conto che sarei dovuto essere grato perché avevo un po' di compagnia in quella prematura tomba, anche se si trattava soltanto di un ebreo e anche se la conversazione di lui non sempre era allegra. Un giorno accennai al fatto che avevo veduto infliggere molte punizioni tra le colonne di Marco e Todero, ma che non mi era mai capitato di assistere a un'esecuzione. Lui disse: «Questo perché hanno luogo quasi tutte entro le mura della prigione, in modo che nemmeno gli altri detenuti lo sappiano se non a cose fatte. Il condannato viene rinchiuso in una delle celle dei Giardini Foschi, come vengono chiamati, e quelle celle hanno finestre a inferriate. Il carnefice aspetta fuori, pazientemente, finché l'uomo nella cella, andando avanti e indietro, passa davanti alla finestra e le volta le spalle. Allora il carnefice passa una garrota tra le sbarre e intorno alla gola dell'uomo, rompendogli l'osso del collo o strozzandolo. I Giardini Foschi si trovano sul lato di questo edificio che dà sul canale e, nel corridoio, v'è un lastrone di pietra che può essere spostato. Durante la notte il cadavere del giustiziato viene fatto scivolare attraverso quell'apertura segreta, finisce su una barca in attesa ed è portato alla fossa comune. Soltanto quando tutto è finito l'esecuzione viene annunciata. In questo modo tutto è molto più sbrigativo. Venezia non ama far sapere ovunque che l'antica e romana "lege de taiòn" continua ad essere applicata qui così spesso. Ecco perché le "pubbliche" esecuzioni sono rare. Toccano soltanto agli individui riconosciuti colpevoli di delitti davvero orribili.» «Quali delitti?» domandai. «Ai miei tempi un uomo morì in questo modo per aver violentato una suora e un altro per aver rivelato a uno straniero alcuni segreti dell'arte della lavorazione del vetro, a Murano. Direi che l'assassinio di un uomo sul punto di essere eletto Doge sia uno di tali delitti, se è questo che ti stai domandando.» Deglutii. «In che cosa... come avviene l'esecuzione... in pubblico? E dove?» «Il colpevole si inginocchia tra le colonne e viene decapitato dal carnefice. Ma, prima di decapitarlo, il carnefice lo mutila di quella specifica parte di lui che ha commesso il reato. Allo stupratore della monaca, naturalmente, venne amputato il pene. A colui che aveva rivelato i segreti dell'arte del vetro fu mozzata la lingua. E il condannato viene fatto avvicinare alle colonne con quella sua parte colpevole appesa al collo mediante una cordicella. Nel tuo caso, presumo che si tratterà soltanto della mano destra.» «E soltanto della testa» dissi, con la voce impastata. «Cerca di non ridere» disse Mordecai. «Ridere?!» gridai, in preda all'angoscia... e poi risi davvero, tanto le parole di lui erano assurde. «Stai di nuovo scherzando, vecchio.» Egli alzò le spalle. «Uno fa quel che può.» Un giorno, la monotonia venne interrotta. I carcerieri aprirono la porta della cella per far entrare uno sconosciuto. Era un uomo abbastanza giovane e non indossava una uniforme, bensì la veste della Confraternita della Giustizia; si presentò come Fratello Ugo. «Tu devi già» disse con animazione «una considerevole somma per l'alloggio e il vitto in questa prigione dello Stato. Se non disponi di mezzi, hai diritto all'aiuto della Confraternita. Essa pagherà per te finché rimarrai in carcere. Io sono un avvocato autorizzato e farò del mio meglio per difenderti. Inoltre farò da tramite fra te ed altri per eventuali messaggi e ti procurerò qualche piccolo conforto... sale per i cibi, olio per la lampada, cosucce di questo genere. Posso anche fare in modo» - e, così dicendo, sbirciò il vecchio Cartafilo, e arricciò un poco il naso - «che tu abbia una cella tutta per te.» Dissi: «Dubito che potrei essere meno infelice altrove. No, preferisco rimanere in questa cella.» «Come vuoi» disse lui. «Oh, dunque, mi sono messo in contatto con la Compagnia Polo, della quale, a quanto pare, tu sei il titolare, pur essendo ancora minorenne. Se lo preferisci, puoi
permetterti di pagare tu stesso la spesa del carcere, e anche assumere un avvocato di tua scelta. Dovrai soltanto scrivere il necessario pagherò e autorizzare la Compagnia a versare la somma.» Risposi, incerto: «Questa sarebbe una pubblica umiliazione per la Compagnia. E inoltre, non so se ho il diritto di sperperarne i fondi...» «Per una causa perduta» concluse lui in mia vece, approvando con un cenno affermativo. «Capisco perfettamente.» Allarmato, cominciai a protestare: «Non intendevo dire... cioè, voglio sperare...» «L'alternativa consiste nell'accettare l'aiuto della Confraternita della Giustizia. Per rifarsi dell'esborso, la Confraternita sarà allora autorizzata a mandare per le strade due questuanti, i quali chiederanno elemosine ai cittadini per compassione del misero Marco Polo...» «Amore Dei!» esclamai io. «Questo sarebbe certo infinitamente più umiliante!» «Non sei obbligato a decidere seduta stante. Consentimi invece di parlare del tuo caso. In qual modo intendi dichiararti colpevole?» «Dichiararmi colpevole?» esclamai, indignato. «Protesterò, invece. Sono innocente!» Fratello Ugo tornò a sbirciare l'ebreo, e con disapprovazione, quasi sospettasse che io fossi già stato consigliato. Mordecai si limitò ad assumere un'espressione scettica e divertita. Io continuai: «Come mio primo teste chiederò che venga citata Donna Ilaria. Quando sarà costretta a parlare del nostro...» «Non verrà citata a deporre» mi interruppe il Fratello. «I Signori della Notte non lo consentiranno. Quella dama ha perduto di recente il marito ed è ancora prostrata dal dolore.» Dissi, in tono di scherno: «State cercando di farmi credere che si affligge per il marito?» «Be'...» fece lui, molto sicuro di sé, «se non si tratta di questo, puoi stare certo che ostenta un'estrema afflizione non potendo più essere la Dogaressa di Venezia.» Il vecchio Cartafilo si lasciò sfuggire qualcosa di simile a una risatina soffocata. Forse mi lasciai sfuggire a mia volta un suono - di sgomento - poiché prima di allora non avevo mai pensato a questo aspetto della situazione. Ilaria doveva ribollire di delusione, di frustrazione e d'ira. Quando aveva voluto l'eliminazione del marito, non si era mai sognata l'onore che stava per essergli fatto, e che lei avrebbe condiviso. Per cui, adesso, doveva essere propensa a dimenticare la propria colpa; e certo la consumava il desiderio di esigere la vendetta per il titolo perduto. Su "chi" ella avrebbe sfogato la propria furia non importava, e chi mai sarebbe potuto essere un bersaglio più facile di me? «Se tu sei innocente, mio giovane Messer Marco» disse Ugo «chi è stato ad assassinare l'uomo?» Risposi: «Credo che sia stato un prete.» Fratello Ugo mi rivolse un lungo sguardo, poi bussò alla porta della cella affinché un carceriere lo facesse uscire. Mentre la porta cigolava, aprendosi all'altezza delle sue ginocchia, egli mi disse: «Ti suggerisco di deciderti ad assumere un altro difensore. Se intendi accusare un reverendo padre e se la teste più importante a tua difesa è una donna decisa alla vendetta, ti occorrerà il più grande talento legale che esista nella Repubblica. Addio.» Quando se ne fu andato, dissi a Mordecai: «Tutti danno per scontato che la mia condanna sia certa, colpevole "o no". Senza dubbio però, deve esservi qualche legge che protegge l'innocente evitandogli un'ingiusta condanna.» «Oh, è quasi certo. Ma esiste anche un antico adagio: le leggi di Venezia sono supremamente giuste e vengono diligentemente applicate... per una settimana. La cosa migliore è che tu non consenta a te stesso di sperare troppo.» «Vi sarebbe più speranza in me se venissi aiutato maggiormente» dissi. «E tu saresti in grado di aiutare entrambi. Fai avere a Fratello Ugo le lettere in tuo possesso e lascia che le esibisca come prova. Perlomeno getterebbero l'ombra del sospetto sulla addoloratissima dama e sul suo ganzo.» Egli mi fissò con quei suoi occhi color mora, si lisciò, con aria riflessiva, la barba e disse: «Pensi che questa sarebbe una cosa cristiana a farsi?» «Be', sì. Per salvarmi la vita. Per liberare te. Non vedo alcunché di non cristiano in questo.»
«Allora sono spiacente di attenermi a una diversa moralità, poiché non posso farlo. Non l'ho fatto per sottrarmi alla fustigazione, e non lo farò nemmeno per entrambi.» Lo fissai incredulo. «Perché no, in nome del Cielo?» «Il mio commercio si basa sulla fiducia. Io sono il solo a dare denaro in prestito che accetti in pegno documenti del genere. Posso far questo soltanto se mi fido dei clienti e se sono certo che restituiranno le somme avute in prestito, con gli interessi. E i clienti impegnano quelle carte soltanto perché sono certi che io non ne rivelerò mai il contenuto. Credi che altrimenti le donne mi affiderebbero le loro "lettere d'amore"?» «Ma te l'ho detto, vecchio, nessuna persona al mondo si fida di un ebreo. Pensa a come ti ha ripagato Donna Ilaria, con il tradimento. Non è questa una prova sufficiente del fatto che non ti riteneva degno di fiducia?» «E' la prova di qualcosa, sì» disse lui, ironico. «Ma, se anche soltanto una volta io dovessi venir meno alla parola data, sia pure per la più spaventosa delle provocazioni, potrei rinunciare al mestiere che ho scelto. Non perché sarebbero gli altri a giudicarmi spregevole, ma perché tale mi giudicherei io stesso.» «Quale mestiere, vecchio idiota? Potresti rimanere qui fino all'ultimo dei tuoi giorni. Lo hai anche detto tu stesso. Non potrai concludere alcun...» «Ma posso comportarmi secondo la mia coscienza. Sarà forse una magra consolazione, ma è l'unica che possa avere. Starmene rinchiuso qui a grattarmi le morsicature delle pulci e delle cimici, e vedere il mio corpo, un tempo grassoccio, smagrire e rinsecchire, ma sentirmi superiore alla moralità cristiana che qui mi ha imprigionato.» Ringhiai: «Potresti vantarti nello stesso identico modo anche fuori di qui... non credi?» «Zitto! Basta! Gli insegnamenti degli stolti sono follia. Non ne parleremo più. Guarda qui sul pavimento, ragazzo mio: ci sono due grossi ragni. Facciamoli gareggiare l'uno con l'altro in una corsa e puntiamo fortune incalcolabili sull'esito della gara. Scegli il ragno che preferisci...»
11. Altro tempo trascorse, nella tetraggine, e poi Fratello Ugo tornò, curvandosi per passare attraverso la bassa porta. Aspettai, torvo, che dicesse qualcosa di scoraggiante come la volta precedente, ma quello che disse fu sbalorditivo: «Tuo padre e suo fratello sono tornati a Venezia!» «Cosa?» balbettai, incapace di capire. «Volete dire che sono tornate le loro salme? Per essere seppellite nella terra natia?» «Voglio dire che si trovano qui! Vivi e vegeti!» «Vivi? Dopo dieci anni di silenzio?» «Sì, tutti i loro conoscenti sono stupiti quanto te. L'intera comunità dei mercanti non sta parlando d'altro. Si dice che portino un'ambasceria dalla lontana Tartaria al Papa di Roma. Ma per fortuna per tua grande fortuna, mio giovane messer Marco - sono tornati a Venezia prima di recarsi a Roma.» «Perché per mia grande fortuna?» domandai, tremante. «Sarebbero forse potuti tornare in un momento più opportuno? Hanno già presentato una petizione alla Quarantia, chiedendo di essere autorizzati a farti visita, cosa che di norma non è consentita ad alcuno tranne gli avvocati dei detenuti. E' possibile che tuo padre e tuo zio possano ottenere una certa clemenza nel tuo caso. E, se non altro, la loro presenza al processo dovrebbe fornirti un certo sostegno morale. E immettere una certa rigidità nella tua spina dorsale quando ti avvicinerai alle colonne.» Su questa nota equivoca se ne andò di nuovo. Mordecai ed io continuammo a parlare, facendo animate supposizioni, fino a notte alta, anche dopo che le campane avevano annunciato il
coprifuoco e dopo che un carceriere ci aveva ringhiosamente imposto, attraverso lo spioncino, di spegnere la fioca luce della nostra lampada consistente in uno straccio imbevuto d'olio. Dovettero passare altri quattro o cinque giorni, intollerabili per me, ma infine la porta si aprì cigolando e un uomo entrò, un uomo talmente tarchiato che dovette compiere un grande sforzo per passare. Una volta entrato nella cella egli si raddrizzò e parve "continuare" a raddrizzarsi, tanto era alto di statura. Non ricordavo minimamente di essere imparentato con un uomo così immenso. Era peloso quanto grosso, con arruffati capelli neri e un'ispida barba nera dai riflessi azzurri. Mi guardò dall'alto della sua gran statura che intimidiva e la sua voce fu sdegnosa quando tuonò: «Bene! Se questa non è pura merda con la crosta di un timballo!» Dissi, umilmente: «Benvegnuo, caro pare.» «Non sono il tuo care padre, rospetto. Sono tuo zio Maffeo.» «Benvegnuo, caro zio. Mio padre non verrà?» «No. Abbiamo avuto il permesso per un solo visitatore. E sarebbe giusto che restasse in casa a piangere tua madre.» «Oh. Sì.»» «A dire il vero, però, sta facendo la corte alla nuova moglie.» Questo mi fece trasecolare. «Cosa? Come ha potuto comportarsi in un modo simile?» «Chi sei tu per disapprovare, malfamato scagaròn? Il pover'uomo torna da paesi stranieri e trova la moglie seppellita da un pezzo, la cameriera scomparsa, un prezioso schiavo fuggito, il suo amico il Doge morto... e suo figlio, la speranza della famiglia, in carcere, accusato del più turpe assassinio nella storia di Venezia!» Con una voce talmente tonante che tutti nel Vulcano dovettero udirlo, sbraitò: «Dimmi la verità! Sei stato tu?» «No, mio signor zio» risposi, sgomento. «Ma cosa c'entra questo con una seconda moglie?» Un po' meno sonoramente, e con uno sbuffo di riprovazione, mio zio disse: «Tuo padre non può fare a meno di una compagna. Non so per quale motivo, gli piace essere ammogliato.» «Ha scelto un modo strano per dimostrarlo a mia madre» dissi io. «Andandosene e restando lontano come ha fatto.» «E partirà di nuovo» disse lo zio Maffeo. «Ecco perché deve avere qualcuno con un po' di sale in zucca cui affidare gli interessi della famiglia. Non ha il tempo di aspettare un altro figlio. Una seconda moglie dovrà bastare.» «Che bisogno ha di un secondo o di una seconda?» dissi io, con foga. «Lo "ha" già un figlio!» Zio Maffeo non rispose a queste mie parole. Si limitò a squadrarmi dalla testa ai piedi con occhi feroci, poi volse lo sguardo, tutto attorno, sulla piccola, buia e fetida cella. Di nuovo umile, mormorai: «Avevo sperato che potesse tirarmi fuori di qui.» «No, devi cavartela da solo» disse mio zio, e il cuore mi si strinse. Ma egli continuò a guardarsi attorno e soggiunse, come se stesse riflettendo a voce alta: «Tra tutti i disastri che possono toccare a una città, Venezia ha sempre paventato, più di ogni altro, il pericolo di un grande incendio. Sarebbe particolarmente nefasto se minacciasse il Palazzo Ducale e i tesori civici che esso contiene, o la Basilica di San Marco e i suoi tesori. Poiché il Palazzo è, da un lato, adiacente a questa prigione, che dall'altro è vicina alla Basilica, i carcerieri qui nel Vulcano adottavano un tempo particolari precauzioni - e immagino che sia così ancor oggi - affinché anche la più piccola fiammella delle lampade nelle celle venga attentamente sorvegliata.» «Be', sì, loro...» «Chiudi il becco. Si regolano così perché se durante la notte una di queste lampade dovesse appiccare il fuoco, diciamo, alle assi dei tavolacci, verrebbe dato urgentemente l'allarme e vi sarebbe un frenetico viavai con secchi d'acqua. Il detenuto dovrebbe essere fatto uscire dalla cella in fiamme, per poter spegnere l'incendio. E se, approfittando del fumo e della confusione, quel detenuto riuscisse ad arrivare fino al corridoio dei Giardini Foschi di questa prigione che dà sul canale, potrebbe saltargli in mente di spostare il lastrone mobile di pietra nel muro verso l'esterno. E, se riuscisse a far questo, diciamo domani sera, troverebbe probabilmente un batèlo fermo sull'acqua immediatamente sotto l'apertura.»
Maffeo riportò infine lo sguardo su di me. Ero troppo assorto nel contemplare le possibilità per poter dire qualcosa, ma il vecchio Mordecai parlò senza essere stato invitato a farlo: «Questo è già accaduto. E per tale motivo esiste adesso una legge in base alla quale i detenuti che tentino la fuga mediante un incendio doloso - per quanto insignificante possa essere stato il loro reato - saranno condannati al rogo. E non esiste la possibilità di appellarsi contro questa sentenza.» Zio Maffeo disse, sardonico: «Grazie, Matusalemme.» Poi, rivolto a me, soggiunse: «Be', hai appena udito un'altra buona ragione per non limitarti a tentare, ma per riuscire.» Sferrò un calcio alla porta, chiamando il carceriere. «A domani notte, nipote.» Rimasi desto per quasi tutta quella notte. Non che la fuga richiedesse piani minuziosi; non chiusi occhio soltanto per assaporare la prospettiva di essere di nuovo libero. E il vecchio Cartafilo emerse all'improvviso da un sonno apparentemente profondo per dire: «Spero che la tua famiglia sappia quello che fa. Secondo un'altra legge, il parente più stretto di ogni detenuto è responsabile del suo comportamento. Il padre risponde per il figlio, il marito per la moglie, il padrone per lo schiavo. Se un detenuto fugge con l'espediente dell'incendio doloso, tocca a chi è responsabile per lui di essere bruciato vivo.» «Mio zio non ha l'aria di essere un uomo che si preoccupi molto per le leggi» dissi io, alquanto orgoglioso, «o che abbia molta paura di bruciare vivo. Ma, Mordecai, non posso farlo senza la tua partecipazione. Dobbiamo tentare la fuga insieme. Che ne dici?» Egli tacque per qualche momento, poi farfugliò: «Dico che bruciare sul rogo è preferibile alla morte lenta causata dalla petecchia, la malattia della prigione. E per giunta, anche l'ultimo dei miei parenti è già morto da un pezzo.» E così, quando discese la notte seguente, quando i rintocchi delle campane annunciarono il coprifuoco e i carcerieri ci ordinarono di spegnere la lampada, noi ci limitammo a nasconderne la luce con il secchio che serviva da latrina. Non appena i carcerieri furono passati oltre nel corridoio, io versai quasi tutto l'olio di pesce della lampada sulle assi del mio tavolaccio. Mordecai si tolse la palandrana - era completamente verde di muffa e avrebbe fatto scaturire molto fumo dall'incendio; insieme l'affagottammo sotto il mio giaciglio e vi appiccammo il fuoco con lo stoppino di straccio della lampada. Bastarono pochi momenti appena perché la cella venisse invasa dal fumo nero, mentre il legno cominciava ad essere lambito dalle fiamme. Mordecai ed io agitammo le braccia per far sì che il fumo uscisse dallo spioncino, e urlammo, con tutto il fiato che avevamo nei polmoni: «Al fuoco! Al fuoco!» e udimmo passi in corsa nel corridoio. Poi, come aveva previsto mio zio, seguirono tumulto e confusione e a Mordecai e a me venne imposto di uscire dalla cella affinché gli uomini con i secchi d'acqua potessero insinuarvisi. Il fumo proruppe all'esterno insieme a noi e i carcerieri ci tolsero di mezzo con urtoni. Erano molto numerosi nel corridoio, ma badavano ben poco a noi due. E così, aiutati dal fumo e dall'oscurità, sgattaiolammo, furtivi, più in là nel corridoio e voltammo all'angolo. «Da questa parte, adesso!» disse Mordecai, e mi precedette con una rapidità straordinaria per un uomo della sua età. Era rimasto in prigione abbastanza a lungo per conoscerne i passaggi e mi guidò qua e là finché intravvedemmo un po' di luce in fondo a un lungo corridoio. Egli sostò lì all'angolo, sbirciò al di là di esso, poi mi fece cenno di proseguire. Voltammo in un altro corridoio più breve, con due o tre lampade a parete, ma deserto. Mordecai si inginocchiò, mi fece cenno di aiutarlo, ed io vidi che una grossa pietra quadrata, ai piedi della parete, aveva maniglioni di ferro inchiavardati. Mordecai ne afferrò uno, io l'altro e, mentre facevamo forza, la pietra venne via, rivelando di essere meno spessa delle altre circostanti. Aria mirabilmente fresca, umida e odorosa di salsedine si ingolfò attraverso l'apertura. Io mi raddrizzai per respirare con gratitudine e, l'attimo dopo, venni scaraventato sul pavimento. Un carceriere era sbucato fuori da qualche punto e stava invocando aiuto a gran voce. Seguì un momento di confusione ancor più grande di prima. Il carceriere si gettò su di me e lottammo proprio sul lastrone rimosso, mentre Mordecai, accovacciato accanto al varco, ci fissava a bocca aperta, con gli occhi spalancati. Per un momento fuggevole venni a trovarmi sopra il carceriere e ne approfittai. Mi misi in ginocchio in modo da gravargli con tutto il mio peso sul petto
e da inchiodargli le braccia sul pavimento. Gli piazzai entrambe le mani sulla bocca urlante, poi mi voltai verso Mordecai, ansimando: «Non posso resistere... a lungo.» «Qua, figliolo» disse. «Lascia che lo tenga io.» «No. Uno di noi può fuggire. Vai tu.» Udii passi in corsa in qualche punto nei corridoi. «Presto!» Mordecai infilò i piedi nell'apertura, poi si voltò a domandarmi: «Perché io?» Mentre lottavo, tra una presa e l'altra, riuscii a balbettare alcune altre parole: «Tu hai lasciato... scegliere a me... tra i due ragni. Fuggì! Tocca a te.» Mordecai mi rivolse uno sguardo stupito e disse, adagio: «La ricompensa di una mitzvà è un'altra mitzvà» poi scivolò attraverso l'apertura e scomparve. Udii uno scroscio lontano al di là del nero foro, e poi venni sopraffatto. Fui rudemente malmenato lungo i corridoi e letteralmente scaraventato in una cella nuova. Era una cella antichissima, naturalmente, ma diversa da quella di prima. Vi si trovava un unico tavolaccio, la porta mancava dello spioncino e non v'era nemmeno un mozzicone di candela. Sedetti lì nelle tenebre, dolorante a causa dei lividi, e passai in rassegna la mia situazione. Tentando la fuga, avevo distrutto ogni speranza di poter mai dimostrare che ero innocente. Non riuscendo a fuggire, mi ero condannato al rogo. Avevo un unico motivo per essere grato: disponevo adesso di una cella personale. Non v'era alcun compagno di prigionia, lì, che potesse vedermi piangere. Poiché i carcerieri, per parecchio tempo in seguito, si astennero, sprezzanti, dal portarmi anche soltanto l'orribile pastone del carcere e poiché le tenebre e la monotonia erano assolute, non ho idea di quanto tempo rimasi solo in quella cella prima che vi venisse fatto entrare un visitatore. Era di nuovo il Fratello della Giustizia. Dissi: «Immagino che abbiano annullato il permesso concesso a mio zio di farmi visita.» «Dubito che verrebbe di buon grado» disse Fratello Ugo. «Mi risulta che andò su tutte le furie e bestemmiò quando vide che il nipote tirato fuori dall'acqua si era trasformato in un vecchio ebreo.» «E poiché non v'è più alcuna necessità della vostra difesa» mormorai io, rassegnato, «presumo che siate venuto soltanto come consolatore del prigioniero.» «In ogni caso, ti porto notizie che dovresti trovare consolanti. Il Consiglio ha eletto stamane un nuovo Doge.» «Ah, sì. Avevano rimandato l'elezione finché non fosse stato trovato il sassìn del Doge Zeno. E ora hanno me. Ma perché pensate che dovrei trovare consolante la notizia?» «Forse dimentichi che tuo padre e tuo zio fanno parte di quel Consiglio. E da quando, miracolosamente, sono tornati dopo una così lunga assenza, godono della più grande popolarità nella consorteria dei mercanti. Per conseguenza, durante l'elezione, potrebbero influenzare in misura considerevole i voti di tutti i mercanti nobili. Un tale a nome Lorenzo Tiepolo ci teneva moltissimo a diventare Doge, e, in cambio dei voti dei mercanti, si è dichiarato disposto a prendere certi impegni con tuo padre e tuo zio.» «Come ad esempio?» domandai, non osando sperare. «La tradizione vuole che un nuovo Doge, prendendo il potere, proclami alcune amnistie. Sua Serenità Tiepolo ti perdonerà il reato di incendio doloso che ha consentito la fuga di Mordecai Cartafilo da questa prigione.» «Sicché non brucerò sul rogo» dissi io. «Mi limiterò a perdere una mano e la testa, come assassino.» «No, niente affatto. Hai ragione di ritenere che l'assassino sia stato catturato, ma sbagli credendo di essere tu. Un altro uomo ha confessato di avere ucciso.» Fortunatamente la cella era troppo angusta, altrimenti sarei stramazzato sul pavimento. Mi limitai a barcollare e ad afflosciarmi contro la parete. Il Fratello continuò, con esasperante lentezza. «Ho detto che ti portavo notizie consolanti. Hai più avvocati di quanti tu sappia e tutti si sono dati da fare a tuo favore. Quello zudìo cui consentisti di evadere non si è limitato a fuggire o a imbarcarsi su una nave diretta verso qualche terra lontana. Non si è neppure nascosto nelle conigliere del borghèto degli ebrei. Si è recato invece a far visita a un prete - non a un rabbino, ma a un vero prete cristiano - uno dei sacerdoti della stessa Basilica di San Marco.»
Dissi: «Avevo cercato di parlarvi di quel prete.» «Be', sembra che fosse l'amante segreto di Donna Ilaria, ma ella si adirò con lui non essendo, per sua colpa, divenuta Dogaressa. E il prete, quando lei gli negò il proprio affetto, si sentì in preda al rimorso per aver commesso un'azione vile come l'assassinio, e senza alcun costrutto. Naturalmente, avrebbe potuto continuare a tacere, a mantenere il segreto tra se stesso e Dio. Ma poi Mordecai Cartafilo si recò da lui. L'ebreo, sembra, gli parlò di certe carte che ha in pegno. Non dovette nemmeno mostrarle, gli bastò menzionarle, e questo bastò per tramutare il segreto rimorso del prete in aperto pentimento. Egli si recò dai suoi superiori e fece una piena confessione, rinunciando al privilegio del segreto del confessionale. Così, ora si trova agli arresti domiciliari nella canonica. Anche Donna Ilaria deve rimanere rinchiusa in casa sua, come complice nel delitto.» «Che cosa accadrà adesso?» «Ogni decisione dovrà aspettare che il Doge assuma la carica. Lorenzo Tiepolo non vorrà rendere famigerato l'inizio stesso del suo dogato, poiché questo caso coinvolge ormai persone assai più in vista di un semplice ragazzotto che si atteggia a bravo. La vedova dell'assassinato Doge neo-eletto, un sacerdote della Basilica di San Marco... insomma, il Doge Tiepolo farà tutto il possibile per soffocare lo scandalo. Consentirà probabilmente che il sacerdote venga processato "in camera" da un tribunale ecclesiastico, anziché dalla Quarantia. Secondo me, quel prete verrà esiliato in qualche remota parrocchia dell'entroterra veneto. E il Doge, probabilmente, imporrà a Donna Ilaria di prendere il velo in un lontano monastero. Esistono precedenti del genere. Un centinaio d'anni fa, circa, in Francia, un sacerdote e una dama rimasero coinvolti in una situazione analoga...» «E a me che cosa accadrà?» «Il Doge, subito dopo essersi messo la scufieta bianca, proclamerà le amnistie. Ti verrà perdonato il reato di incendio doloso e dall'assassinio sei già stato prosciolto. Uscirai dalla prigione.» «Libero!» «Be', forse un pochino più libero di quanto potresti desiderare.» «Cosa?» «Ho detto che il Doge si regolerà in modo da far dimenticare al più presto tutta questa sordida vicenda. Se egli si limitasse a lasciarti libero a Venezia, la tua stessa presenza non farebbe che ricordarla alla gente. Verrai amnistiato, ma con la condizione del bando. Sei ormai un fuoricasta. Dovrai lasciare per sempre Venezia.» Nei successivi giorni di prigionia, riflettei su tutto ciò che era accaduto. Mi addolorava il pensiero di dovermene andare da Venezia, la serenisima, la clarisima. Ma questo era pur sempre meglio che morire nella piazzetta, o marcire nel Vulcano. E riuscivo persino a compatire il prete che aveva sferrato la stoccata del bravo in vece mia. In quanto giovane curato nella Basilica di San Marco, egli doveva senza dubbio aver anelato a una rapida e brillante carriera nella Chiesa, una carriera che non avrebbe più potuto sperar di percorrere nell'oscuro esilio. E a Ilaria sarebbe toccato un esilio ancor peggiore, ove bellezza e talenti non avrebbero potuto servirle mai più. Ma forse no; ella era riuscita ad avvalersene in modo alquanto prodigo pur essendo una donna maritata; forse avrebbe saputo godersi quei vantaggi anche come sposa di Cristo. Perlomeno, le sarebbero state offerte ampie possibilità di intonare l'inno del convento, come lo aveva chiamato. Tutto sommato, in confronto al fatto irrevocabile della nostra vittima, noi tre ce l'eravamo cavata con poco. Venni liberato dalla prigione ancor meno cerimoniosamente di come vi ero stato rinchiuso. I carcerieri aprirono la porta della cella, mi condussero lungo i corridoi, giù per le scale e al di là di altre porte, aprendo infine l'ultima per consentirmi di uscire nel cortile. Là dovetti soltanto passare sotto la Porta del Grano per venire a trovarmi sulla Riva della laguna, inondata dal sole, e per essere di nuovo libero come gli innumerevoli gabbiani che si libravano nell'aria. Fu una sensazione piacevole, ma mi sarei sentito ancor più felice se, prima della liberazione, avessi potuto lavarmi e indossare abiti puliti. Durante tutto quel periodo di tempo avevo indossato sempre gli stessi indumenti e non mi era mai stato possibile togliermi di dosso la sporcizia. Puzzavo di olio di pesce, di fumo e degli effluvi del secchio degli escrementi. Gli abiti che indossavo erano laceri a causa della lotta la notte della fallita evasione, e quanto ne rimaneva era sudicio e gualcito. Inoltre,
proprio in quei giorni, aveva cominciato a spuntarmi la prima peluria sul mento; poteva non essere molto visibile, ma intensificava la mia sensazione di essere impresentabile. Avrei potuto augurarmi circostanze migliori nelle quali incontrarmi per la prima volta, a quanto ricordavo, con mio padre. Lui e lo zio Maffeo mi stavano aspettando sulla Riva, entrambi indossando le vesti eleganti che avevano portato, probabilmente, come membri del Consiglio, in occasione dell'insediamento del nuovo Doge. «Guarda tuo figlio!» sbraitò lo zio. «Il tuo arcistupendissimo figliolo! Contempla colui che porta il nome di nostro fratello e del nostro Santo protettore. Non è costui un misero e gracile meschìn, per aver causato tanto trambusto?» «Padre?» dissi timorosamente, rivolgendomi all'altro uomo. «Figlio mio?» disse lui, quasi con la stessa esitazione, ma spalancando le braccia. Mi ero aspettato di vedere una persona ancor più imponente dello zio Maffeo, in quanto mio padre era il più anziano dei due. Ma in realtà egli sembrava scialbo in confronto al fratello; non era altrettanto alto e tarchiato, e aveva una voce assai più dolce. Al pari dello zio, sfoggiava una barba da viaggiatore, ma la sua era molto curata e ben spuntata. Inoltre, barba e capelli non erano dello stesso nero corvino che incuteva timore, ma di un decoroso color topo, come del resto i miei capelli. «Figlio mio. Mio povero figliolo orfano» egli disse. E mi abbracciò, ma subito mi scostò, tendendo le braccia, e domandò, preoccupato: «Puzzi sempre in questo modo?» «No, padre. Sono rimasto rinchiuso in una cella per...» «Tu dimentichi, Niccolò, che costui è un bravo che ha giocato d'azzardo con le colonne» tuonò mio zio. «E' un campione di matrone dal matrimonio mal riuscito, uno che si cela in agguato nella notte e maneggia la spada, un liberatore di ebrei!» «Ah, be', non esagerare» disse mio padre, indulgente. «Il pulcino deve pure aprire le ali al di là del nido. Vieni, andiamo a casa.»
12. I servi si stavano dando tutti da fare con più alacrità e più allegria di quanto fosse mai accaduto dopo la morte di mia madre. Parvero persino lieti di rivedermi in casa. La cameriera si affrettò a riscaldare l'acqua, quando io glielo chiesi, e Mastro Attilio, su cortese richiesta da parte mia, mi prestò il rasoio. Mi immersi più e più volte nell'acqua calda; goffamente, inesperto, mi raschiai la peluria dalla faccia, infine indossai una tunica pulita e un paio di brache e raggiunsi mio padre e mio zio nella sala principale, ove si trovava la vecchia e grande stufa di ceramica. «E ora» dissi «voglio sapere tutto dei vostri viaggi. Voglio che mi descriviate tutti i luoghi ove siete stati.» «Buon Dio, non di nuovo» gemette zio Maffeo. «Non ci è stato consentito di parlare d'altro.» «Avremo tutto il tempo in seguito per questo, Marco» disse mio padre. «Ogni cosa a tempo debito. Parliamo invece, adesso, delle tue avventure.» «Sono finite, ormai» mi affrettai a dire. «Preferirei ascoltare tutte cose nuove.» Ma non vollero cedere. E pertanto narrai loro, fedelmente e sinceramente, tutto quel che era accaduto dopo il primo incontro con Ilaria nella Basilica di San Marco, omettendo soltanto il nostro pomeriggio d'amore. In questo modo diedi l'impressione che soltanto una stupida cavalleria mi avesse indotto a cimentarmi nel calamitoso tentativo di agire come un bravo. Quando ebbi terminato, mio padre sospirò. «Qualsiasi donna potrebbe dare dei punti al demonio. Ah, be', ti sei comportato nel modo che a te sembrava il migliore. E chiunque faccia tutto quello che può, fa molto. Ma le conseguenze sono state davvero tragiche. Ho dovuto accettare la condizione posta dal Doge, che tu lasciassi Venezia, figlio mio. Egli sarebbe potuto essere, comunque, molto più severo con te.» «Lo so» dissi, in tono contrito. «Dove andrò, padre? Dovrei andare in cerca di un Paese della Cuccagna?»
«Maffeo ed io abbiamo affari da sbrigare a Roma. Intanto verrai con noi.» «Dovrò trascorrere il resto della mia esistenza a Roma, allora? La sentenza mi ha condannato al bando definitivo.» Mio zio ripeté la stessa cosa che aveva detto il vecchio Mordecai. «Le leggi di Venezia vengono applicate... per una settimana. Il Doge in eterno è Doge finché vive. Quando Tiepolo morirà, il suo successore difficilmente potrà impedirti di tornare. In ogni modo, potrebbe trascorrere molto tempo.» Mio padre disse: «Tuo zio ed io portiamo a Roma una lettera del Khakhan del Kithai...» Non avevo mai udito pronunciare prima di allora quelle due parole dal suono così aspro, e lo interruppi per dirlo. «Il Khan di tutti i Khan dei Mongoli» egli spiegò. «Forse avrai sentito attribuirgli il titolo di Gran Khan. Il Gran Khan di quello che qui viene denominato erroneamente Catai.» Spalancai gli occhi. «Vi siete imbattuti nei Mongoli? E siete riusciti a sopravvivere?» «Li abbiamo incontrati e ci siamo fatti molti amici tra loro. Nonché l'amico più potente che sia possibile... il Khan Qubilai, il quale governa l'impero più vasto del mondo. Ci ha pregati di portare una richiesta a Papa Clemente...» Continuò a spiegare, ma non lo ascoltavo più. Lo fissavo ancora con gli occhi spalancati, in preda a timore reverenziale e ammirazione, pensando che quell'uomo era mio padre, da me creduto morto da un pezzo, e che, nonostante il suo aspetto comunissimo, asseriva di essere un confidente di barbari Khan e di santi Pontefici! Egli concluse: «... e poi, se il Papa ci concederà i cento sacerdoti richiesti da Qubilai, li condurremo in Oriente. Torneremo direttamente nel Kithai.» «Quand'è che partiamo per Roma?» volli sapere. Mio padre disse, timidamente: «Be'...» «Dopo che tuo padre avrà sposato chi ti farà da seconda madre» intervenne zio Maffeo. «E per questo bisogna aspettare che vengano proclamati i bandi.» «Oh, non credo, Maffeo. Poiché Fiordalisa ed io non siamo più due giovincelli, e per giunta siamo entrambi vedovi, Padre Nunziata, probabilmente, ci dispenserà dai tre annunci del bando.» «Chi è Fiordalisa?» domandai. «E questa tua decisione non è alquanto improvvisa, babbo?» «La conosci» egli disse. «Fiordalisa Trevan, la proprietaria della casa tre porte più avanti sul canale.» «Sì. E' una brava donna. Era la migliore amica della mamma tra tutte le nostre vicine.» «Se stai insinuando quello che penso io, Marco, ti rammento che tua madre si trova nella tomba, ove non esistono più né gelosia, né invidia, né recriminazioni.» «E' vero» dissi. Ma soggiunsi, con impertinenza: «Però tu non stai portando il lutto.» «Tua madre venne seppellita otto anni fa. Dovrei vestirmi di nero ancora adesso e per altri dodici mesi? Non sono più abbastanza giovane per poter perdere un anno portando il lutto. E anche Donna Lisa non è più una bambina.» «Non le hai ancora chiesto di sposarti, babbo?» «Sì, e ha accettato. Andremo domani a sostenere il colloquio con Padre Nunziata.» «E lei sa che tu partirai immediatamente dopo averla sposata?» Mio zio esplose: «Che cos'è questa inquisizione, saputèlo?» Il babbo disse, paziente: «La sposo, Marco, proprio perché riparto. Di necessità virtù. Sono tornato aspettandomi di trovare tua madre ancora in vita e ancora la padrona della casa dei Polo. Invece ella non è più. E ora - per tua colpa - non posso affidare a te la direzione dei nostri affari. Il vecchio Doro è un brav'uomo, e non c'è bisogno di qualcuno che sbirci oltre la sua spalla. Ciò nonostante, preferisco lasciare qui qualcuno con il cognome dei Polo, che possa rappresentare la compagnia. Donna Fiordalisa farà per l'appunto questo. Inoltre non ha figli che possano avanzare pretese sul tuo patrimonio, se è questo a preoccuparti.» «No, non è questo» dissi. E di nuovo parlai con impertinenza. «Mi preme soltanto l'apparente mancanza di rispetto nei confronti di mia madre - e anche nei confronti di Donna Trevan - con
questa tua fretta di ammogliarti soltanto per ragioni di interesse. Ella deve pur sapere che tutta Venezia bisbiglierà e ridacchierà.» Mio padre disse, blando, ma con l'aria di voler porre termine alla discussione: «Io sono un mercante, e Donna Trevan è la vedova di un mercante e Venezia è una città di mercanti, ove tutti sanno che non esiste ragione migliore, per fare qualsiasi cosa, di una ragione mercenaria. Per un veneziano, il denaro è il secondo sangue, e tu sei veneziano. Bene, ho ascoltato le tue obiezioni, Marco, e le ho respinte. Vorrei non sentirne più parlare. Rammenta, la bocca chiusa non può sbagliare.» Pertanto tenni la bocca chiusa e non dissi altro al riguardo, avessi ragione o torto; e, il giorno in cui mio padre sposò Donna Lisa, assistetti alla cerimonia nella chiesa del confino di San Felice, con lo zio Maffeo e tutti i liberi servi di entrambe le famiglie e numerosi vicini e nobili mercanti, mentre l'anziano Padre Nunziata celebrava tremolante la Messa nuziale. Ma quando la cerimonia ebbe termine e giunse per il babbo il momento di condurre la sposa nella sua nuova dimora, insieme a tutti gli invitati, io sgattaiolai via dal lieto corteo. Sebbene fossi vestito a festa, lasciai che i miei passi mi conducessero verso la chiatta dei ragazzi. Soltanto di rado e fuggevolmente ero tornato da loro, dopo essere stato liberato dalla prigione. Adesso che ero un ex detenuto, tutti i ragazzi sembravano considerarmi un uomo adulto, o magari addirittura un personaggio celebre; in ogni modo, era venuto a determinarsi tra noi un certo distacco che prima non esisteva. Tuttavia, quel giorno non trovai nessuno nella chiatta tranne Doris. Era inginocchiata sulle nude assi all'interno dello scafo, senz'altro indosso all'infuori di una corta camiciola, e stava passando indumenti bagnati da un secchio ad un altro. «Boldo e gli altri hanno chiesto un passaggio sul barcone dei rifiuti diretto a Torcello» mi disse. «Rimarranno fuori tutto il giorno e così approfitto dell'occasione per lavare tutti i panni sporchi.» «Posso tenerti compagnia?» domandai. «E dormire ancora una volta qui sulla chiatta, stanotte?» «Se dormi qui, bisognerà lavare tutto quello che indossi» disse lei, adocchiando con aria critica il mio vestito. «Ho sopportato sistemazioni ben peggiori» dissi io. «E posseggo altri vestiti.» «Da che cosa stai fuggendo, questa volta, Marco?» «Oggi si è sposato mio padre. Mi sta portando a casa una maregna, ed io non ci tengo particolarmente ad averla. Ho già avuto una vera madre. E non l'ho dimenticata.» «Devo averne avuta una anch'io, ma non mi dispiacerebbe avere una maregna.» Poi ella soggiunse, sospirando come una donna adulta ed esasperata. «A volte sento di esserlo "io" una maregna, per tutti questi orfani.» «Donna Fiordalisa è abbastanza simpatica» dissi io, mettendomi a sedere e appoggiando le spalle allo scafo. «Ma, non so perché, non mi va di trovarmi sotto lo stesso tetto con mio padre, durante la sua prima notte di nozze.» Doris mi fissò con evidente malizia, smise di fare quello che stava facendo e venne e sedermi accanto. «Benissimo» mi bisbigliò all'orecchio. «Rimani qui. E fingi che sia la "tua" prima notte di nozze.» «Oh, Doris, ricominci daccapo?» «Non so perché dovresti rifiutare. Ormai ci ho fatto l'abitudine a tenermi pulita, come tu mi dicesti che dovrebbe fare una dama. Mi tengo pulita dappertutto, guarda.» Prima che avessi potuto protestare, si sfilò la camiciola con un solo, agile movimento. Era senza dubbio pulita, e per giunta aveva il corpo completamente privo di peli. Nemmeno donna Ilaria era stata così liscia e lustra dappertutto. Naturalmente, a Doris mancavano anche le curve e le rotondità femminili. I seni stavano appena cominciando a sbocciarle sul petto e i capezzoli erano di un rosa appena appena più scuro del resto della pelle; quanto ai fianchi, come le natiche, erano appena imbottiti di soffice carne femminile. «Sei ancora una toseta» dissi, cercando di assumere un tono annoiato e disinteressato. «Ne hai ancora di strada da percorrere prima di diventare una donna.»
Questo era vero, eppure la sua stessa giovinezza, la sua esilità e immaturità esercitavano un loro fascino. Sebbene tutti i ragazzi siano lussuriosi, di solito concupiscono le vere donne. E tendono a considerare qualsiasi loro coetanea soltanto come una compagna di giuochi, come una maschiaccia tra gli altri ragazzi, una toseta. Tuttavia, io ero alquanto più progredito, sotto questo aspetto, della maggior parte dei miei coetanei; avevo già avuto l'esperienza di una vera donna. Quell'esperienza aveva fatto sì che apprezzassi i duetti musicali; ora, già da qualche tempo ero privo di tale musica ed ecco lì una graziosa novizia che mi esortava a fargliela conoscere. «Sarebbe disonorevole da parte mia» dissi «anche soltanto fingere di godermi una notte nuziale.» Stavo ragionando con me stesso più che con lei. «Te l'ho detto, no? Partirò e andrò lontano, fino a Roma, tra pochi giorni.» «Anche tuo padre. Ma questo non gli ha affatto impedito di sposarsi sul serio.» «E' vero, e abbiamo litigato per questo. Secondo me non era giusto. Ma, comunque, la sua seconda moglie sembra essere soddisfattissima.» «E lo sarei anch'io. Fingiamo di essere sposati, per il momento, Marco, e in seguito ti aspetterò e tu tornerai. Lo hai detto tu stesso... quando avremo un nuovo Doge.» «Sei ridicola, piccola Doris. Standotene seduta qui, completamente nuda e parlando di Dogi e così via.» Ma non sembrava affatto ridicola; sembrava una delle impudenti ninfe dell'antica leggenda. Feci un vero sforzo per dissuaderla: «Tuo fratello seguita a dire che brava ragazzina sei tu...» «Boldo non tornerà fino a stanotte e non saprà niente di quello che sarà accaduto nel frattempo tra noi due.» «Andrebbe su tutte le furie» continuai, come se non fossi stato interrotto. «Dovremmo picchiarci di nuovo, come ci picchiammo quando mi lanciò addosso quel pesce, tanto tempo fa.» Doris fece il broncio. «Non apprezzi la mia generosità. Ti offro un piacere, anche a costo di dover soffrire.» «Soffrire? Perché mai?» «La prima volta è sempre doloroso per una vergine. E insoddisfacente. Tutte le ragazze lo sanno. Ogni donna ce lo dice.» Osservai, riflessivo: «Non capisco perché dovrebbe essere doloroso. Non lo è se lo si fa come la mia...» Ma decisi che sarebbe stata una mancanza di tatto accennare alla dama Ilaria, in quel momento. «Voglio dire, come ho imparato io a farlo.» «Se questo è vero» disse Doris «potresti meritarti l'adorazione di molte vergini, nel corso della tua vita. Mostrami questo modo che hai imparato.» «Si comincia facendo... certe cose preliminari. Come questa.» E le toccai uno dei minuscoli capezzoli. «La zizza? Sento soltanto un po' di solletico.» «Credo che il solletico ti si tramuterà molto presto in un'altra sensazione.» Quasi subito dopo, ella disse: «Sì. Hai ragione.» «Piace anche alla zizza. Vedi, si solleva per chiederne ancora.» «Sì. Sì, è vero.» Adagio ella si reclinò all'indietro, supina sul ponte della chiatta, ed io l'accompagnai nel movimento. Dissi: «Alla zizza piace ancor di più essere baciata.» «Sì.» Come una pigra gatta, ella distese tutto il proprio esile corpo, voluttuosamente. «Poi c'è questo.» «Anche questo è un solletico.» «Sì, ma a sua volta diventa meglio di un solletico.» «Già. E' proprio vero. Sento...» «Non dolore, senza dubbio.» Doris scosse la testa, gli occhi ormai chiusi. «Queste cose non richiedono nemmeno la presenza di un uomo. Si chiamano l'inno del convento, perché le ragazze possono farsele esse stesse.» Volevo essere scrupolosamente giusto, e offrirle il modo di mandarmi via.
Ma lei si limitò a dire, con il respiro corto: «Non avevo idea... Non so nemmeno come sono fatta, lì sotto.» «Potresti facilmente vederti la mona con uno specchio.» Doris mormorò, fiocamente: «Non conosco nessuno che abbia uno specchio.» «Allora guarda... No, lei è tutta peli, là sotto. Tu sei ancora scoperta e visibile e soffice. E graziosa, qui. Sembra...» Cercai un paragone poetico. «Conosci quella pasta fatta a forma di piccole conchiglie piegate? Quella chiamata labbra-di-donna?» «Mi stai facendo provare la stessa sensazione di labbra che vengano baciate» disse lei, come se stesse parlando nel sonno. Di nuovo aveva chiuso gli occhi e il suo piccolo corpo si stava muovendo con lenti contorcimenti. «Baciate, sì» dissi io. Dopo le lente contorsioni, il suo corpo parve irrigidirsi per un momento, poi rilassarsi ed ella emise un tremulo suono di piacere. Mentre continuavo a suonare musicalmente su di lei, ebbe di nuovo quella lieve convulsione, e poi ancora e ancora, e ogni volta l'irrigidimento si protrasse più a lungo, quasi ella stesse imparando, con la pratica, a protrarre il piacere. Senza smettere di prodigarmi con lei, ma servendomi soltanto della bocca, potei avere le mani libere per spogliarmi. Quando fui nudo contro Doris, ella parve godere più che mai i dolci spasimi, e avidamente mi passò le mani sul corpo. Così continuai per qualche tempo ancora, suonando la musica del convento, come mi aveva insegnato Ilaria. Quando infine Doris fu tutta lustra di sudore, smisi di accarezzarla e la lasciai riposare. Il respiro affrettato di lei rallentò il ritmo, ed ella aprì gli occhi; sembrava stordita. Poi si accigliò, perché mi sentiva duro contro di lei; spudoratamente abbassò una mano per afferrarmi, e disse, stupita: «Hai fatto tutto questo... o mi hai fatto fare tutto questo... e non sei mai...» «No, non ancora.» «Non me ne sono accorta.» Rise, molto divertita. «Non avrei potuto accorgermene. Ero lontana. In qualche punto tra le nuvole.» Sempre tenendomi stretto nella mano, si tastò con l'altra. «Tutto questo... e sono ancora vergine. E' miracoloso. Credi che la nostra Santa Vergine...» «Stiamo già peccando, Doris» mi affrettai a dire. «Cerchiamo di non bestemmiare, per giunta.» «No. Pecchiamo ancora un po'.» E peccammo, e ben presto riuscii di nuovo a far tubare e fremere Doris - lontana in qualche punto tra le nubi, come aveva detto - intenta a godersi l'inno delle monache. E infine le feci quello che nessuna monaca può fare, e la cosa accadde non rudemente o con la costrizione, ma facilmente e naturalmente. Doris, madida di sudore, venne, scivolosa, tra le mie braccia, e quella parte di lei era ancor più umida. Pertanto non sentì alcuna violenza, ma provò soltanto una sensazione più intensa tra le molte e nuove che aveva sperimentato. Spalancò gli occhi, quando la cosa accadde, occhi traboccanti di piacere, e il gemito che emise fu soltanto in un registro musicale diverso da quelli precedenti. La sensazione fu nuova anche per me. Entro Doris ero trattenuto strettamente come da un tenero pugno, assai più di quanto fosse accaduto con entrambe le altre due femmine insieme alle quali mi ero giaciuto. Anche in quel momento di estrema eccitazione mi resi conto che veniva così smentita la mia ignorante asserzione di un tempo secondo la quale tutte le donne erano uguali nelle loro parti intime. Per qualche minuto, in seguito, sia Doris sia io emettemmo molti suoni diversi. E quello ultimo, quando finimmo di muoverci per riposare, fu il suo lungo sospiro di stupore e di soddisfacimento insieme. «Oh, Dio mio!» «Penso che non sia stato doloroso» dissi, e le sorrisi. Lei scosse la testa con veemenza e mi sorrise a sua volta. «Avevo sognato questo molte volte. Ma non mi ero mai sognata che sarebbe stato così... E non ho mai sentito nessuna donna descrivere così la sua prima volta... Grazie, Marco.» «Sono io a ringraziare te, Doris» dissi. «E ora che sai come...» «Zitto. Non voglio fare niente di simile con altri, ma soltanto con te. Per me non ci sei che tu.»
«Partirò presto.» «Lo so. Ma so anche che tornerai. E non lo rifarò più finché non sarai tornato da Roma.» Ma non andai a Roma. E non ci sono ancora stato. Doris ed io continuammo a sollazzarci fino al cader della notte, ed eravamo di nuovo vestiti di tutto punto e ci stavamo comportando nel modo più corretto quando Ubaldo, Daniele, Margherita e gli altri tornarono dalla gita. Allorché ci ritirammo nella chiatta per dormire, dormii solo, sullo stesso giaciglio di stracci del quale mi ero già servito una volta. E, la mattina dopo, venimmo destati tutti quanti dallo sbraitare di un banditore, il quale stava facendo il suo giro insolitamente di buon'ora perché aveva notizie insolite da annunciare. Papa Clemente Quarto era morto a Viterbo. Il Doge di Venezia proclamava un periodo di lutto e di preghiere per l'anima del Santo Padre. «Dannazione!» sbraitò mio zio, picchiando il pugno sul tavolo. «Abbiamo forse portato la sfortuna in patria con noi, Nico?» «Dapprima muore il Doge, e ora tocca al Papa» disse mio padre, malinconicamente. «Ah, be', tutti i salmi finiscono in gloria.» «E, stando alle notizie da Viterbo» osservò l'impiegato Isidoro, nel cui piccolo ufficio eravamo riuniti, «potranno esservi molte fumate nere al Conclave. Sembra che siano molto numerosi i piedi guizzanti per la smania di calzare le scarpe del Pescatore.» «Non possiamo aspettare l'elezione del Pontefice, pronta o tardiva che sia» borbottò mio zio. «Dobbiamo portar via da Venezia questo galeotto, altrimenti potremmo finire tutti in carcere.» «Non è necessario che aspettiamo» osservò mio padre, imperturbabile. «Doro ha, molto amabilmente, acquistato e riunito tutto ciò che ci occorre per il viaggio. Mancano soltanto i cento preti, e Qubilai non si curerà di sapere se sono stati scelti o meno da un Papa. Qualsiasi alto prelato può trovarceli.» «A quale prelato ci rivolgiamo?» domandò Maffeo. «Se li chiedessimo al Patriarca di Venezia, egli ci direbbe - e a ragione - che procurarci cento sacerdoti significherebbe praticamente vuotare ogni chiesa della città.» «E inoltre li costringeremmo a un viaggio ancora più lungo» rifletté a voce alta mio padre. «Meglio cercarli in un luogo più vicino alla nostra meta.» «Perdonate la mia ignoranza» disse la nuova maregna toccatami, Fiordalisa. «Ma perché, in nome del Cielo, dovete reclutare sacerdoti - e in così gran numero, oltretutto - per un selvaggio signore della guerra mongolo? Senza dubbio, egli non può essere cristiano.» Fu mio padre a rispondere: «Il Khan Qubilai non ha alcuna religione palese, Lisa.» «Lo immaginavo.» «Ma possiede la virtù tipica dei senza Dio: è tollerante con ciò cui gli altri decidono di voler credere. E, invero, si augura che i suoi sudditi dispongano di tutta una serie di religioni tra le quali poter scegliere. Esistono, nelle sue terre, molti predicatori di molte religioni pagane, ma per quanto concerne la fede cristiana vi si trovano soltanto i delusi e avviliti sacerdoti nestoriani. Qubilai vuole che gli procuriamo una adeguata rappresentanza della vera Chiesa Cristiana di Roma. Naturalmente, Maffeo ed io ci teniamo molto ad accontentarlo... e non soltanto per propagandare la Santa Fede. Se riusciremo a portare a buon termine questa missione, potremo chiedere al Khan il permesso di impegnarci in missioni più proficue.» «Nico intende dire» spiegò mio zio «che speriamo di poter organizzare traffici tra Venezia e i paesi dell'Oriente... di mettere di nuovo in moto il commercio lungo la Via della Seta.» Lisa domandò, meravigliata: «Esiste una strada fatta di seta?» «Magari esistesse!» esclamò lo zio, facendo roteare gli occhi. «E' più tortuosa, e terribile e punitiva di qualsiasi sentiero possa condurre al Paradiso. Anche soltanto chiamarla strada è una stravaganza.» Isidoro chiese il consenso di spiegare alla dama: «La via che conduce dalle coste del Levante all'interno dell'Asia viene denominata Via della Seta sin dai tempi antichi perché la seta del Catai era la più costosa mercanzia trasportata lungo quella strada. A quei tempi, la seta valeva il proprio
peso in oro. E forse la strada stessa, essendo così preziosa, veniva allora mantenuta meglio ed era più facile a percorrersi. Ma, in tempi più recenti, fu lasciata in abbandono - in parte perché il segreto della produzione della seta venne sottratto al Catai; infatti, al giorno d'oggi, persino in Sicilia si produce la seta. E per giunta, quei paesi dell'Oriente divennero inaccessibili, a causa dei saccheggi degli Unni, dei Tartari e dei Mongoli che depredavano l'Asia, ovunque. Così i nostri mercanti dell'Occidente rinunciarono a viaggiare per via di terra e preferirono le rotte marittime note ai navigatori arabi.» «Se ci si può arrivare per mare» domandò Lisa a mio padre «perché subire tutte le privazioni ed esporsi a tutti i pericoli del viaggio per via terra?» Egli rispose: «Quelle rotte marittime sono precluse alle nostre navi. Gli Arabi in passato pacifici, accontentatisi per lungo tempo di vivere mansueti nella pace del loro Profeta, si sono sollevati divenendo i bellicosi Saraceni, e ora tentano di imporre la religione dell'Islam al mondo intero. E sono tanto gelosi delle loro rotte marittime quanto dell'attuale possesso della Terra Santa.» Maffeo disse: «I Saraceni sono disposti a commerciare con noi veneziani e con tutti gli altri cristiani dai quali possano ricavare guadagni. Ma, se mandassimo nostre flotte a commerciare in Oriente, li priveremmo di questi utili. Pertanto i corsari saraceni pattugliano continuamente i mari intermedi per accertarsi che non facciamo niente di simile.» Lisa parve compostamente scandalizzata, e domandò: «Sono nostri nemici, ma traffichiamo ugualmente con essi?» Isidoro alzò le spalle. «Gli affari sono affari.» «Persino i Papi» disse zio Maffeo «sono sempre stati desiderosi di stabilire rapporti commerciali con l'Oriente. Si possono guadagnare grandi fortune. Noi lo sappiamo bene: abbiamo veduto le ricchezze di quei paesi. Il nostro primo viaggio è stato una semplice esplorazione, ma questa volta porteremo con noi qualcosa da vendere. La Via della Seta è spaventosa, ma non impossibile. Abbiamo ormai attraversato due volte quelle regioni, andando e tornando. Possiamo tranquillamente ripetere l'impresa.» «Chiunque possa essere il nuovo Pontefice» disse mio padre «dovrebbe concederci la sua benedizione per questa impresa. Roma venne presa dal terrore quando parve che i Mongoli sarebbero dilagati in Europa. Ma sembra che i numerosi capi mongoli abbiano esteso i loro Khanati verso occidente sin dove intendevano giungere. Ciò significa che la maggior minaccia per la Cristianità è attualmente quella dei Saraceni. Roma dovrebbe gradire, pertanto, questa possibilità di un'alleanza con i Mongoli contro l'Islam. La nostra missione nell'interesse del Khan di tutti i Khan dovrebbe essere supremamente importante ai fini della Madre Chiesa, nonché per la prosperità di Venezia e dei suoi mercanti.» «E per la stirpe dei Polo» disse Fiordalisa. «Soprattutto per questo» approvò Maffeo. «Pertanto finiamola di cianciare, Nico, e partiamo. Vogliamo passare di nuovo per Costantinopoli e radunare là i nostri preti?» Mio padre rifletté, poi disse: «No. I sacerdoti, laggiù, conducono un'esistenza troppo comoda... si sono rammolliti tutti quanti come eunuchi. Il gatto con i guanti non acchiappa topi. Stavamo parlando, poco fa, dei Crociati. Tra le loro file vi sono molti cappellani, e si tratterà di certo di uomini incalliti, assuefatti agli stenti. Rechiamoci nella Terra Santa, a San Zuàne di Acri, ove si trovano accampati attualmente i crociati. Doro, v'è una nave in partenza per l'Oriente che possa condurci ad Acri?» L'impiegato si voltò per consultare i registri, ed io uscii dal magazzino, diretto da Doris, per dirle della mia nuova meta e per salutare lei e Venezia. Doveva trascorrere un quarto di secolo prima che rivedessi l'una e l'altra. Molte cose erano destinate a cambiare e a invecchiare in questo lasso di tempo, io non meno di ogni altro. Ma Venezia sarebbe rimasta pur sempre Venezia, e, strano a dirsi, anche Doris doveva rimanere, in qualche modo, la Doris dalla quale mi ero separato. Quanto ella aveva detto, che non intendeva più amare fino al mio ritorno... queste parole erano destinate a sembrare qualcosa di simile a un magico amuleto, capace di conservarla immutata nel corso degli anni. Infatti ella sarebbe stata ancora, dopo un così lungo
lasso di tempo, sempre la stessa Doris, tanto giovane, tanto graziosa e tanto vibrante da consentirmi di riconoscerla al primo sguardo e da far sì che mi innamorassi all'istante di lei. O così doveva sembrarmi. Ma questa storia la narrerò al momento opportuno.
IL LEVANTE.
1. All'ora del vespro di un giorno azzurro e dorato, partimmo dal bacino di Malamocco, al Lido, gli unici passeggeri paganti a bordo di una grande galeazza da carico, la "Doge Anafesto". La nave portava armi e rifornimenti ai Crociati; dopo avere scaricato noi e le mercanzie ad Acri, sarebbe proseguita per Alessandria per caricarvi grano da portare a Venezia. Quando la "Doge Anafesto" fu uscita dal bacino e venne a trovarsi al largo nell'Adriatico, i rematori ritirarono i remi, mentre i marinai sistemavano i due alberi nella scassa e spiegavano le aggraziate vele latine. Le vele si ondularono, schioccarono, poi si gonfiarono appieno nella brezza del pomeriggio, bianche e tondeggianti quanto le nuvole in alto. «Una giornata sublime!» esclamai. «Una nave superba!» Mio padre, che non era mai propenso a rapsodiare, rispose con uno dei suoi soliti adagi: «Non lodare il giorno finché non è discesa la notte; non lodare la locanda fino al risveglio dell'indomani.» Ma anche il giorno dopo, e nei giorni successivi, non poté negare che quella nave fosse comoda, per quanto concerneva gli alloggi, come una qualsiasi locanda sulla terraferma. Negli anni precedenti, un vascello diretto verso la Terra Santa sarebbe stato gremito di pellegrini cristiani provenienti da ogni paese dell'Europa, pellegrini che si accontentavano di dormire, pigiati come sardine in un barile, in coperta e nella stiva. Ma nel periodo del quale sto parlando, il porto di San Zuàne di Acri era ormai l'ultimo e unico luogo della Terra Santa non ancora invaso dai Saraceni, per cui tutti i cristiani, tranne i Crociati, preferivano restarsene a casa. Noi tre Polo avevamo una cabina tutta per noi, subito sotto l'alloggio del capitano, nel castello di prora. La cambusa della nave poteva usufruire di un recinto con bestiame vivo e pollame, per cui sia noi, sia i marinai, consumavano pasti di carne fresca, non salata. V'era pasta di tutti i tipi, nonché olio d'oliva e cipolle, e buon vino corso tenuto in fresco nella sabbia umida che la nave conteneva, come zavorra, sul fondo della stiva. Ci mancava soltanto il pane fresco, sostituito da dure gallette, nelle quali non è possibile affondare i denti, ma che devono essere succhiate; e questa era l'unica cosa della quale avremmo potuto lagnarci. A bordo si trovavano un medegòto, per curare ogni malattia e ogni ferita, e un capellano per confessare gli uomini e celebrare la Messa. La prima domenica egli predicò richiamandosi a un passo dell'Ecclesiaste: «L'uomo savio si recherà in paesi sconosciuti e metterà alla prova il bene e il male in tutte le cose.» «Parlami, ti prego dei paesi sconosciuti oltremare» dissi a mio padre dopo quella Messa, poiché lui ed io non avevamo davvero avuto molto tempo a Venezia per parlare tra noi. La sua risposta, tuttavia, fu più rivelatrice per quanto concerneva lui che per quanto concerneva i paesi invisibili al di là dell'orizzonte. «Ah, traboccano di grandi possibilità, per un mercante ambizioso!» egli disse con esultanza, stropicciandosi le mani. «Seta, gioielli, spezie... Anche il più ottuso dei trafficanti sogna, ovviamente, queste cose... ma per un uomo scaltro esistono molte altre possibilità. Sì, Marco. Anche accompagnandoci soltanto fino al Levante, potrai forse, tenendo gli occhi aperti e la mente sveglia, cominciare a farti una fortuna personale. Proprio così. Tutti quei paesi traboccano di grandi possibilità.» «Non vedo l'ora di visitarli» dissi doverosamente. «Ma avrei potuto imparare i segreti del commercio senza allontanarmi da Venezia. Stavo pensando, più che altro, be '... alle avventure...»
«Le avventure? Ma, ragazzo mio, potrebbe mai esistere un'avventura più soddisfacente della scoperta di possibilità commerciali non ancora intravviste da altri? E dello sfruttamento di tali possibilità? E dei profitti che ne ricaverai?» «Sì, certo, queste cose sono quanto mai soddisfacenti» dissi io, per non mortificare il suo entusiasmo. «Ma l'eccitazione? Le cose esotiche che si possono vedere e fare? Senza dubbio, nel corso di tutti i tuoi viaggi ve ne saranno state molte.» «Oh, sì. Le cose esotiche.» Si lisciò, con aria riflessiva, la barba. «Sì, mentre tornavamo a Venezia, attraversando la Cappadocia, ne vedemmo una. In quelle regioni cresce un papavero, molto simile al nostro comune papavero rosso dei campi, ma di colore blu-argenteo; e dalla linfa dei suoi baccelli si può ricavare un olio soporifico che è una potentissima medicina. Mi resi conto che sarebbe stato un'efficace aggiunta ai semplici farmaci impiegati dai nostri medici in Occidente, e previdi che la nostra Compagnia avrebbe potuto ricavarne ingenti utili. Cercai pertanto di procurarmi alcuni semi di quel papavero, con l'intenzione di seminarli tra i crochi delle nostre piantagioni nel Veneto. Be', questo è qualcosa di esotico, no xe vero? E per giunta si trattava di una grande occasione. Sfortunatamente, infuriava allora una guerra nella Cappadocia. I campi di papaveri erano stati completamente devastati e regnava un tale scompiglio tra la gente che non mi riuscì di trovare una sola persona in grado di procurarmi i semi. Gramo mi, un'ottima possibilità perduta.» Dissi, non senza un certo stupore: «Ti trovavi nel bel mezzo di una guerra e una sola cosa ti stava a cuore, i semi dei papaveri?» «Ah, la guerra è una tragedia terribile. E' lo sfacelo totale del commercio.» «Ma, padre, non vedesti in essa alcuna possibilità di avventure?» «Continui a parlare di avventure» disse lui, in tono aspro. «Le avventure sono soltanto disagi e fastidi rievocati nella sicurezza delle reminiscenze. Credi a me, il viaggiatore esperto si attiene a piani precisi e si guarda bene dall'avere avventure del genere. Il viaggio più riuscito è un viaggio tedioso.» «Oh» dissi io. «Mi aspettavo invece... be', pericoli superati... cose segrete scoperte... nemici sopraffatti... fanciulle tratte in salvo...» «Ecco che parla il bravo!» tuonò zio Maffeo, unendosi a noi in quel momento. «Spero che tu riesca una buona volta a togliergli dalla testa simili idee, Nico.» «Ci sto provando» rispose mio padre. «Le avventure, Marco, non hanno mai fatto entrare un solo bagatìn nella borsa di nessuno.» «Ma la borsa è la sola cosa che un uomo debba riempire?» gridai. «Non dovremmo cercare qualcos'altro nella vita? E la nostra sete di portenti e di meraviglie?» «Nessuno ha mai trovato meraviglie cercandole» grugnì mio zio. «Sono come il vero amore, o la felicità - in effetti portenti di per sé. Non puoi dire 'Ora parto e avrò un'avventura'. La cosa migliore che tu possa fare consiste nello stabilirti in un luogo ove potrebbe toccarti qualche avventura.» «Be', allora» esclamai «siamo diretti a Acri, la città dei Crociati, leggendari per le loro audaci imprese, per i tenebrosi segreti, per le donzelle dalla pelle di seta e per una esistenza voluttuosa. Quale luogo migliore potrebbe esistere?» «I Crociati!» sbuffò zio Maffeo. «Favole, e niente altro. I Crociati sopravvissuti e tornati in patria dovettero fingere con se stessi che le loro futili imprese fossero state degne e straordinarie. E così vantarono le meraviglie che avevano veduto, le meraviglie di quei lontani paesi. Ma le sole cose che riportarono in patria, o quasi, furono scoli tanto dolorosi che solamente a stento riuscivano a stare in sella.» Dissi, malinconico: «Allora Acri non è una città di meraviglie e di tentazioni, di mistero e lussuria e...?» Mio padre rispose: «Crociati e Saraceni hanno combattuto, a causa di San Zuàne d'Acri, per più di un secolo e mezzo. Immagina tu stesso come dev'essere. Ma no, non è necessario. La vedrai abbastanza presto.» E così li lasciai, sentendomi alquanto deluso, dopo le mie aspettative, ma non del tutto demolito. Entro di me stavo pervenendo alla conclusione che mio padre aveva l'anima di un contabile, mentre
mio zio era troppo rude e grossolano per poter albergare sentimenti migliori. Entrambi non sarebbero riusciti a riconoscere un'avventura nemmeno se fosse piombata loro addosso. Ma io l'avrei riconosciuta e come. Andai a mettermi sul ponte di prora, per non lasciarmi sfuggire eventuali sirene o mostri marini che fossero potuti passare vicino alla nave. Un viaggio per mare, dopo il primo giorno entusiasmante, o giù di lì, si tramuta in mera monotonia - a meno che una tempesta non lo ravvivi con il terrore, ma il Mediterraneo è tempestoso soltanto durante l'inverno. Per conseguenza, ingannai il tempo imparando tutto quel che potevo delle manovre di una nave. Non essendovi tempo cattivo, gli uomini dell'equipaggio dovevano svolgere soltanto il solito lavoro e pertanto tutti, dal capitano al cuoco, mi consentivano volentieri di stare a guardare, di porre domande, e persino, a volte di dar loro una mano. Gli uomini erano di molte nazionalità, ma parlavano tutti il francese dei mercanti - che chiamavano sabir - per cui potevamo conversare. «Sai almeno qualcosa in fatto di navigazione, ragazzo?» mi domandò uno dei marinai. «Sai, per esempio, quali sono le opere vive di una nave e quali le opere morte?» Riflettei un momento, poi alzai gli occhi verso le vele, tese a entrambi i lati della nave come le ali di un uccello vivente, e supposi che dovessero essere quelle le opere vive. «Sbagliato» disse il marinaio. «Le opere vive sono tutte quelle parti di una nave che si trovano sott'acqua. Le opere morte sono tutto ciò che si trova sopra l'acqua.» Riflettei di nuovo e obiettai: «Ma se le opere morte dovessero finire sott'acqua, difficilmente si potrebbe chiamarle vive. Moriremmo tutti quanti.» Il marinaio si affrettò a dire: «Non parlare di queste cose!» e si fece il segno della croce. Un altro degli uomini disse: «Se vuoi diventare un navigatore, ragazzo, devi imparare i diciassette nomi dei diciassette venti che soffiano sul Mediterraneo.» E cominciò a enumerarli sulle dita. «In questo momento stiamo navigando sospinti dall'etesia, che viene da nord-ovest. Durante l'inverno, l'ostralada imperversa fieramente dal sud e causa le tempeste. La gregalada è il vento che soffia dalla Grecia e rende il mare turbolento. Da ovest viene il maistràl. Il levante soffia da est, dall'Armenia...» Un altro marinaio lo interruppe. «Quando soffia il levante puoi sentire l'odore dei Ciclopodi.» «Sono isolotti?» domandai. «No, sono strani esseri che vivono nell'Armenia. Ognuno di loro ha un solo braccio e una sola gamba. Ci vogliono due di loro per servirsi dell'arco e della freccia. Siccome non possono camminare normalmente, saltellano su un piede solo. Ma, se hanno fretta, corrono girando su se stessi e appoggiandosi ora alla mano ora al piede. Per questo vengono chiamati Ciclopodi, i piediruota.» Oltre a parlarmi di molte altre meraviglie, i marinai mi insegnarono il giuoco d'azzardo chiamato venturina; era stato inventato da altri marinai nel corso di lunghe e tediose traversate. Questi interminabili viaggi per mare devono essere assai frequenti poiché la venturina è un giuoco lungo e noioso all'estremo, e nessun giocatore può vincere o perdere più di qualche soldo. Quando, in seguito, domandai a mio zio se nel corso dei suoi viaggi si fosse mai imbattuto in curiosità come gli Armeni piedi-ruota, egli rise e si burlò di me. «Bah! Nessun marinaio si spinge mai più in là, nei porti stranieri, della più vicina bettola o del più vicino bordello. Per cui quando gli domandano che cosa ha veduto nei paesi lontani deve inventare qualcosa. Soltanto un marcolfo disposto a credere alle donne può credere a un marinaio!» E così, da allora in poi, ascoltai soltanto con un orecchio, e con divertita indulgenza, quando i marinai parlavano di meraviglie sulla terraferma; ma continuai a prestare loro tutta la mia attenzione quando parlavano di cose concernenti il mare e la navigazione. Imparai i nomi particolari che attribuivano a cose comuni - il piccolo uccello color della fuliggine denominato a Venezia uccello della tempesta, viene chiamato in mare petrelo, «piccolo Pietro», in quanto, al pari del Santo, sembra camminare sull'acqua - e imparai i versi ripetuti dai marinai quando parlano del tempo: "Sera rosa e bianco matino:
Alegro il pelegrino". Imparai inoltre a calare lo scandaglio, con i piccoli nastri rossi e bianchi disposti a intervalli regolari per tutta la sua lunghezza, allo scopo di misurare la profondità dell'acqua sotto la chiglia. E imparai altresì come si parlava con altre navi che incrociavamo - la cosa mi venne consentita due o tre volte, in quanto erano numerosi i velieri in navigazione nel Mediterraneo - urlando in sabir, con uno strumento a forma di tromba per ampliare la voce: «Buon viaggio! Che nave siete?» E la risposta giungeva cavernosamente: «Buon viaggio! La "Saint Sang", salpata da Bruges e di ritorno in patria da Famagosta! E voi, che nave siete voi?» «L'"Anafesto", di Venezia, diretta ad Acri e ad Alessandria. Buona traversata!» Il timoniere della nave mi mostrò come, mediante una ingegnosa disposizione di corde, riuscisse con una sola mano a governare entrambi gli immensi remi direzionali, situati ai due lati della nave, a poppa. «Ma con il cattivo tempo» disse «occorre un uomo per ciascuno di essi, ed entrambi devono essere maestri in fatto di destrezza, per manovrarli separatamente, eppure di concerto, eseguendo gli ordini del capitano. L'uomo che segnava il ritmo dei colpi di remo sulla nave mi consentì di esercitarmi a battere i suoi mazzuoli quando nessuno dei rematori si trovava ai remi. Come accadeva quasi sempre. Il vento etesia soffiava così costantemente, che i remi non erano quasi mai necessari per aiutare a muovere la nave, per cui, durante quella traversata, i rematori lavorarono duramente soltanto per condurci fuori del bacino Malamocco e nel porto di Acri. In quei momenti andarono ai loro posti nel modo denominato "sensile" - vale a dire tre uomini su ognuno dei venti banchi disposti lungo ciascun lato della nave. Ogni rematore manovrava un remo che era imperniato sulle scalmiere della nave, per cui i remi più corti remavano vicino allo scafo, quelli più lunghi lontano da esso e quelli medi nel mezzo. E gli uomini non stavano seduti, come fanno ad esempio i rematori del bucintoro del Doge. Rimanevano in piedi, ognuno con il piede sinistro appoggiato al banco di fronte mentre portavano il remo in avanti. Poi si reclinavano tutti supini sui banchi esercitando la loro possente spinta e facendo avanzare la nave con una sorta di balzi veloci. Tutto ciò avveniva al ritmo segnato dai mazzuoli, un ritmo che iniziava adagio, ma diveniva più rapido man mano che la nave acquistava velocità, e i due mazzuoli causavano suoni diversi affinché i rematori da un lato sapessero quando dovevano fare più forza degli altri sui remi. A me non venne mai consentito di remare, in quanto questo lavoro richiede una tale abilità che i principianti vengono prima fatti esercitare su finte galere, a terra. Poiché la parola galeotto viene pronunciata così spesso a Venezia con il significato di detenuto, io avevo sempre supposto che le galere, le galeazze e le galeotte avessero ai remi criminali imprigionati e condannati a quella dura fatica. Ma l'uomo che segnava il ritmo dei colpi di remo mi fece rilevare come le navi mercantili gareggiassero in fatto di velocità ed efficienza per assicurarsi i carichi, per cui difficilmente avrebbero potuto dipendere da uomini riluttanti, costretti a quel lavoro. «Pertanto le navi da carico assumono soltanto rematori professionisti ed esperti» disse. «E i vascelli da guerra hanno ai remi cittadini che preferiscono sobbarcarsi a tale monotona fatica per assolvere i loro obblighi militari, invece di impugnare la spada.» Il cuciniere della nave mi spiegò perché non cuoceva il pane. «Non ho farina nella cambusa» disse. «E' impossibile impedire che la farina finemente macinata si guasti in mare. O genera punteruoli, oppure si impregna di umidità. Ecco perché i romani per primi pensarono di lavorare la pasta tuttora consumata da noi - perché è quasi non deperibile. Si dice infatti che fu il cambusiere di una nave romana a inventarla, volente o nolente, quando la provvista di farina che aveva a bordo venne inzuppata da un'ondata. Lavorò l'intruglio impastandolo, per salvarlo; ne ricavò delle sfoglie e tagliò queste ultime a strisce affinché si asciugassero e indurissero più rapidamente. Da quell'inizio sono derivati tutti i tipi e tutte le forme di vermicelli e di maccheroni. Un dono di Dio per noi che cuciniamo sulle navi, ma anche sulla terraferma.»
Il capitano della nave mi mostrò che l'ago della bussola puntava sempre verso la Stella Polare, anche quando essa rimaneva invisibile. La bussola, a quei tempi, stava appena cominciando ad essere considerata uno strumento necessario, nei viaggi per mare, quasi quanto la medaglia di San Cristoforo; ma per me essa rappresentava una novità. Così come il portolano, mostratomi anch'esso dal capitano: un fascio di carte sulle quali erano disegnate le accidentate linee costiere del Mediterraneo intero, dal Levante alle Colonne d'Ercole, e tutti i suoi mari sussidiari: l'Adriatico, l'Egeo e via dicendo. Lungo quelle linee costiere, tracciate con l'inchiostro, il capitano - e altri capitani di sua conoscenza - avevano segnato le caratteristiche della costa visibili dal mare: fari, promontori, rocce scoscese e altri particolari di questo genere che potevano aiutare un marinaio a stabilire dove si trovasse. Quanto ai mari, il capitano aveva scribacchiato sulle carte annotazioni concernenti le loro varie profondità e correnti, nonché le scogliere invisibili. Mi disse che continuava a modificare quelle annotazioni, a seconda di quanto accertava egli stesso, o veniva a sapere da altri capitani, a proposito dei cambiamenti delle profondità causati dai depositi di sabbia, come accade spesso al largo dell'Egitto, o dalle eruzioni di vulcani sottomarini, come capita altrettanto spesso intorno alla Grecia. Quando parlai a mio padre del portolano, egli sorrise e disse: «E' sempre meglio che niente. Ma noi abbiamo qualcosa che è di gran lunga migliore del portolano.» E andò a prendere nella nostra cabina un fascio di carte ancor più voluminoso. «Abbiamo il kitab.» Zio Maffeo disse, in tono orgoglioso: «Se il capitano possedesse il kitab, e se la sua nave potesse navigare sulla terraferma, egli riuscirebbe ad attraversare l'Asia fino all'oceano orientale del Catai.» «Ho fatto fare questo con una spesa ingente» disse mio padre, consegnandomi il fascio di fogli. «E' stato copiato per noi dall'originale, che fu disegnato dal cartografo arabo Al-Idrisi per Re Ruggero della Sicilia.» Kitab, come scoprii in seguito, significa, nella lingua araba, semplicemente «un libro», ma d'altro canto questo è altresì il significato della nostra parola Bibbia. E il kitab di Al-Idrisi, come la Santa Bibbia, è molto di più di un semplice libro. Sulla prima pagina figurava il titolo completo, che fui in grado di leggere in quanto era scritto in francese: "I vagabondaggi di un uomo curioso per esplorare le regioni del globo, le sue provincie, isole, città, nonché le loro dimensioni e la loro posizione: per l'istruzione e l'ausilio di colui che voglia attraversare la Terra". Ma tutte le tante altre parole su quei fogli erano tracciate nell'esecrabile scrittura degli infedeli paesi arabi. Soltanto qua e là mio padre o mio zio avevano segnato a penna la traduzione leggibile di questo o quel nome di località. Sfogliando le pagine per poter leggere tali parole, mi resi conto di una cosa e scoppiai a ridere. «Ogni carta è capovolta. Guardate, il piede della penisola italiana sta scalciando la Sicilia all'"insù" verso l'Africa.» «In Oriente, tutto è capovolto o va all'indietro o al contrario» disse mio zio. «Le carte geografiche arabe sono disegnate tutte con il sud in alto. La popolazione del Catai chiama la bussola l'ago-cheindica-il-"sud". Ti abituerai a queste costumanze.» «A parte tale singolarità» osservò mio padre «Al-Idrisi è stato di una precisione stupefacente nel disegnare le terre del Levante e oltre, fino all'Asia di Mezzo. Presumibilmente viaggiò un tempo egli stesso in quelle regioni.» Il kitab comprendeva settantatré singoli fogli che, collocati l'uno accanto all'altro (e capovolti) mostravano l'intera distesa del mondo, da ovest a est, e buona parte del nord e del sud, il tutto diviso da paralleli curvi, a seconda delle zone climatiche. Le salse acque del mare vi erano colorate in blu, con frastagliate linee bianche per rappresentare le onde; i laghi interni erano verdi, con onde bianche; i fiumi figuravano come tortuosi nastri verdi. Le regioni della terraferma erano colorate in un giallo opaco, con puntini di foglia d'oro, applicati per rappresentare le città e le cittadine. Ovunque il terreno si sollevava, formando colline e montagne, queste ultime venivano rappresentate da forme alquanto simili a bruchi, dai colori viola, rosa e arancione. Domandai: «Le regioni montuose dell'Oriente hanno davvero colori così vividi? Vette viola e...?» Come in risposta, la vedetta gridò dalla coffa, alla sommità dell'albero più alto della nave: «Terra! Terre là!»
«Puoi guardare e vedere tu stesso, Marco» mio padre si rivolse a me. «La costa è ben in vista. Ecco la Terra Santa.»
2. Naturalmente, scoprii in seguito che i colori delle carte di Al-Idrisi servivano a indicare i rilievi, con il viola che rappresentava le montagne più alte, il rosa per quelle di altezza modesta, l'arancione per le più basse e il giallo per i territori pianeggianti; ma nei dintorni di Acri non esisteva nulla che potesse aiutarmi a scoprirlo, quella regione della Terra Santa essendo una distesa quasi incolore di basse dune di sabbia e di ancor più basse distese sabbiose. Il poco colore che si scorgeva era un grigio-giallo sporco, senza che vi crescesse una sola parvenza di verde, e anche la città sembrava avere un colore grigio-brunastro sporco. I rematori spinsero L'"Anafesto" intorno alla base di un faro e nel piccolo porto. Era invaso da ogni sorta di rifiuti che galleggiavano sull'acqua melmosa e oleosa, puzzolente di pesce, di viscere di pesce e di pesce marcio. Al di là dei moli si trovavano edifici che sembravano essere fatti di fango secco - erano tutti locande e ostelli, ci disse il capitano, in quanto ad Acri non esisteva nulla che potesse essere definito una residenza privata - e, qua e là tra quei bassi tuguri, si levavano i più alti profili di chiese, di monasteri, di un ospedale e del castello della città. Più avanti nell'entroterra, al di là del castello, si vedeva un alto muro di pietra che correva a semicerchio dal porto all'altro lato della città e dal quale sporgeva una dozzina di torri. A me parve la mascella di un teschio con alcuni denti intervallati. All'altro lato di quel muro, disse il capitano, si trovava l'accampamento dei Crociati, e, più in là ancora, un altro e più robusto muro che isolava il promontorio di Acri dall'entroterra, ove dominavano i Saraceni. «Questo è l'ultimo lembo Cristiano nella Terra Santa» disse il sacerdote della nave, malinconicamente. «E cadrà anch'esso, non appena gli infedeli decideranno di invaderlo. L'ottava Crociata è stata talmente inutile, che i cristiani di tutta Europa hanno perduto il loro entusiasmo per queste imprese. I cavalieri giungono in sempre e sempre minor numero. Avrete notato che non ne avevamo a bordo alcuno in questa traversata. Di conseguenza le forze che difendono Acri sono troppo esigue per poter osare qualcosa di più di un'occasionale schermaglia fuori delle mura.» «Ah!» fece il capitano. «Soltanto di rado, ormai, i cavalieri si danno la pena di tentare anche una piccola schermaglia. Appartengono tutti a ordini diversi - i Templari, gli Ospedalieri e chi più ne ha più ne metta - per cui preferiscono di gran lunga battersi tra loro... quando non se la spassano in modo scandaloso con le Carmelitane e le Clarisse.» Il cappellano trasalì, senza alcun motivo, secondo me, e disse, con petulanza: «Signore, abbiate almeno un po' di considerazione per la mia veste.» Il capitano alzò le spalle. «Deploratelo finché volete, Padre, ma non potete smentirlo.» Si rivolse poi a mio padre. «Non solo regna il disordine tra le truppe, ma la stessa popolazione civile - quel che ne rimane - consiste esclusivamente di fornitori e servitori dei cavalieri. Gli Arabi di Acri sono troppo venali per essere nemici di noi Cristiani, ma si trovano continuamente ai ferri corti con gli Ebrei della cittadina. Il resto della popolazione è un'accozzaglia sempre mutevole di pisani, genovesi e di vostri compatrioti veneziani - tutti rivali e tutti litigiosi. Se volete fare in pace i vostri affari, qui, vi consiglio di recarvi subito nel quartiere Veneto, non appena sbarcherete, di alloggiare là e di fare in modo da non lasciarvi in nessun caso coinvolgere nelle discordie locali.» Così noi tre togliemmo la nostra roba dalla cabina e ci accingemmo a sbarcare. Il molo era gremito da uomini laceri e sudici che si pigiavano intorno al barcarizzo della nave e agitavano le braccia e si urtavano a vicenda, vantando i loro servigi nel francese dei mercanti e in innumerevoli altre lingue: «Portare io vostri bagagli, Monsieur! Signor mercante! Messere! Mirza! Sheikhkhaja!...» «Accompagnare io voi all'auberge, Messere! Locanda! Karwansarai! Khane!...» «Trovare io cavalli per voi! Asini! Cammelli! Facchini!...» «Una guida che parlare sabir! Una guida che parlare farsi!...»
«Una donna! Una donna bella e grassa! Una suora! Mia sorella! Il mio piccolo fratello!...» Zio Maffeo chiese soltanto facchini e scelse quattro o cinque degli uomini meno equivoci. Gli altri se ne andarono, agitando i pugni e urlando imprecazioni: «Possa Allah guardarvi di traverso!» «Possiate soffocare mangiando carne di porco!» «... mangiando lo zab del vostro amante!» «... le parti intime di vostra madre!» I marinai scaricarono quella parte del carico che apparteneva a noi, e i facchini appena assunti si misero i fardelli sulla schiena o sulle spalle o in precario equilibrio sulla testa. Lo zio Maffeo ordinò loro, dapprima in francese, poi in farsi, di condurci in quella parte della città riservata ai veneziani, nonché nella locanda migliore che vi esistesse, e ci incamminammo tutti lungo il molo. Non ero molto colpito da Acri - o Akko, come la chiamano i suoi abitanti indigeni. La città non sembrava essere più pulita del porto, essendo formata per la massima parte da squallide casupole tra le quali le vie più ampie non erano più larghe dei più angusti vicoli di Venezia. Nei punti più spaziosi, la città puzzava di orina stantia. E, là ove la rinchiudevano le mura, il fetore risultava ancora più intenso, le viuzze essendo scarichi di escrementi e di rifiuti, nei quali cani scheletrici contendevano il cibo a topi mostruosi, che scorrazzavano anche in pieno giorno. Ancor più opprimente del fetore era il frastuono di Acri. In ogni viuzza larga abbastanza per distendervi un tappetino si trovavano venditori accosciati spalla contro spalla dietro a mucchietti di mercanzie senza alcun valore - sciarpe e nastri, arance raggrinzite, fichi troppo maturi, conchiglie e fronde di palma - e ognuno di loro sbraitava per farsi udire al di sopra degli urli altrui. Mendicanti, senza le gambe o ciechi o lebbrosi, gemevano e piagnucolavano e cercavano di afferrarci per le maniche mentre stavamo passando. Asini, cavalli e cammelli dal mantello rognoso - i primi cammelli che vedessi in vita mia - ci urtavano scostandoci, mentre si aprivano un varco tra i rifiuti degli stretti vicoli. Avevano tutti un'aria affranta e infelice sotto i pesanti carichi, ma li spronavano le bastonate e le bestemmie dei loro conducenti. Gruppi di uomini di ogni nazionalità conversavano in piedi con tutto il fiato che avevano nei polmoni. Presumo che i loro discorsi concernessero il commercio, o la guerra, o anche semplicemente il tempo, eppure quelle loro chiacchiere erano talmente clamorose da poter essere scambiate per furibondi litigi. Dissi a mio padre, quando venimmo a trovarci in una viuzza larga abbastanza per poter camminare affiancati: «Se non sbaglio, dicesti che avreste portato mercanzie in questo viaggio. Non ho veduto caricare alcuna merce a bordo dell'"Anafesto" a Venezia, e non ne vedo adesso. Si trova ancora sulla nave?» Egli scosse la testa. «Portare con noi merci per un'intera carovana avrebbe significato tentare gli innumerevoli banditi e ladri esistenti tra noi e la nostra meta.» Mi mostrò l'unico piccolo involto che stava reggendo in quel momento, avendo rifiutato di affidarlo a uno qualsiasi dei facchini: «Portiamo invece con noi qualcosa di leggero e di poco appariscente, che ha però un grande valore commerciale.» «Zafràn!» esclamai. «Proprio così. In parte in piccole forme pressate, in parte sciolto. E inoltre un buon numero di bulbi.» Risi. «Senza dubbio non vorrai sostare per piantarli e aspettare per un anno intero il raccolto.» «Sì, qualora le circostanze lo richiedessero. Si deve cercare di essere preparati a tutte le evenienze, ragazzo mio. Chi si aiuta, Dio lo aiuta. E anche altri viaggiatori si sono regolati in questo modo: la marcia dei 'tre fagioli''.» «Cosa?» Zio Maffeo intervenne. «Il famoso e temuto Gengis Khan, nonno del nostro Qubilai, conquistò quasi tutto il mondo proprio con questo lento sistema di marcia. Gli eserciti dei suoi guerrieri, con tutte le famiglie al seguito, dovettero attraversare l'intera, sconfinata distesa dell'Asia, ed erano di gran lunga troppo numerosi per poter vivere con le risorse dei vari paesi, sia saccheggiando, sia mendicando. No, portarono con loro semi da seminare e animali che potevano essere allevati. E
ogni volta che, marciando, avevano esaurito tutte le loro provviste, o non potevano essere raggiunti dalle colonne che trasportavano rifornimenti, non facevano altro che fermarsi e organizzarsi. Seminavano grano e fagioli, allevavano cavalli e bestiame e aspettavano il momento delle messi e delle figliate. Poi, di nuovo ben nutriti e disponendo di provviste, ripartivano verso la meta successiva.» Osservai: «Ho sentito dire che divoravano uno su dieci dei loro stessi uomini.» «Assurdo!» esclamò mio zio. «Quale comandante decimerebbe i suoi stessi combattenti? Tanto sarebbe valso ordinare loro di ingoiare le spade e le lance. Quelle armi sarebbero state altrettanto edibili. Dubito che anche i denti di un mongolo siano capaci di masticare un altro guerriero mongolo. No, si fermavano, coltivavano la terra, mietevano, ripartivano e poi tornavano a fermarsi.» Mio padre disse: «La chiamavano la marcia dei tre fagioli. E quel modo di marciare ispirò uno dei loro gridi di guerra. Ogni qual volta i Mongoli entravano combattendo in una città nemica, Gengis urlava: 'Il fieno è falciato! Foraggiate i cavalli!' E questo era, per l'orda, il segnale di sfrenarsi, di saccheggiare e stuprare e devastare e massacrare. In questo modo distrussero Tashkent e Bukhara e Kiev e molte altre grandi città. Si dice che quando i Mongoli presero Herat, nell'India, massacrarono tutti gli abitanti, dal primo all'ultimo, quasi "due milioni" di persone. Dieci volte la popolazione di Venezia! Naturalmente, una simile falcidia, tenuto conto del gran numero di Indiani, è quasi insignificante.» «La marcia dei tre fagioli sembra abbastanza efficace» ammisi «ma è intollerabilmente lenta.» «Chi la dura la vince» disse mio padre. «Quella lenta marcia portò i Mongoli fino ai confini della Polonia e della Romania.» «E sin qui» soggiunse zio Maffeo. Stavamo incrociando, proprio in quel momento, due uomini bruni di pelle, con abiti che sembravano fatti di cuoio, e troppo pesanti e caldi per quel clima. Ad essi lo zio Maffeo disse: «Sain bina». Parvero entrambi lievemente stupiti, ma uno dei due rispose: «Mendu, sain bina!» «Che lingua era mai quella?» domandai. «La lingua mongola» rispose mio zio. «Quei due sono Mongoli.» Lo fissai, poi mi voltai per fissare gli uomini. Anch'essi proseguivano con la testa voltata, osservandoci stupiti. Le viuzze di Acri brulicavano di un così gran numero di individui dai lineamenti, dal colore della pelle e dagli abiti esotici, che non riuscivo ancora a distinguere un tipo di straniero dall'altro. Ma quelli erano Mongoli? L'orda, l'orco spaventoso, lo spauracchio, il terrore della mia fanciullezza? La rovina della Cristianità e una minaccia per l'intera civiltà occidentale? Figurarsi, quei due sarebbero potuti essere mercanti di Venezia che avessero scambiato un bonzorno con noi durante il passeggio sulla Riva Ca' de Dio. Naturalmente, non avevano l'"aspetto" di mercanti veneziani; i loro occhi sembravano tagli su facce simili a cuoio ben conciato... «Quelli sono Mongoli?» dissi, pensando alle innumerevoli miglia che dovevano avere percorso e ai milioni di cadaveri che dovevano aver calpestato per giungere nella Terra Santa. «Che cosa ci stanno facendo, qui?» «Non ne ho idea» rispose mio padre. «Ma credo che a suo tempo lo sapremo.» «Qui ad Acri» disse zio Maffeo «come a Costantinopoli, sembra che vi siano almeno alcuni rappresentanti di ogni nazionalità esistente sulla terra. Ecco che laggiù sta passando un negro, un nubiano o un etiope. E quella donna è senza dubbio armena: ognuno dei suoi seni è grande esattamente quanto la testa. L'uomo che l'accompagna è persiano, direi. Quanto agli Ebrei e agli Arabi, non riesco mai a distinguerli, se non per il modo di vestire. Quel tizio laggiù ha sul capo un turbante bianco, che l'Islam vieta agli Ebrei e ai Cristiani, pertanto dev'essere un musulmano...» Le sue riflessioni vennero interrotte perché fummo quasi travolti da un cavallo cavalcato a un trotto noncurante lungo le labirintiche viuzze. La stella a otto punte sulla cotta dell'uomo che lo cavalcava consentiva di riconoscere in lui un Cavaliere dell'Ordine Ospedaliero di San Zuàne di Gerusalemme. L'uomo passò con un tintinnio della cotta di maglia e con scricchiolii di cuoio, ma
senza scusarsi in alcun modo per la sua villania e senza sia pur soltanto un cenno di saluto a noi, suoi fratelli cristiani. Giungemmo dinanzi al gruppo di casupole destinate ai veneziani e i facchini ci condussero in una delle numerose locande. Il proprietario si fece incontro a noi sull'ingresso e lui e mio padre si scambiarono alcuni profondi inchini nonché fiorite formule di saluto. L'uomo, pur essendo arabo, parlava bene il veneziano: «La pace sia con voi, miei signori.» Mio padre rispose: «E sia anche con te, la pace.» «Possa Allah darvi forza.» «Forti siamo divenuti.» «Benedetto è il giorno che vi conduce alla mia porta, signori. Ma Allah vi ha guidato in modo che sceglieste bene. La mia khane ha letti puliti e un hammam per rinvigorirvi, e il cibo migliore qui ad Akko. In questo stesso momento un agnello viene farcito con pistacchi per il pasto serale. Ho l'onore di essere il vostro servo e il mio miserabile nome è Ishaq, possiate voi pronunciarlo senza troppo disprezzo.» Ci presentammo e a ognuno di noi, in seguito, sia il proprietario della locanda sia i servi si rivolsero con le parole Sceicco Folo, perché gli Arabi non hanno la «p» nella loro lingua, e trovano difficile pronunciarne il suono. Mentre stavamo ordinando le nostre cose nella stanza assegnataci, domandai a mio padre e a mio zio: «Perché un saraceno è così ospitale con noi, i suoi nemici?» Fu lo zio Maffeo a rispondere: «Non tutti gli Arabi sono impegnati in questa jihad - il nome che essi attribuiscono a una guerra santa contro la Cristianità. Quelli di Acri ne stanno ricavando troppi guadagni per potersi schierare con una delle parti, sia pure con i loro confratelli Musulmani.» «Vi sono Arabi buoni e Arabi perfidi» disse mio padre. «Quelli che stanno combattendo adesso per scacciare tutti i Cristiani dalla Terra Santa - anzi dall'intero Mediterraneo orientale - sono in realtà i Mamlucchi d'Egitto e si tratta di Arabi davvero perfidi.» Dopo aver tirato fuori quanto ci occorreva per il soggiorno ad Acri, ci recammo nell'hammam della locanda. E l'hammam, io credo, deve essere annoverato tra le altre grandi invenzioni arabe: le cifre e l'abaco per contare. Essenzialmente, l'hammam non è che una stanza piena di vapore, prodotto spargendo acqua su pietre incandescenti. Ma, dopo che eravamo rimasti seduti per qualche tempo sulle panche in quella stanza, sudando copiosamente, sei servi entrarono e dissero: «Salute e delizia vengano a voi, signori, da questo bagno!» e ci invitarono a distenderci a pancia in giù sulle panche. Dopodiché, due per ciascuno di noi, con le mani infilate in guanti di ruvida canapa, ci massaggiarono dappertutto, energicamente e per lungo tempo. Mentre massaggiavano, la salsedine e la sporcizia accumulatesi durante il viaggio vennero raschiate via dalla nostra pelle a lunghi rotolini grigiastri. Avremmo potuto ritenere ciò una pulizia sufficiente, ma essi continuarono a massaggiare e altra sporcizia uscì dai nostri pori, simile a sottili vermi grigi. Quando non trasudammo altro grigiore e avemmo la pelle arrossata dal vapore e dai massaggi, gli uomini proposero di depilarci. Mio padre oppose un rifiuto e altrettanto feci io. Quel giorno mi ero già sbarbato, eliminando la mia rada peluria, e volevo conservare gli altri peli che possedevo. Lo zio Maffeo, invece, dopo aver riflettuto per un momento, disse ai servi di togliergli i peli dell'inguine, ma di non toccargli quelli della barba e quelli sul petto. Così due degli uomini, i più giovani e i più avvenenti, si affrettarono a darsi da fare. Gli spalmarono sull'inguine un unguento color grigiobrunastro, e il folto groviglio di peli che lo rivestiva cominciò a scomparire come fumo. Quasi immediatamente egli fu glabro, in quel punto, come lo era la piccola Doris Tagiabue. «Questo unguento è magico» disse lui, ammirato, guardandosi. «In verità lo è, Sceicco Folo» disse uno dei giovani, sorridendo fino alla lascivia. «L'eliminazione dei peli rende il tuo zab più visibile, cospicuo e bello come una lancia. Una vera torcia, tale da guidare a te, nella notte, chi ti ama. E' un peccato che lo Sceicco non sia circonciso, facendo sì che la vivida prugna del suo zab possa essere più prontamente osservata e ammirata, e...» «Finiscila! E dimmi, può essere acquistato questo unguento?» «Certamente. Non devi fare altro che ordinarmelo, Sceicco, ed io correrò dal farmacista a prendere un vaso colmo di mumum, o molti altri vasi.»
Mio padre disse: «Ti sembra una merce vendibile, Maffeo? Ma a Venezia non sarebbe molto richiesto. Ogni veneziano apprezza anche la più tenue peluria, sulla pesca.» «Sì, ma noi stiamo andando all'est, Nico. Rammenta, molti di questi popoli orientali considerano i peli del corpo una deturpazione per entrambi i sessi. Se questo mumum non è, qui, troppo costoso, potremmo ricavarne utili considerevoli.» Poi disse al suo massaggiatore: «Ti prego, smettila di accarezzarmi, ragazzo, e continua a occuparti del bagno.» Così i giovani ci lavarono dappertutto, servendosi di un sapone cremoso, ci lavarono anche i capelli e la barba con fragrante acqua di rose e ci asciugarono con grandi salviette morbide e profumate di muschio. Quando ci fummo rivestiti, servirono bevande fresche, di succo di limone zuccherato, per reintegrare i nostri umidori interni fino ad allora prosciugati da tutta quella calura. Uscii dall'hammam sentendomi più pulito di quanto mi fossi mai sentito prima di allora, e fui grato agli Arabi per aver inventato quella comodità. In seguito me ne avvalsi frequentemente, lì nella locanda e altrove, e se di qualcosa mi lagnai, fu per il fatto che tanti degli stessi Arabi preferivano il sudiciume e il fetore alla pulizia conseguibile nell'hammam. Il proprietario della locanda, Ishaq, aveva detto il vero sostenendo che il vitto era buono, anche se, naturalmente, pagavamo quanto bastava perché egli potesse nutrirci con ambrosia e nettare e ricavarne ugualmente un utile. Il pasto di quella prima sera consistette nell'agnello farcito con pistacchi, nonché in riso e in un piatto di cetrioli affettati e conditi con succo di limone; in seguito, ci venne servita polpa di melagrane zuccherata, mescolata con mandorle tritate e delicatamente profumate. Tutto era delizioso ma io venni particolarmente conquistato dalla bevanda che accompagnò il pasto. Ishaq mi disse che si trattava di un infuso di bacche mature in acqua calda, chiamato qahvah. Questa parola araba significa «vino», ma il qahvah non è vino, in quanto la religione araba lo vieta. Soltanto per il colore il qahvah somiglia al vino, essendo di un granatobruno scuro, alquanto simile a quello del Barolo piemontese; ma non ha il sapore forte del Barolo né il gusto di violette che esso lascia in seguito nella bocca. E non è nemmeno dolce o aspro come certi altri vini. Né inebria come il vino, o causa emicranie il giorno dopo. Tuttavia rallieta il cuore, ravviva i sensi e - così disse Ishaq - alcuni bicchieri di qahvah consentono al viaggiatore e al guerriero di camminare e di battersi instancabilmente per ore e ore di seguito. Il pasto venne servito su una tovaglia intorno alla quale ci mettemmo a sedere sul pavimento, e venne servito senza posate di sorta. Così, dovemmo servirci dei coltelli che portavamo alla cintola per tagliare e affettare, come avremmo adoperato i coltelli da tavola a casa nostra; e, con la punta dei coltelli, infilzammo i pezzetti di carne, in luogo degli spiedini di metallo che avremmo avuto a casa. In mancanza di spiedini e di cucchiai, mangiammo l'agnello farcito e il riso e il dolce con le dita. «Soltanto il pollice e le prime due dita della mano destra» mi ammonì mio padre a voce bassa. «Le dita della mano sinistra vengono considerate sozze dagli Arabi, in quanto se ne servono per pulirsi il deretano. Inoltre, siedi appoggiato soltanto all'anca sinistra, prendi con le dita piccole porzioni di cibo, mastica bene ogni boccone e non guardare gli altri commensali mentre mangiano, altrimenti li metteresti in imbarazzo e perderebbero l'appetito.» V'è molto da vedere nell'impiego che fa l'arabo delle proprie mani, come imparai a poco a poco. Se, mentre sta parlando, egli si liscia la barba, il bene più prezioso che possegga, allora è come se giurasse su di essa che le sue parole sono sincere. Se porta all'occhio il dito indice, questo è il suo segno di assenso alle parole che stai pronunciando, o di ubbidienza ai tuoi ordini. Se porta la mano al capo, si impegna a rispondere con la propria testa per ogni disubbidienza. Se, tuttavia, compie uno qualsiasi di questi gesti con la mano "sinistra", allora si limita a burlarsi di te; e, se ti tocca con la mano sinistra, questo è l'insulto peggiore.
3.
Alcuni giorni dopo, avendo accertato che il comandante dei Crociati si trovava nel castello della città, andammo a fargli una visita di cortesia. Il cortile davanti al castello era gremito di cavalieri dei diversi ordini; alcuni si limitavano a oziare, altri giocavano ai dadi, altri chiacchieravano o litigavano, altri ancora erano assai manifestamente ubriachi, anche a quell'ora mattutina. Nessuno sembrava accingersi a correre fuori delle mura per impegnare battaglia con i Saraceni, e tanto meno essere ansioso di comportarsi in quel modo, o pentito perché non si regolava così. Quando mio padre ebbe spiegato la ragione della nostra presenza ai due cavalieri dall'aria sonnacchiosa che sorvegliavano la porta del castello, essi tacquero e si limitarono a invitarci ad entrare con un cenno del capo. Una volta entrati, mio padre tornò a spiegare perché ci trovavamo lì ad un lacchè dopo l'altro, in una sala dopo l'altra, finché ci venne detto di aspettare. Dopo qualche tempo, entrò una dama. Era sulla trentina, non graziosa, ma dal portamento elegante e aveva sul capo una coroncina d'oro. Disse, in castigliano, dall'accento francese: «Sono la Principessa Eleonora.» «Niccolò Polo» disse mio padre, inchinandosi. «Ed ecco mio fratello Maffeo e mio figlio Marco.» Poi, per la sesta o la settima volta, spiegò per quale motivo ci trovavamo lì. La dama osservò, con ammirazione e una certa apprensione: «Arriverete fino al Catai? Povera me, spero che mio marito non vi proporrà di accompagnarvi. Ama viaggiare, e aborrisce questa tetra Acri.» La porta della stanza tornò ad aprirsi ed entrò un uomo che aveva press'a poco la stessa età di lei. «Oh, eccolo. Il Principe Edward. Amore mio, questi sono...» «La famiglia Polo» disse lui, brusco, con l'accento inglese. «Siete venuti per rifornire la nave.» Anche lui aveva una piccola corona sul capo e indossava una cotta con la croce di San Zorzi. «Che cosa posso fare per "voi"?» Sottolineò quest'ultima parola, come se noi fossimo venuti in coda a una processione di postulanti e di seccatori. Per la settima o l'ottava volta, mio padre spiegò e concluse: «Ci limitiamo a chiedere a Vostra Altezza Reale di presentarci al più alto prelato tra i cappellani dei Crociati. Vorremmo chiedergli alcuni dei suoi sacerdoti.» «Per quanto mi concerne, potete averli tutti. E anche tutti i Crociati. Eleonora, mia cara, vi spiace chiedere al Venerabile Arcidiacono di unirsi a noi?» Mentre la Principessa usciva, zio Maffeo disse, audacemente: «Vostra Altezza Reale non sembra soddisfatta di questa Crociata.» Edward fece una smorfia. «E' stata un susseguirsi di disastri. La nostra ultima speranza era che ad assumere il comando fosse il pio francese Louis, avendo egli riportato tanti successi nella Crociata precedente, ma Louis si è ammalato ed è morto venendo qui. Il fratello ne ha preso il posto, ma Charles è soltanto un politicante e dedica tutto il suo tempo alle trattative. Nel suo interesse, potrei aggiungere. Ogni monarca cristiano impegolato in questo disastro sta cercando soltanto di favorire i propri interessi personali e non quelli della Cristianità. Non ci si può stupire se i Cavalieri sono delusi e indolenti.» Mio padre osservò: «Quelli là fuori non sembrano essere particolarmente desiderosi di agire.» «Quei pochi che non sono tornati in patria, in preda al disgusto, soltanto di rado riesco a strapparli dai letti delle loro baldracche affinché tentino una sortita contro il nemico. E anche sul campo preferiscono il letto alla battaglia. Una notte, non molto tempo fa, dormivano mentre un hashshashin saraceno si insinuava tra le scolte ed entrava nella mia tenda, riuscite a immaginarlo? Ed io non porto la spada sotto la camicia da notte. Dovetti afferrare un candelabro con la punta per configgervi la candela e trafiggerlo con quello.» Il Principe emise un profondo sospiro. «Tale essendo la situazione, devo ricorrere io stesso alle manovre politiche. Sto trattando, attualmente, con una ambasceria dei Mongoli, nella speranza di averli come alleati contro il nostro comune nemico, l'Islam.» «Ah, ecco il perché» disse zio Maffeo. «Ci eravamo meravigliati vedendo due Mongoli in città.» Mio padre prese a dire, con la speranza nella voce : «Allora la nostra missione è in stretta armonia con gli scopi che si prefigge Vostra Altezza...»
La porta si aprì di nuovo e la Principessa Eleonora tornò, conducendo con sé un uomo alto e assai vecchio che portava una dalmatica splendidamente ricamata. Il Principe Edward fece le presentazioni: «Il Venerabile Teobaldo Visconti, Arcidiacono di Liegi. Quest'uomo pio, disperando a causa dell'irreligiosità degli altri ecclesiastici nella Fiandra, chiese al Papa di autorizzarlo ad accompagnarmi qui. Teo, questi viaggiatori giungono da un luogo molto vicino alla tua Piacenza. Sono i Polo di Venezia.» «Oh, sì, i Pantaleoni» disse il vecchio, affibbiandoci il beffardo nomignolo con il quale gli abitanti delle città rivali si riferiscono ai veneziani. «Vi trovate qui per promuovere i commerci della vostra abietta repubblica con i nemici infedeli?» «Suvvia, Teo» disse il Principe, con un'aria divertita. «Andiamo, Teo» intervenne la Principessa, che sembrava in preda all'imbarazzo. «Ve l'ho detto: questi gentiluomini non si trovano affatto qui per esercitare il commercio.» «Per commettere quale altra malvagità, allora?» domandò l'Arcidiacono. «Sono disposto a credere a tutto tranne che alla bontà di Venezia. Liegi era già abbastanza perfida, ma Venezia è la Babilonia d'Europa. Una città di uomini avidi di denaro e di donne lascive.» Parve fissare irosamente me, come se avesse saputo delle mie recenti avventure in quella Babilonia. Stavo per protestare, affermando di non essere affatto avido di denaro, ma mio padre parlò per primo, e in modo conciliante: «Forse la nostra città è giustamente conosciuta in questo modo, Reverendissimo. Tuti semo fati de carne. Ma noi non stiamo viaggiando a nome di Venezia. Veniamo con una richiesta del Khan di tutti i Khan dei Mongoli, ed essa non può che tornare di vantaggio all'Europa tutta nonché alla Santa Madre Chiesa.» Poi continuò, spiegando la ragione per cui Qubilai aveva richiesto preti missionari. Visconti lo ascoltò fino in fondo, ma poi domandò, altezzosamente: «Perché vi rivolgete a me, Polo? Io sono soltanto un diacono, un amministratore incaricato; sapete, non sono nemmeno stato ordinato sacerdote.» Non era neppure cortese, per giunta, ed io sperai che mio padre glielo dicesse. Invece si limitò a dire: «Siete l'uomo di chiesa cristiano di più alto rango nella Terra Santa. Il legato del Papa.» «Non esiste alcun Papa» ribatté Visconti. «E, fino a quando non sarà stata scelta un'Autorità apostolica, chi sono io per ordinare a cento sacerdoti di recarsi in remote e ignote contrade, per il capriccio di un barbaro pagano?» «Suvvia, Teo» tornò a dire il Principe. «Nel nostro seguito, credo, vi sono più cappellani che combattenti. Senza dubbio possiamo fare a meno di alcuni di essi, per un buon fine.» «Ammesso che si tratti "davvero" di un buon fine, Vostra Grazia» rispose l'Arcidiacono, accigliandosi. «Rammentate, costoro che ce lo propongono sono veneziani. E questa non è la prima proposta del genere. Circa venticinque anni or sono, i Mongoli tentarono un analogo approccio, e direttamente con Roma. Uno dei loro Khan, a nome Kuyuk, cugino di questo Qubilai, inviò una lettera a Papa Innocente, chiedendo - anzi no, pretendendo - che Sua Santità e tutti i monarchi dell'Occidente si recassero insieme da lui per rendergli omaggio e per sottomettersi. Naturalmente venne ignorato. Ma "questo" è il genere di inviti che i Mongoli rivolgono, quando vengono per il tramite di un veneziano...» «Disprezzate la nostra origine, se volete» disse mio padre, sempre imperturbabile. «Se non esistessero colpe, a questo mondo, non potrebbe esservi alcun perdono. Ma vi prego, Reverendissimo, non disdegnate questa occasione. Il Khakhan Qubilai chiede soltanto che i sacerdoti cristiani vadano a predicare la loro religione. Ho qui la missiva stilata dallo scrivano del Khan e dettata dal Khan personalmente. Vostra Riverenza legge il farsi?» «No» rispose Visconti, e soggiunse, sbuffando con esasperazione: «Occorrerà un interprete.» Poi alzò le gracili spalle. «Benissimo, ritiriamoci in un'altra stanza mentre la missiva mi verrà letta. Non v'è alcuna necessità di far perdere tempo alle Loro Grazie.»
Così, lui e mio padre si ritirarono per conferire. Il Principe Edward e la Principessa Eleonora, quasi per compensarci dei modi villani dell'Arcidiacono, si trattennero quanto bastava per conversare brevemente con me e con lo zio Maffeo. La Principessa mi domandò: «E "voi" leggete il farsi, giovane Marco?» «No, mia signora... Vostra Altezza Reale. Quella lingua viene scritta con l'alfabeto arabo, la scrittura che sembra vermi, e io non riesco a capirci niente.» «Lo leggiate o no» disse il Principe «farete meglio a imparare a parlarlo, se andrete all'est con vostro padre. Il farsi è la lingua del commercio diffusa in tutta l'Asia, come lo è il francese nei paesi mediterranei.» La Principessa domandò allo zio: «Dove andrete partendo da qui, Monsieur Polo?» «Se otterremo i sacerdoti che chiediamo, Altezza Reale, li condurremo alla corte del Khakhan Qubilai. E questo significa che, in un modo o nell'altro, dovremo passare tra i Saraceni nell'entroterra.» «Oh, i sacerdoti dovreste riuscire a ottenerli» disse il Principe Edward. «Potreste probabilmente avere anche suore, se le voleste. Teo sarà lieto di sbarazzarsi di tutti loro, poiché sono la causa del suo malumore. Non dovete lasciarvi sgomentare dal suo comportamento. Teo è di Piacenza e quindi non può certo stupirvi l'atteggiamento di lui nei confronti di Venezia. Ma egli è altresì un gentiluomo devoto e pio, inflessibile nella disapprovazione del peccato. Pertanto, anche nei suoi momenti migliori, costituisce un cimento per noi.» Dissi, con impertinenza: «Speravo che mio padre gli rispondesse per le rime, e altrettanto stizzosamente.» «Vostro padre è forse più savio di voi» osservò la Principessa Eleonora. «Corre voce che Teobaldo potrebbe essere il nuovo Papa.» «Cosa?» proruppi, tanto sbalordito da dimenticare di rivolgermi a lei nel modo prescritto dal cerimoniale. «Ma se ha appena detto di non essere nemmeno un prete!» «E inoltre è molto anziano» disse lei. «Ma questo sembra essere il suo più importante titolo di merito. Il Conclave si trova a un punto morto perché, come al solito, ogni fazione ha il proprio candidato prediletto. Ma i laici stanno cominciando a vociferare; chiedono un Pontefice. Visconti sarebbe almeno accettabile per loro e anche per i Cardinali. Pertanto, se il Conclave rimarrà ancora a lungo nel vicolo cieco, ci si può aspettare che scelga Teo, proprio perché Teo "è" anziano. In questo modo vi sarà un Papa a Roma, ma non per troppo tempo. Soltanto quel tanto che basterà perché le varie fazioni si dedichino alle loro manovre e macchinazioni segrete e decidano quale favorito si metterà la tiara quando il nostro Visconti sarà morto con essa.» Il Principe Edward osservò, malignamente: «Teo morirà presto, di apoplessia, se constaterà che Roma è proprio come Liegi, o Acri o Venezia.» Mio zio disse, sorridendo: «Una Babilonia, volete dire?» «Sì. Per questo, penso, otterrete i sacerdoti che volete. Visconti può esibirsi in borbottamenti, ma non si affliggerà vedendo questi preti di Acri andare lontano, molto lontano da lui. Tutti gli ordini monastici si trovano qui per provvedere alle necessità spirituali dei combattenti, naturalmente, ma hanno assunto punti di vista alquanto liberali per quanto concerne i loro doveri. Infatti, oltre a occuparsi degli ospedali e della cura delle anime, stanno fornendo alcuni servigi che sgomenterebbero i santi fondatori dei loro ordini. Potete immaginare quali necessità degli uomini soddisfino le Carmelitane e le Clarisse, e per giunta quanto mai lucrosamente. Nel frattempo, monaci e frati si arricchiscono mediante commerci illeciti con la popolazione locale, vendendo persino le provviste e le medicine donate ai loro monasteri dai cristiani di buon cuore in Europa. E inoltre, i preti vendono indulgenze e trafficano con assurde superstizioni. Avete veduto uno di questi?» Si tolse di tasca un foglio di carta scarlatto e lo consegnò a zio Maffeo, che lo spiegò e lesse a voce alta:
«'Benedici, o Dio, e santifica questo foglio affinché possa impedire l'opera del Demonio. Colui che porterà sulla propria persona questo scritto, nel quale figura il Sacro Verbo, non verrà visitato da Satana.'» «V'è molta richiesta di questi sgorbi da parte degli uomini che vanno in battaglia» soggiunse il Principe, asciutto. «Gli uomini di entrambi gli schieramenti, in quanto Satana è nemico tanto dei Musulmani quanto dei Cristiani. I preti, inoltre, contro un compenso - una moneta inglese da quattro penny o un dinar arabo - curano le ferite con "acqua santa". La ferita di qualsiasi individuo, e non ha importanza se trattasi dello squarcio di una spada o di una piaga della sifilide. Queste ultime piaghe sono più frequenti.» «Rallegratevi perché potrete andarvene presto da Acri» sospirò la Principessa. «Potessimo partire anche noi!» Lo zio Maffeo li ringraziò per averci concesso udienza e lui ed io ci congedammo. Egli mi disse che sarebbe tornato alla khane perché voleva sapere qualcosa di più riguardo alla disponibilità dell'unguento mumum. Io mi accinsi semplicemente a vagabondare per la città, nella speranza di udire qualche parola farsi e di impararla a mente, come mi aveva raccomandato di fare il Principe Edward. In effetti, poi, ne imparai alcune che il Principe non avrebbe approvato. Mi imbattei in tre ragazzi indigeni all'incirca della mia stessa età, i cui nomi erano Ibrahim, Daud e Naser. Non capivano un granché il francese, ma riuscimmo ugualmente a comunicare - i ragazzi ci riescono sempre - a furia di gesti e di espressioni facciali. Ci aggirammo insieme lungo le viuzze ed io additai questo o quell'oggetto, dicendone il nome che conoscevo, in francese o in veneziano, e domandando poi: «Farsi?» e loro ne pronunciarono il nome in quella lingua, a volte dopo essersi consultati a lungo. Imparai così che «mercante» o «commerciante» o «venditore» si dice «khaja», che tutti i ragazzetti sono «ashbal» o «leoncini» e tutte le ragazzine «zaharat» o «fiorellini», che «pistacchio» si dice «fistuk», «cammello» «shutur» e così via: parole farsi che mi sarebbero state utili ovunque, durante i miei viaggi in Oriente. Le altre le imparai in seguito. Passammo davanti a una bottega ove un khaja arabo offriva in vendita il necessario per scrivere, comprese bella pergamena e cartapecora ancor più fine, nonché carta di varia qualità, da quella indiana, sottilissima, fatta di riso, a quella coreana fatta di lino e a quella moresca e costosa, detta pergamena di tessuto perché è tanto liscia ed elegante. Acquistai il tipo di carta che potevo permettermi, di qualità media, ma robusta, e me la feci tagliare dal khaja in foglietti piccoli, per poterli maneggiare comodamente o mettere negli zaini. Acquistai inoltre alcuni gessetti con i quali scrivere quando non avrei avuto il tempo di preparare penna e inchiostro. E cominciai sin da quel momento ad annotare il mio primo lessico di termini non familiari. In seguito, avrei cominciato a prendere nota dei nomi dei luoghi attraversati e delle persone conosciute, quindi degli episodi da me vissuti, per cui, con l'andare del tempo, quei fogli sarebbero diventati il diario di tutti i miei viaggi e delle mie avventure. Era ormai mezzogiorno passato ed io, essendo a testa nuda sotto il sole ardente, cominciai a sudare. I ragazzi se ne accorsero e, ridacchiando, mi fecero capire a furia di gesti che soffrivo il caldo a causa del mio comico modo di vestire. Sembravano trovare particolarmente buffo il fatto che le mie lunghe e sottili gambe fossero esposte alla vista di tutti, ma strettamente fasciate dalle brache veneziane. Io lasciai capire, allora, che trovavo altrettanto ridicole le loro vesti voluminose e tutte borse, e osservai che dovevano soffrire il caldo ancor più di me. I tre ribatterono che il loro era l'unico modo pratico di vestirsi, con quel clima. Infine, per mettere alla prova i nostri ragionamenti, ci infilammo in un vicolo cieco e Daud ed io facemmo a cambio con i vestiti. Naturalmente, non appena fummo nudi, divenne palese un'altra differenza tra Cristiani e Musulmani, per cui seguirono molti reciproci esami e molte esclamazioni nelle nostre diverse lingue. Io non avevo mai saputo, prima di allora, che cosa esattamente si mutilasse con la circoncisione, mentre loro non avevano mai veduto un ragazzo di oltre tredici anni la cui fava fosse ancora avvolta dal prepuzio. Scrutammo tutti, minuziosamente, le differenze tra me e Daud, constatando come la fava di lui - essendo sempre scoperta - fosse più secca e lucente e quasi squamosa, nonché cosparsa di filacce e lanuggine; mentre la mia, racchiudibile o scopribile a
volontà, era più duttile e vellutata al tatto, anche quando, a causa di tutte le attenzioni che gli venivano prodigate, il mio organo si drizzò, eretto e duro. I tre ragazzi arabi fecero commenti eccitati che parvero voler dire: «Proviamo questo nuovo aggeggio», la qual cosa non aveva alcun senso per me. Ragion per cui il nudo Daud cercò di darmi una dimostrazione, voltandomi le spalle, tendendo il braccio dietro di sé per prendermi nella mano il candeloto e puntandolo poi verso il suo scarno deretano che, dopo essersi chinato, dimenò, dicendo intanto, con una voce allettante: «Kus! Baghlah! Kus!» Ibrahim e Naser risero, fecero gesti espressivi con il medio e urlarono: «Ghunj! Ghunj!» Ancora non capivo un bel niente delle parole e della mimica, ma non sopportavo che Daud si prendesse libertà con la mia persona. Allentai la stretta della sua mano, lo spinsi via, poi mi affrettai a coprirmi, indossando di nuovo quel che mi ero tolto. I tre ragazzi si rassegnarono con spallucciate benevole alla mia "pruderie" cristiana e anche Daud si rivestì. L'indumento intimo di un arabo, come le brache di noi veneziani, avvolge le gambe. Parte dall'altezza della vita, ove è tenuto stretto da un cordone, e scende fino alle caviglie, intorno alle quali è attillato; ma per il resto l'indumento è abbondantemente ampio, anziché stretto. I ragazzi mi dissero che in farsi aveva nome pi-jamah, ma il meglio che seppero trovare per tradurre il termine in francese fu la parola troussés. Sopra al pi-jamah l'arabo indossa una camicia dalle maniche lunghe, non molto diversa dalle nostre, a parte il fatto che è ampia e fatta a blusa. E, sopra la camicia, egli indossa l'aba, che è una sorta di leggera sopravveste con tagli attraverso i quali fa passare le braccia, mentre il resto pende intorno al corpo, sin quasi a terra. Le scarpe degli Arabi sono come le nostre, ma fatte in modo da adattarsi a qualsiasi piede, essendo notevolmente lunghe, con la punta non riempita che si incurva all'insù e all'indietro. Sul capo gli Arabi portano una kaffiyah, un lembo quadrato di tessuto, ampio abbastanza per scendere molto sotto le spalle, ai lati e sul dorso, e trattenuto mediante un cordone mollemente avvolto intorno al capo. Non senza stupore, soffrii meno il caldo con questi indumenti. Li indossai per qualche tempo prima che Daud ed io ci scambiassimo di nuovo gli abiti e continuai a sentirmi più fresco di quando ero vestito come si usa a Venezia. I tanti strati di tessuto, anziché essere soffocanti sulla pelle, sembrano intrappolare aria fresca ed evitare, come una barriera, che il sole la riscaldi. Inoltre questi indumenti, essendo ampi, sono assai comodi e indossandoli non ci si sente costretti. E poiché sono così ampi, ed è tanto facile allargarli ulteriormente, non riuscii a capire perché i ragazzi arabi - e tutti gli Arabi di sesso maschile e di ogni età - orinassero come sono soliti fare. Si accosciano, quando fanno acqua, alla stessa maniera delle donne. Non solo, ma si regolano così ovunque si trovino, blandamente noncuranti delle persone che passano quanto queste ultime ignorano loro. Allorché manifestai curiosità e disgusto, i ragazzi vollero sapere come fa acqua un cristiano. Spiegai che noi oriniamo restando in piedi, e possibilmente entro una latrina. Loro mi fecero capire che tale posizione verticale è definita impura dal loro sacro libro, il Corano, e inoltre che un arabo non ama entrare in una latrina, o mustarah, se non quando deve vuotare gli intestini, le latrine essendo posti pericolosi. Venendo a sapere questo, mi dimostrai ancor più curioso, e così i ragazzi spiegarono. I Musulmani, come i Cristiani, credono negli esseri malefici e nei demoni che scaturiscono dagli inferi - vengono denominati jinn e afarit - e questi esseri possono quanto mai facilmente uscire dal mondo sotterraneo passando per la fossa scavata nelle mustarah. Sembrava ragionevole. Per molto tempo, in seguito, non riuscii più ad accosciarmi tranquillamente in una latrina, per paura di sentire la presa degli artigli dal basso. Il modo di vestire di un arabo può sembrare poco estetico ai nostri occhi, ma lo è, comunque, meno di quello delle donne. Che sembra qui tanto più brutto in quanto è così poco femminile e non distinguibile da quello degli uomini. La donna araba indossa troussés e camicia e aba altrettanto voluminosi, ma, in luogo della kaffiyah, porta sul capo un chador, o velo, che scende dal cocuzzolo della testa sin quasi ai piedi di lei, davanti, dietro e tutto attorno. Alcune donne portano un chador nero, sottile abbastanza per consentir loro di vedere attraverso ad esso senza essere vedute; altre portano un chador più pesante, che però rimane sottilmente aperto davanti agli occhi. Fasciata da. tutti questi strati di stoffe e di veli, la donna non sembra altro che un mucchio di stracci in cammino.
E invero, a meno che non "stia" camminando, chi non è arabo difficilmente riesce a stabilire quale sia la parte anteriore e quale quella posteriore di lei. A furia di smorfie e di gesti, riuscii a rivolgere una domanda ai miei compagni. Se, alla maniera degli zerbinotti veneziani, avessero dovuto passeggiare lungo le vie della città per adocchiare le donne giovani e belle, come avrebbero potuto capire quali di esse possedevano il dono della bellezza? Mi spiegarono, in qualche modo, che la manifestazione più importante della bellezza, in una donna musulmana, non è l'avvenenza del viso o lo splendore degli occhi o l'armonia del corpo, in genere. E' la massiccia ampiezza dei fianchi e del deretano. Gli occhi esperti, mi assicurarono i ragazzi, riescono a scorgere queste tremolanti rotondità anche sotto le vesti di una donna che cammini per la strada. Ma mi misero in guardia, consigliandomi di non lasciarmi fuorviare dalle apparenze; molte donne, mi fecero capire, si imbottivano i fianchi e le natiche per simularne l'immensità. Posi un'altra domanda. Se, alla maniera dei giovanotti veneziani, Ibrahim e Naser e Daud avessero voluto fare amicizia con una bella sconosciuta, come si sarebbero regolati? Questa mia curiosità parve lasciarli lievemente interdetti. Mi invitarono a spiegare meglio. Mi riferivo a una "donna" sconosciuta? Ma sì. Certo. A chi altri avrei potuto riferirmi? Non, per caso, a un bell'uomo o a un bel ragazzo sconosciuti? Avevo già sospettato prima, e ora ne stavo divenendo certo, di essere capitato con un gruppetto di implumi Sior Mona. La cosa non mi stupiva troppo, poiché sapevo che la città di Sodoma non si era trovata lontano da lì, a est di Acri. I ragazzi stavano ridacchiando di nuovo della mia ingenuità di cristiano. Dalle loro pantomime e dal loro rudimentale francese dedussi che - secondo il punto di vista dell'Islam e del suo sacro Corano le donne erano state create esclusivamente affinché gli uomini potessero far procreare da esse figli maschi. Eccezion fatta per qualche ricco sceicco che poteva permettersi di riunire e mantenere un intero alveare di vergini garantite, da impiegare una alla volta per poi essere ignorate, pochi Musulmani si servivano delle donne per il loro godimento sessuale. Perché avrebbero dovuto? V'erano tanti uomini e fanciulli da possedere, più grassocci e più belli di qualsiasi donna. A parte ogni altra considerazione, un amante maschio era da preferirsi a qualsiasi femmina, e proprio per la semplice ragione che si trattava di un "maschio". Ecco, per darmi un esempio dell'intrinseco valore del maschio - e mi additarono un fagotto ambulante di indumenti che era una donna la quale reggeva tra le braccia un secondo fagotto avvolto in altri tessuti -, potevano avere la certezza che il bambino era di sesso maschile perché il visetto di lui rimaneva completamente nascosto da uno sciame brulicante di mosche. Non mi domandavo - vollero sapere - perché la madre non scacciasse le mosche? Avrei potuto rispondere: «per pura indolenza», ma i ragazzi continuarono a spiegare. La madre era "contenta" che le mosche coprissero la faccia del bambino proprio "perché" egli era maschio. Ogni perfido jinn o afarit aleggiante lì attorno, infatti, non avrebbe potuto vedere facilmente che la creaturina era un prezioso bambino maschio, e, per conseguenza, sarebbe stato più improbabile che lo aggredisse con una malattia o una maledizione o qualche altro guaio. Se la creatura fosse stata una femmina, la madre avrebbe con noncuranza scacciato le mosche, lasciando che gli esseri maligni la vedessero con il viso scoperto, in quanto nessun demone si sarebbe dato la pena di molestare una creatura di sesso femminile e inoltre, anche se lo avessero fatto, la madre non se ne sarebbe preoccupata un granché. Bene, essendo per fortuna anch'io un maschio, presumevo di dover accettare l'opinione dominante secondo la quale i maschi erano di gran lunga superiori alle femmine e dovevano essere tesoreggiati molto di più. Ciò nonostante, avevo avuto qualche piccola esperienza sessuale, la quale mi induceva a ritenere che una donna o una ragazza fossero utili e desiderabili e funzionali sotto tale aspetto. Se anche là donna era o non poteva essere altro al mondo che un "ricettacolo", in quanto tale era incomparabile, persino necessaria e addirittura indispensabile. Nemmeno per sogno, mi fecero capire i ragazzi, ridendo una volta di più della mia ingenuità. Anche come ricettacolo, qualsiasi maschio musulmano era di gran lunga più sensibile e delizioso di
qualsiasi femmina musulmana, le cui parti fossero state opportunamente desensibilizzate con la circoncisione. «Aspettate un momento» feci capire ai ragazzi «volete dire che la circoncisione dei maschi causa in qualche modo una riduzione...?» No, no, no. Scossero la testa con decisione. Si riferivano soltanto alla circoncisione delle femmine. Scossi a mia volta la testa. Non riuscivo a immaginare come si potesse praticare un intervento del genere su una creatura che non possiede né il candeloto cristiano, né lo zab musulmano e nemmeno il binbin infantile. Ero completamente disorientato, e lo dissi. Con un'aria di divertita indulgenza, mi fecero rilevare - additando i loro organi mutilati - che l'intervento sul prepuzio di un ragazzo aveva luogo al solo scopo di marchiarlo come musulmano. Ma, in ogni famiglia musulmana la cui condizione sociale fosse superiore a quella dei mendicanti o degli schiavi, anche le bambine venivano assoggettate a un intervento equivalente, nell'interesse della decenza femminile. Tanto per fare un esempio: era un insulto terribile dare a un uomo del «figlio di una madre non circoncisa». Ma continuavo ad essere disorientato. «Tout les bonnes femmes... tabzir... zambur» ripeterono più e più volte i ragazzi. Dissero che il tabzir, di qualsiasi cosa potesse trattarsi, veniva praticato per togliere alle bambine la zambur, qualsiasi cosa potesse essere, affinché, una volta divenute donne, esse fossero prive di desideri indecenti e pertanto non propense all'adulterio. Sarebbero rimaste per sempre caste e al di sopra di ogni sospetto, come doveva esserlo ogni «bonne femme» dell'Islam: carne passiva senza altro scopo tranne quello di partorire il maggior numero possibile di maschi nel corso della sua squallida esistenza. Senza dubbio questo era un lodevole risultato finale, ma ancora non capivo i tentativi dei ragazzi di spiegarmi in che cosa consistesse il tabzir. Pertanto cambiai discorso e posi un'altra domanda. Supponendo che, alla maniera dei giovanotti veneziani, Ibrahim o Daud o Naser "avessero" voluto una donna, non un uomo o un ragazzo - e una donna non condannata all'insensibilità e al torpore - come si sarebbero regolati per trovarla? Naser e Daud ridacchiarono sprezzanti. Ibrahim inarcò le sopracciglia con un'aria sdegnosamente interrogativa, e al contempo drizzò il dito medio e lo mosse su e giù. «Sì» dissi io, annuendo. «Una donna di quel genere, se è la sola nella quale rimanga un po' di vita». Per quanto la loro capacità di comunicare fosse limitata, i ragazzi mi fecero capire, anche troppo chiaramente, che per trovare una simile svergognata avrei dovuto cercare tra le donne cristiane che risiedevano a Acri. Né la ricerca sarebbe stata molto faticosa, poiché esistevano parecchie di quelle bagasce. Dovevo soltanto entrare nell'edificio - e me lo additarono - situato proprio al lato opposto della grande piazza del mercato nella quale ci trovavamo in quel momento. Dissi, irosamente: «Ma quello è un convento! Una dimora di suore cristiane!» Alzarono le spalle e si lisciarono barbe immaginarie, asserendo che avevano detto il vero. E, proprio allora, la porta del convento si aprì e un uomo e una donna uscirono nella piazza. Lui era un cavaliere crociato, con l'emblema dell'Ordine di San Lazzaro sulla cotta. Lei non era velata, ovviamente non si trattava di un'araba, e indossava il mantello bianco e la veste marrone dell'Ordine di Nostra Signora del Monte Carmelo. Entrambi avevano il viso acceso e barcollavano per aver bevuto troppo vino. Allora, naturalmente, ma soltanto allora, ricordai di avere già udito due accenni alle «scandalose» carmelitane e clarisse. Nella mia ignoranza mi ero persuaso che le allusioni si riferissero a singole donne le quali avevano quel nome. Ma ormai appariva chiaro che si era trattato invece delle suore carmelitane e di quelle altre monache, le Minori dell'Ordine di San Francesco, affettuosamente chiamate Clarisse dal nome di Santa Chiara. Poiché mi sembrava di essere stato personalmente disonorato agli occhi dei tre ragazzi infedeli, li salutai in tono brusco. Al che essi, a gran voce e gesticolando, insistettero affinché mi unissi di nuovo a loro al più presto, facendomi capire che mi avrebbero mostrato qualcosa di "davvero" meraviglioso. Risposi non impegnativamente, poi, lungo le viuzze e i vicoli, tornai alla khane.
4. Vi giunsi contemporaneamente a mio padre, di ritorno dal colloquio con l'Arcidiacono, al castello. Mentre ci avvicinavamo alla nostra stanza, ne uscì un giovane, il massaggiatore dello hammam che aveva servito zio Maffeo il primo giorno nella locanda. Ci rivolse un sorriso radioso e disse: «Salaam aleikum», e mio padre, correttamente, rispose: «Wa aleikum es-salaam». Lo zio Maffeo si trovava nella stanza e, a quanto parve, si stava cambiando per il pasto serale. Con la consueta animazione, prese a parlare non appena fummo entrati: «Mi sono fatto portare dal ragazzo un altro vaso del mumum per depilazioni, allo scopo di accertare quali ne siano gli ingredienti. Consiste soltanto di orpimento e calce viva macinati e impastati con un po' d'olio d'oliva e l'aggiunta di un tocco di muschio allo scopo di renderne più gradevole l'aroma. Potremmo facilmente preparare noi stessi l'intruglio, ma il suo prezzo, qui, è talmente basso che non ne vale la pena. Ho detto al ragazzo di procurarmi quattro dozzine di questi piccoli vasi. Che mi dici a proposito dei nostri preti, Nico?» Mio padre sospirò. «Visconti sembra abbastanza disposto ad autorizzare tutti i preti di Acri a venire con noi. Ma ritiene giusto che debbano essere loro stessi a decidere se vogliono o meno compiere un viaggio così lungo e arduo. Pertanto si limiterà a intervenire solamente con una richiesta di volontari. E ci farà sapere quanti saranno, se pochi o molti.» Il caso volle che uno dei giorni successivi fossimo gli unici ospiti della khane, per cui mio padre domandò socievolmente al proprietario se non ci avrebbe fatto l'onore di unirsi a noi intorno alla tovaglia, per il pasto. «Le tue parole sono dinanzi ai miei occhi, Sceicco Folo» rispose Ishaq, disponendo le ampie troussés in modo da poter piegare le gambe e sedersi. «E forse la Sheika, la tua buona moglie, vorrà anch'ella unirsi a noi?» disse zio Maffeo. «E' tua moglie, non è vero, a cucinare?» «Sì, infatti, Sceicco Folo. Ma non verrebbe mai meno alle norme del decoro avendo la presunzione di sedersi a mangiare in compagnia di uomini.» «Oh, certo» disse mio zio. «Perdonami. Dimenticavo le norme del decoro». «Come ha detto il Profeta (possano beatitudine e serenità essere su di lui): 'Venni a trovarmi sulla porta del Paradiso e vidi che quasi tutti coloro i quali vi dimoravano erano poveri. Venni a trovarmi sulla porta dell'Inferno e vidi che quasi tutti i suoi abitatori erano donne.' Così sta scritto.» «Uhm, sì. Be', forse allora potrebbero unirsi a noi i tuoi figli, per tenere compagnia al nostro Marco, qui. Se hai figli maschi.» «Ahimè, non ne ho alcuno» disse Ishaq, in tono afflitto. «Ho soltanto tre figlie. Mia moglie è una baghlah, e sterile. Signori, volete consentirmi di invocare umilmente la benedizione di Allah su questa cena?» Chinammo tutti il capo e lui mormorò: «Allah ekber rakmet», aggiungendo poi, in veneziano: «Allah è grande, lo ringraziamo». Cominciammo a servirci le fette di montone cucinate con cipolline e i cetrioli al forno farciti con riso e noci. Mentre ci servivamo, dissi al proprietario della locanda: «Scusami Sceicco Ishaq. Posso farti una domanda?» Egli annuì affabile. «Rendimi felice con un tuo ordine, giovane Sheikh.» «La parola della quale ti sei servito parlando della tua signora moglie. Baghlah. L'avevo già sentita. Che cosa significa?» Ishaq parve un po' sconcertato. «Baghlah significa mula. La parola viene impiegata anche per riferirsi a una donna ugualmente infeconda. Ah, mi rendo conto che tu la giudichi una parola dura da parte mia, riferita a mia moglie. E hai ragione. Ella è, tutto sommato, una donna eccellente sotto altri aspetti. Voi signori avrete forse notato come è magnificamente a forma di luna piena il suo di dietro. Mirabilmente grande e ponderosamente massiccio. La costringe a star seduta quando vorrebbe rimanere in piedi e a drizzarsi a sedere quando vorrebbe sdraiarsi. Sì, una donna eccellente. Ha inoltre capelli meravigliosi, sebbene voi non possiate averli veduti. Più lunghi e più folti della mia barba. Senza dubbio sapete che Allah incaricò uno dei suoi angeli di rimanere in
piedi accanto al trono e di lodarlo per questo. L'angelo non ha alcun'altra cosa da fare. Egli si limita a lodare costantemente Allah per aver dato la barba agli uomini e lunghe trecce alle donne.» Quando smise per un momento di ciarlare, dissi: «Ho udito pronunciare un'altra parola. Kus. Che cosa significa?» Il servo che stava provvedendo alle nostre necessità si lasciò sfuggire un suono strozzato, e Ishaq parve ancor più sconcertato. «Questa è una parola volgarissima che significa... ma non è certo il caso di dirlo durante un pasto. Non ripeterò il termine, ma è un termine dei bassifondi che si riferisce alle parti basse delle donne.» «E ghunj?» domandai. «Che cosa vuol dire ghunj?» Il servo boccheggiò e si affrettò a uscire dalla stanza, mentre Ishaq sembrava sconcertato fino allo sgomento. «Dove hai trascorso il tuo tempo, giovane sceicco? Anche questa è una parola volgare. Significa... significa il movimento che fa una donna. Una donna o un... sì, in altre parole il partecipante passivo. La parola si riferisce al movimento che si fa durante - Allah mi perdoni durante l'atto dell'accoppiamento.» Zio Maffeo sbuffò e disse: «Questo saputelo di mio nipote ci tiene a imparare nuove parole per potersi rendere più utile quando viaggerà con noi in regioni remote.» Ishaq mormorò: «Come ha detto il Profeta (la pace sia con lui), un compagno è la provvista migliore in ogni viaggio.» «V'è un paio di altre parole...» presi a dire. «E, come dice il proverbio» ringhiò Ishaq «anche una cattiva compagnia è meglio di niente. Ma, davvero, giovane sceicco Folo, sono costretto a rifiutarmi di tradurre le altre parole che hai imparato.» A questo punto intervenne mio padre, cambiando discorso e passando a qualcosa di più innocuo; così il pasto continuò fino al dolce, una conserva di albicocche candite, datteri e scorza di limone, il tutto profumato con l'ambra. E così, soltanto molto tempo dopo scoprii il significato delle parole misteriose tabzir e zambur. Quando avemmo terminato di mangiare, bevendo qahvah e sharbat, Ishaq ripeté il «benedicite»: diversamente da noi cristiani, gli infedeli lo recitano anche alla fine di un pasto, oltre che all'inizio - «Allah ekber rakmet» - poi, con un'espressione di sollievo, si congedò. Allorché, alcuni giorni dopo, mio padre, mio zio ed io ci recammo di nuovo al castello di Acri, perché convocati dall'Arcidiacono, egli ci accolse in compagnia del Principe, della Principessa e inoltre di due uomini che indossavano la veste bianca e il mantello nero dell'Ordine dei frati predicatori di San Domenico. Dopo lo scambio di saluti, l'Arcidiacono Visconti ci presentò agli sconosciuti: «Fra Niccolò di Vicenza e Fra Guglielmo di Tripoli. Si sono offerti volontariamente di accompagnarvi, Messeri Polo.» Per quanta delusione potesse aver provato, mio padre la dissimulò, limitandosi a dire: «Vi sono grato, fratelli, e vi do il benvenuto tra noi. Ma posso domandarvi perché vi siete offerti spontaneamente di partecipare alla nostra missione?» Uno dei due rispose, con una voce alquanto petulante: «Perché siamo molto disgustati dal comportamento dei nostri fratelli cristiani qui ad Acri.» L'altro disse, nello stesso tono di voce: «Siamo impazienti di respirare l'aria più pulita e più pura della lontana Tartaria.» «Grazie, fratelli» disse mio padre, sempre molto compito. «E ora vi spiacerebbe consentirci di scambiare una parola in privato con Sua Eccellenza e le loro Altezze Reali?» I due frati tirarono su con il naso, come se si fossero risentiti, ma uscirono dalla stanza. Rivolto all'Arcidiacono, il babbo citò allora la Bibbia: «La messe è davvero abbondante, ma i braccianti sono pochi.» Visconti replicò con un'altra citazione: «Ove due o tre si riuniscono nel nome mio, là io mi trovo, tra essi.» «Ma, Eccellenza, io avevo chiesto sacerdoti.»
«E nessun sacerdote si è offerto volontario. Quei due, comunque, sono frati predicatori. In quanto tali, sono autorizzati in pratica a svolgere qualsiasi compito ecclesiastico... dal fondare una chiesa al dirimere una disputa matrimoniale. I loro poteri in fatto di consacrazione e assoluzione sono alquanto limitati, naturalmente, né essi possono ordinare un sacerdote, ma per questo dovreste condurre con voi un vescovo. Sono spiacente per lo scarso numero di volontari, ma non posso, in coscienza, obbligare o costringere nessuno. Avete altre lagnanze?» Mio padre esitò, ma zio Maffeo intervenne audacemente: «Sì, Eccellenza. I due frati ammettono che non vengono per un qualsiasi scopo positivo. Vogliono semplicemente allontanarsi da questa città dissoluta. E non mi pare che...» «Proprio come San Paolo» osservò l'Arcidiacono, in tono asciutto. «Mi riferisco agli Atti degli Apostoli. Questa città si chiamava allora Ptolemais, e Paolo vi mise piede una volta e ovviamente riuscì a sopportarla per un giorno appena.» La Principessa Eleonora mormorò, con fervore: «Amen!» e il Principe Edward ridacchiò, comprensivo. «La decisione dipende da voi» ci disse Visconti. «Potete rivolgervi altrove. Oppure potete aspettare l'elezione del Pontefice e rivolgervi a lui. O ancora potete accettare i servigi dei due fratelli domenicani. Dichiarano di essere pronti e ansiosi di partire sin da domani.» «Li accettiamo, naturalmente, Eccellenza» disse mio padre. «E vi ringraziamo per i vostri buoni uffici.» «E ora» disse il Principe Edward «dovrete portarvi al di là dei territori occupati dai Saraceni, per poter viaggiare verso oriente. Esiste un itinerario che è il migliore.» «Saremmo lieti di conoscerlo» disse zio Maffeo. Aveva portato il Kitab di Al-Idrisi, e a questo punto lo aprì alle pagine che rappresentavano Acri e i dintorni. «Una buona carta» commentò il Principe, in tono di approvazione. «Guardate, allora. Per recarvi all'est partendo da qui, dovete anzitutto dirigervi a nord, aggirando e rasentando l'entroterra occupato dai Mammalucchi.» Al pari di ogni altro cristiano, il Principe teneva i fogli capovolti, per avere il nord in alto. «Ma i porti principali più vicini, a nord, Beirut, Tripoli, Latakia...» Batté il dito sui puntini dorati che, sulla carta, rappresentavano quei porti di mare. «... Se già non sono caduti nelle mani dei Saraceni, devono trovarsi sotto un massiccio assedio. Dovete recarvi... lasciatemi calcolare... più di duecento miglia inglesi... a nord lungo la costa. Fino a questa località nell'Armenia Minore.» Indicò un punto sulla carta che, a quanto pareva, non aveva meritato un puntino d'oro. «Qui, ove il fiume Oronte sfocia in mare, v'è l'antico porto di Suvediye. E' abitato da Armeni cristiani e da pacifici Arabi Avedi, e i Mammalucchi non vi si sono ancora avvicinati.» «Questo era un tempo un porto importante dell'Impero Romano, chiamato Seleucia» disse l'Arcidiacono. «In seguito è stato chiamato Ayas e Aiazzo, nonché con molti altri nomi. Naturalmente, voi vi recherete a Suvediye per via di mare, e non lungo la costa.» «Sì» disse il Principe. «Una nave inglese salpa da Acri per Cipro con l'alta marea di domani sera. Dirò al capitano di passare per Suvediye e di prendere a bordo voi e i frati. Vi consegnerò una lettera per l'Ostikhan, il governatore di Suvediye, ordinandogli di darvi una salvacondotto.» Poi richiamò di nuovo la nostra attenzione sul Kitab. «Quando vi sarete procurati animali da soma a Suvediye, vi porterete nell'entroterra attraverso il passo del fiume - qui - poi proseguirete a est fino al fiume Eufrate. Il viaggio lungo la valle dell'Eufrate, fino a Bagdad, non dovrebbe presentare difficoltà. E da Bagdad vi sono diversi itinerari che conducono all'Estremo Oriente.» Mio padre e mio zio si trattennero al castello mentre il Principe scriveva la lettera relativa al salvacondotto. Ma mi consentirono di congedarmi da Sua Eccellenza e dalle Loro Altezze Reali affinché potessi andarmene e trascorrere a piacer mio quell'ultimo giorno ad Acri. Non rividi mai più l'Arcidiacono o il Principe e la Principessa, ma ebbi loro notizie. Il babbo, zio Maffeo ed io non ci eravamo allontanati da lungo tempo dal Levante quando venimmo a sapere che l'Arcidiacono Visconti era stato eletto Papa della Chiesa di Roma e aveva assunto il nome di Gregorio Decimo. Quasi contemporaneamente, il Principe Edward, considerando la Crociata una causa ormai perduta,
aveva deciso di tornare in patria. Si trovava in Sicilia quando gli erano pervenute notizie importanti: la morte di suo padre aveva fatto di lui il Re d'Inghilterra. E così, senza saperlo, io mi ero incontrato con due degli uomini più importanti d'Europa. Ma non mi sono mai vantato per questa fuggevole conoscenza. In fin dei conti, dovevo in seguito conoscere uomini, in Oriente, la cui potenza e grandezza faceva sì che Papi e Re fossero dei nanerottoli. Quando uscii dal castello, quel giorno, era una delle cinque ore in cui gli Arabi pregano il loro dio Allah, e i sagrestani che essi chiamano muezzin si trovavano appollaiati su ogni minareto e su ogni alto tetto, a intonare clamorosamente, ma in modo monotono, la cantilena che annuncia tali ore. Ovunque - nelle botteghe, sulle soglie delle case e nelle vie polverose - gli uomini di fede islamica srotolavano piccoli e laceri tappeti e si inginocchiavano su di essi. Volgendo la faccia a sud-est, l'abbassavano fino a terra tra le mani, al contempo sollevando il deretano. In quelle ore, chiunque poteste guardare in faccia, anziché vederne il di dietro, doveva essere Cristiano o Ebreo. Non appena tutti, ad Acri, vennero a trovarsi di nuovo in posizione verticale, scorsi i miei tre conoscenti di circa una settimana prima. Ibrahim, Naser e Daud, vedutomi entrare nel castello, avevano aspettato nelle vicinanze che ne uscissi. L'impazienza di mostrarmi la grande meraviglia che mi avevano promesso splendeva negli occhi di ognuno di loro. Anzitutto, dissero, dovevo mangiare qualcosa che avevano portato. Naser reggeva una piccola borsa di cuoio che risultò contenere un gran numero di fichi conservati nell'olio di sesamo. I fichi mi piacciono alquanto, ma quelli erano talmente imbevuti d'olio da risultare mollicci e viscidi e sgradevoli in bocca. Ciò nonostante, i ragazzi insistettero affinché li inghiottissi per essere preparato alla rivelazione imminente, e pertanto costrinsi me stesso a inghiottire quattro o cinque di quelle schifosaggini. Poi i tre mi fecero fare un lungo giro per viuzze e vicoli. La camminata cominciò a sembrarmi interminabile e inoltre mi sentivo stanchissimo di membra e confuso mentalmente. Mi domandai se fosse l'effetto del sole cocente sul mio capo nudo, o se i fichi fossero stati, in qualche modo, infetti. Non ci vedevo bene; persone e casupole intorno a me sembravano ondularsi e deformarsi in modi bizzarri. Le orecchie mi ronzavano come se fossi stato assalito da sciami di mosche. Inciampavo contro ogni minima irregolarità del terreno ed esortai i ragazzi a lasciarmi fermare e riposare per un po'. Ma loro, sempre insistenti ed eccitati, mi afferrarono per le braccia e mi aiutarono ad arrancare ancora. Riuscii a capire da quanto mi dissero che lo stordimento era davvero un effetto di quei fichi conservati in modo speciale e che doveva necessariamente precedere quanto stava per accadere. Venni a trovarmi trascinato verso una porta aperta ma assai buia e mi accinsi, remissivo, ad entrare. Ma i ragazzi protestarono a gran voce e irosamente, ed io interpretai il significato delle loro proteste come qualcosa di simile a: «Ehi tu, stupido infedele, devi toglierti le scarpe ed entrare a piedi nudi», e da ciò dedussi che l'edificio doveva essere una delle case di culto denominate, dai Musulmani, masjid. Poiché non portavo scarpe, ma soltanto brache con le suole, dovetti spogliarmi e rimanere nudo dalla vita in giù. Afferrai la tunica e la tesi verso il basso, allungandola il più possibile sulle mia nudità, e confusamente mi domandai nel frattempo se fosse più accettabile entrare in una masjid con le parti intime scoperte anziché con le scarpe ai piedi. In ogni modo i ragazzi non esitarono, ma mi spinsero oltre la soglia ed entro quel luogo. Non essendo mai stato in una masjid, non sapevo che cosa aspettarmi, ma rimasi vagamente sorpreso trovandola assolutamente priva di qualsiasi illuminazione e deserta, poiché non v'erano né fedeli né chiunque altro. La sola cosa che riuscii a scorgere nel buio interno fu una fila di immense giare di pietra, alte quasi quanto me e allineate verticalmente lungo la parete. I ragazzi mi condussero verso la giara all'estremità della fila e mi invitarono a entrarvi. Avevo già temuto lievemente - essendo solo contro tre seminudo e non nel pieno possesso delle mie facoltà - che i giovani sodomiti potessero voler abusare del mio corpo, ed ero pronto a battermi. Ma quanto mi proposero mi parve più esilarante che offensivo. Quando chiesi una spiegazione, continuarono semplicemente ad additare l'enorme giara, ed io avevo la mente troppo confusa per ribellarmi. Lasciai invece che i ragazzi mi sollevassero e mi mettessero a sedere sull'orlo della giara, poi infilai i piedi nell'apertura e mi calai in essa.
Soltanto quando fui all'interno mi resi conto che la giara conteneva un liquido; infatti non avevo udito alcuno scroscio né provato alcuna improvvisa sensazione di freddo o di bagnato. La giara era invece colma, perlomeno a mezzo, di olio, la cui temperatura si avvicinava a tal punto a quella del mio corpo che quasi non lo sentii finché, immergendomi in esso, non ne sollevai il livello fino alla gola. Era, in realtà, alquanto piacevole: emolliente, mi avvolgeva tutto, liscio e lenitivo, specie intorno alle mie stanche gambe e alle parti intime sensibilmente esposte. Il rendermene conto mi eccitò un poco. Era forse, questo, il singolare preludio di qualche strano ed esotico rito sessuale? Bene, fino a quel momento sembrava piacevole e così non protestai. Sporgevo soltanto con la testa dall'apertura della giara, e tenevo ancora le dita strette sull'orlo. I ragazzi, ridendo, mi spinsero dentro le mani insieme al resto di me, e poi sollevarono qualcosa che dovevano aver trovato lì accanto: un grosso disco di legno con cardini, alquanto simile a una gogna portatile. Prima che avessi potuto protestare o muovermi, me lo misero intorno al collo e lo chiusero. Il disco si tramutò nel coperchio della giara entro la quale mi trovavo e, sebbene non fosse scomodamente stretto intorno al collo, si era in qualche modo incastrato in modo così saldo nella giara che non mi riuscì di smuoverlo né di sollevarlo. «Che cos'è questa storia?» domandai, agitando le braccia entro la giara e spingendo invano all'insù contro il coperchio di legno. Potevo agitarmi e spingere soltanto adagio, come ci si muove a volte in un sogno, a causa della vischiosità di quell'olio tiepido. I miei sensi confusi percepirono infine l'odore di sesamo dell'olio. Come i fichi che mi avevano fatto mangiare prima, a quanto pareva ero stato messo a macerare nell'olio di sesamo. «Che cos'è questa storia?» urlai di nuovo. «Va istadam! Attendez!» mi imposero i ragazzi, facendomi capire a furia di gesti che dovevo restare, paziente, entro la giara e aspettare. «Aspettare?» sbraitai. «Aspettare che cosa?» «Attendez le sorcier» disse Naser, ridacchiando. Poi lui e Daud corsero fuori attraverso il grigio rettangolo che era la porta. «Aspettare lo stregone?» ripetei, interdetto. «Per quanto tempo?» Ibrahim indugiò quanto bastava per mostrarmi alcune delle sue dita da contare. Aguzzai lo sguardo nell'oscurità e vidi che stava agitando le dita di tutte e due le mani. «Dieci?» dissi. «Dieci cosa?» Ma anche lui indietreggiò verso la porta, chiudendo nel frattempo le mani a pugno e riaprendole di scatto quattro volte. «Quaranta?» dissi, in preda alla disperazione. «Quaranta cosa? Quaranta à propos de quoi?» «Chihil rus» rispose lui. «Quarante jours.» E scomparve fuori della porta. «Dovrei aspettare per quaranta "giorni"?» gemetti, ma non ottenni alcuna risposta. Tutti e tre i ragazzi se n'erano andati e, sembrava ovvio, non soltanto per nascondersi momentaneamente. Rimasi solo e sott'olio entro la giara, in quella buia stanza, con l'odore dell'olio di sesamo nel naso e il sapore schifoso del sesamo e dei fichi nella bocca e, per giunta, ancora un turbine di confusione nella mente. Mi sforzai di riflettere e di spiegarmi che cosa significasse tutto ciò. Aspettare lo stregone? Senza dubbio si trattava di una burla giovanile, qualcosa che aveva a che vedere con le costumanze arabe. Il proprietario della locanda, Ishaq, probabilmente me l'avrebbe spiegata, facendosi un mucchio di risate sulle mie credulità. Ma quale burla avrebbe potuto tenermi chiuso lì dentro per quaranta giorni? Avrei perduto la nave in partenza il giorno dopo e sarei rimasto abbandonato ad Acri, dando così tutto il tempo a Ishaq di spiegarmi le costumanze arabe. Oppure sarei svanito nelle grinfie dello stregone? La religione degli infedeli musulmani, diversamente da quella dei virtuosi cristiani, consentiva forse agli stregoni di esercitare le loro arti malefiche senza essere molestati? Cercai di immaginare che cosa avrebbe potuto farsene, lo stregone musulmano, di un cristiano imbottigliato. E sperai che non sarei mai venuto a saperlo. Sarebbero venuti a cercarmi, mio padre e mio zio, prima di partire? Mi avrebbero trovato prima dello stregone? Mi avrebbe trovato qualcun altro? Proprio in quel momento, qualcuno mi trovò. Una sagoma indistinta, più grossa di uno qualsiasi dei tre ragazzi, si profilò sulla soglia della porta grigiastra. Là si soffermò, quasi stesse aspettando che gli occhi si adattassero all'oscurità, poi venne adagio verso la giara. Era una sagoma alta e
massiccia... e minacciosa. Mi parve di contrarmi, o di raggrinzirmi, entro la giara, e mi augurai di poter tirar dentro la testa, sotto il coperchio. Quando l'uomo si fu avvicinato abbastanza, vidi che vestiva all'araba, ma senza il cordone per fermare il lembo del tessuto intorno al capo. Aveva una barba rosso-grigiastra e ricciuta che gli cresceva simile a funghi, e mi stava fissando con occhi vividi e neri come more. Quando pronunciò la tradizionale formula di saluto, la-pace-sia-con-te, mi accorsi, anche se in preda alla confusione, che l'aveva pronunciata in modo lievemente diverso da quello arabo: «Shalom aleichem.» «Siete lo stregone?» bisbigliai, atterrito a tal punto che lo dissi in veneziano. Mi schiarii la voce e ripetei la frase in francese. «Ho l'aria di uno stregone?» domandò lui, con una voce rauca. «No» bisbigliai, sebbene non avessi idea di quello che sarebbe potuto essere l'aspetto di uno stregone. Di nuovo mi schiarii la voce e dissi, alquanto esitante: «Sembrate piuttosto qualcuno che conoscevo. Qualcuno di Venezia.» «E tu» disse lui in tono di scherno «sembri andare in cerca di celle sempre e sempre più piccole.» «Come avete saputo che...» «Ho visto quei tre piccoli mamzarim costringerti a entrare qui dentro. Questo luogo è ben noto e malfamato.» «Volevo dire...» «E li ho veduti andarsene senza di te, soltanto loro tre. Non saresti stato il primo ragazzo dai capelli biondi e dagli occhi azzurri a entrare qui dentro e a non uscirne mai più.» «Senza dubbio non ce ne sono molti da queste parti che non abbiano i capelli e gli occhi neri.» «Precisamente. Tu sei una rarità, qui, e l'oracolo deve parlare per il tramite di una rarità.» Ero già abbastanza confuso. Credo che mi limitai a fissarlo battendo le palpebre. Egli si chinò, scomparendo dal mio campo visivo per un momento, e poi riapparve stringendo nella mano la borsa di cuoio che Naser doveva aver lasciato cadere andandosene. Frugò in essa e ne tolse un fico dal quale gocciolava olio. Vedendolo, per poco non vomitai. «Trovano un ragazzo così» egli disse. «Lo portano qui, lo immergono nell'olio di sesamo e lo nutrono soltanto con questi fichi imbevuti d'olio. Dopo quaranta giorni e quaranta notti, egli diviene macerato e molle come un fico. Talmente molle che la testa può essergli staccata facilmente dal corpo.» Ne diede la dimostrazione torcendo il fico tra le dita, per cui, con un suono risucchiante e appena udibile, esso si suddivise in due. «A quale scopo?» domandai, con il respiro corto. Mi sembrava di sentire il mio corpo rammollirsi sotto il coperchio di legno, diventare morbido come cera e malleabile quanto il fico, mentre il capo, già cascante, si preparava a separarsi dal collo con lo stesso suono risucchiante del fico, lasciando il resto affondare adagio e posarsi sul fondo della giara. «Voglio dire, perché uccidere una persona completamente estranea, e in questo modo?» «Non muore, o così dicono. E' una questione di negromanzia.» Lasciò cadere la borsa e i resti del fico e si pulì le dita sull'orlo della veste. «Perlomeno, la testa continua a vivere.» «Cosa?» «Lo stregone poggia la testa staccata dal corpo in quella nicchia laggiù, nella parete, su un comodo strato di cenere di legno d'ulivo. Brucia incenso dinanzi ad essa, intona parole magiche e, dopo qualche tempo, la testa parla. A un ordine dello stregone, predice carestie o messi abbondanti, guerre imminenti o periodi di pace; insomma fa ogni sorta di utili profezie di questo genere. E anche altre meno utili.» Cominciai a ridere, rendendomi conto, infine, che egli si stava limitando a prolungare scherzosamente il tiro giocatomi. «Benissimo» dissi tra una risata e l'altra. «Mi hai terrorizzato fino alla paralisi, vecchio compagno di cella. Non riesco più a trattenermi, sto pisciando e rovinando quest'ottimo olio. Ma ora basta. L'ultima volta che ti vidi, Mordecai, non sapevo che saresti fuggito così lontano da Venezia. In ogni modo, ti trovi qui e sono felice di rivederti, e tu ti sei divertito. Ora liberami e andremo a bere
insieme qahvah e a parlare delle nostre avventure dopo la separazione...» Egli non si mosse. Si limitò a restare dov'era e a fissarmi con un'aria afflitta. «Mordecai, basta!» «Io mi chiamo Levi» disse lui. «Povero figliolo, sei già stato stregato al punto da aver perduto il senno.» «Mordecai, Levi, chiunque voi siate!» infuriai, cominciando a sentirmi quasi in preda al panico. «Togliete questo maledetto coperchio e fatemi uscire!» «Io? Non toccherò di certo quell'impurità terephah» disse lui, facendo schizzinosamente un passo indietro. «Non sono un sudicio arabo. Sono un ebreo.» L'inquietudine, l'ira e l'esasperazione stavano cominciando a schiarirmi la mente, ma non mi indussero a dar prova di un po' di tatto. Dissi: «Siete venuto qui, allora, soltanto per intrattenermi nella prigionia? Intendete lasciarmi qui per gli stupidi arabi? Un ebreo è forse idiota e superstizioso quanto lo sono loro?» Lui grugnì: «Al tidàg» e se ne andò. Arrancò attraverso la stanza e uscì dalla grigia apertura della porta. Lo seguii con lo sguardo, atterrito. Al tidàg significava forse qualcosa come «va al diavolo»? Egli era probabilmente la mia unica speranza di salvezza e lo avevo insultato. Ma tornò indietro quasi immediatamente, reggendo una pesante sbarra di metallo. «Al tidàg» ripeté, e poi gli venne in mente di tradurre: «Non preoccuparti. Ti tirerò fuori, come sono stato invitato a fare, ma devo farlo senza toccare ciò che è impuro. Fortunatamente per te, sono un fabbro, e la mia fucina si trova proprio qui di fronte. Questa sbarra di ferro basterà. Reggiti saldamente in piedi, giovane Marco, in modo da non cadere quando la giara si romperà.» Vibrò la sbarra e, nel momento stesso in cui piombava contro la giara, balzò da un lato in modo che le sue vesti non dovessero essere profanate dalla conseguente cascata d'olio. La giara si frantumò con grande strepito ed io barcollai, in precario equilibrio, mentre i cocci e tutto l'olio mi si toglievano di dosso. Il coperchio di legno mi gravò all'improvviso, pesantemente, sul collo. Ma poiché adesso riuscivo ad arrivare con le mani sulla sua superficie superiore, trovai rapidamente, e liberai, i ganci che lo tenevano chiuso e lasciai cadere il grosso disco nella pozza d'olio man mano più larga ai miei piedi. «Non vi metterete nei guai per questo?» domandai, indicando il disastro tutto attorno a noi. Levi fece una spallucciata, agitò le mani e inarcò le sopracciglia simili a escrescenze di funghi, una reazione assai complessa. Continuai: «Mi avete chiamato per nome e avete detto qualcosa a proposito del fatto che vi era stato chiesto di tentare di salvarmi da questo pericolo.» «Non da questo pericolo in particolare» disse lui. «Mi è stato chiesto, semplicemente, di tentar di impedire che Marco Polo si cacciasse nei guai. V'erano anche alcune parole che ti descrivevano... dicevano che saresti potuto essere riconosciuto facilmente dalla tua vicinanza al primo guaio disponibile.» «Questo è interessante. Le parole di chi?» «Non ne ho idea. Presumo che tu abbia aiutato, una volta, qualche ebreo a togliersi da un impiccio. E il proverbio dice che la ricompensa di una mitzvà è un'altra mitzvà.» «Ah, come sospettavo: il vecchio Mordecai Cartafilo.» Levi disse, quasi stizzosamente: «Costui non può essere un ebreo. Mordecai è un nome dell'antica Babilonia. E Cartafilo è un cognome gentile.» «Disse di essere ebreo, ed ebreo sembrava essere, e queste erano le generalità che si attribuiva.» «Tra poco dirai anche che era un ebreo errante.» Interdetto, mormorai: «Be', mi disse che aveva viaggiato molto.» «Khakma» fece lui, con una voce aspra che mi indusse a ritenerla una parola di derisione. «Questa è una favola inventata dai bugiardi goyim. Non esiste un ebreo errante immortale. I lamed-vav sono mortali, ma ne esistono sempre trentasei che viaggiano segretamente e utilmente per il mondo.» Non ci tenevo affatto a indugiare in quel luogo oscuro mentre Levi parlava di favole. Dissi: «Siete un bel tipo, voi: schernire chi inventa favole, dopo la vostra ridicola storia di stregoni e di teste, separate dal corpo, che parlano.»
Mi rivolse un lungo sguardo e, cogitabondo, si lisciò la barba ricciuta. «Ridicola?» Mi porse la sbarra metallica. «Tieni. Non voglio mettere i piedi su quell'olio. Rompi la prima giara della fila.» Esitai per un momento. Anche se quel luogo era una comune casa di culto masjid, l'avevamo già considerevolmente profanato. Ma poi pensai: una giara, due giare, che importa? E vibrai la sbarra con tutta la forza di cui ero capace e la seconda giara si infranse crepitando e liberò, con uno scroscio, il proprio contenuto di olio di sesamo; ma anche qualcos'altro finì sul pavimento con un tonfo molle e bagnato. Mi chinai per vedere meglio e poi mi affrettai a indietreggiare e dissi a Levi: «Venite, andiamocene di qui.» Sulla soglia trovai, là ove me le ero tolte, le brache, e me le rimisi con gratitudine. Me ne infischiai, anche se si imbevvero all'istante dell'olio che aderiva al mio corpo; tutti gli altri miei indumenti erano già imbevuti d'olio e viscidi. Ringraziai Levi per avermi salvato e per le sue spiegazioni concernenti la stregoneria araba. Egli mi augurò «lechàim e bon voyage», poi mi ammonì a non far conto sull'intervento di un ebreo inesistente per essere tirato fuori in eterno da "ogni" guaio. Infine tornò alla sua fucina ed io mi affrettai a rientrare alla locanda, voltando ripetutamente la testa per accertarmi di non essere seguito dai tre ragazzi arabi o dallo stregone per conto del quale mi avevano catturato. Non credevo più che quell'avventura fosse stata un brutto scherzo, e non disprezzavo più la stregoneria considerandola una favola. Vedendomi infrangere la seconda giara, Levi non mi aveva domandato che cosa mi fossi chinato a scrutare tra i cocci, né io mi ero provato a dirglielo, e ancor oggi non so descriverlo con chiarezza. Il posto era molto buio, come ho detto. Ma la cosa finita sul pavimento, con quello sconvolgente «plop» bagnato, era un corpo umano. Quanto vidi e quanto posso riferire è che il cadavere era nudo, e di sesso maschile, non ancora del tutto sviluppato fino alla virilità. Inoltre giaceva lì in modo strano, come un sacco fatto di pelle, un sacco che fosse stato vuotato del suo contenuto. Sembrava, intendo dire, più che molliccio; sembrava floscio, come se, in qualche modo, tutte le ossa fossero state estratte, o si fossero disciolte. Un solo altro particolare riuscii a scorgere: che il cadavere non aveva la testa. Da quel giorno non sono più stato capace di mangiare fichi, o qualsiasi altro cibo insaporito con il sesamo.
5. Il pomeriggio dell'indomani, mio padre pagò il conto al proprietario della locanda, Ishaq, che prese il denaro dicendo: «Possa Allah coprirvi di doni fino a soffocarvi, Sceicco Folo, compensandovi di ogni vostro gesto generoso.» E zio Maffeo distribuì ai servi della khane spiccioli come mance, che in tutto l'Oriente vengono denominate con la parola farsi bakhshish. La mancia più generosa la diede al massaggiatore hammam che gli aveva fatto conoscere l'unguento mumum, e il giovane lo ringraziò con queste parole: «Possa Allah condurvi attraverso ogni pericolo e mantenervi sempre sorridente.» Poi tutti loro, Ishaq e i suoi servi, indugiarono sulla porta della locanda per salutarci con la mano e con molte altre grida: «Possa Allah rendere pianeggiante la strada dinanzi a voi!» «Possiate viaggiare come su un tappeto di seta!» e così via. La nostra spedizione si diresse, così, a nord, lungo la costa levantina, ed io mi congratulai con me stesso per essere uscito sano e salvo da Acri, e sperai che quella sarebbe stata la mia unica e ultima esperienza in fatto di stregoneria. Quel breve viaggio per mare non fu in alcun modo memorabile, in quanto restammo sempre in vista della costa, che è ovunque sempre uguale: dune bruno-rossastre, con alture bruno-rossastre sullo sfondo e qualche rara capanna di fango o qualche raro villaggio di capanne di fango, sempre dello stesso colore e quasi invisibili contro il paesaggio. Le città dinanzi alle quali passammo risaltavano un po' di più, essendo ognuna di esse caratterizzata da un castello dei Crociati. La più vistosa, veduta dal mare, fu la città di Beirut, in quanto vasta e situata su un promontorio, ma, come città, mi parve inferiore persino ad Acri.
Mio padre e mio zio impiegarono il tempo a bordo preparando elenchi dell'equipaggiamento e dei viveri che avrebbero dovuto procurarsi a Suvediye. Io lo trascorsi soprattutto chiacchierando con gli uomini dell'equipaggio; sebbene fossero nella maggioranza inglesi, parlavano naturalmente il sabir dei viaggiatori e dei mercanti. I Frati Guglielmo e Niccolò non facevano che conversare tra loro, commentando a non finire le iniquità di Acri e dicendo quanto erano grati al buon Dio per avere consentito loro di andarsene da quella città. Sembravano soprattutto esercitati, per quanto concerneva le loro lagnanze nei confronti di Acri, nel commentare il comportamento lascivo e licenzioso delle clarisse e delle carmelitane. Ma, stando a quanto udii di tali lamentele, sembravano essere più i mariti cornificati o i corteggiatori respinti delle monache che i loro fratelli in Cristo. Per non sembrare irrispettoso nei confronti di una nobile vocazione, non dirò altro a proposito dell'impressione che mi fecero i due frati. E, del resto, essi abbandonarono la nostra spedizione prima che giungessimo più in là di Suvediye. Questa città risultò essere misera e piccola. A giudicare dalle rovine e dai ruderi di una città più vasta che si vedevano tutto attorno ad essa, Suvediye doveva essere decaduta a poco a poco rispetto alla grandiosità che poteva aver vantato ai tempi dei romani, o forse ancor prima, quando vi era giunto Alessandro. Non fu difficile rendersi conto del motivo di questo tracollo. La nostra nave, che era grande, dovette gettare l'àncora molto al largo nella piccola baia, e si rese necessario portare a terra con una barca a remi noi passeggeri, essendo il porto ostruito dalla sabbia e dai depositi di limo del fiume Oronte. Non so se il porto di Suvediye sia attivo ancor oggi, ma ovviamente, allora, sembrava non poterlo essere ancora per molti anni. Nonostante la piccolezza e le misere prospettive della città, gli abitanti armeni di Suvediye sembravano considerarla pari a Venezia o a Bruges. Sebbene al nostro arrivo si trovasse lì una sola altra nave all'àncora, le autorità portuali si comportarono come se il porto fosse ingombro di vascelli, i quali richiedessero tutti la più scrupolosa attenzione. Un ispettore armeno grasso e unto salì indaffarato a bordo, le braccia cariche di documenti, mentre noi cinque passeggeri stavamo per sbarcare. Volle a tutti i costi contare noi - eravamo cinque! - e tutti i nostri bagagli, e annotò le cifre in un registro. Poi ci lasciò andare e cominciò a importunare il capitano, un inglese, per avere i dati con i quali riempire innumerevoli altri manifesti: il carico, la provenienza e la destinazione della nave e così via. Non esisteva un castello dei Crociati, a Suvediye, e così noi cinque - aprendoci un varco tra la ressa dei mendicanti - ci recammo direttamente al palazzo dell'Ostikhan, o governatore, per consegnargli la lettera del Principe Edward. Definisco caritatevolmente palazzo la residenza dell'Ostikhan; in realtà, si trattava di un edificio alquanto malconcio, ma era rispettabile per le dimensioni e per i suoi due piani di altezza. Dopo che numerose sentinelle e innumerevoli incaricati di ricevere gli ospiti e altrettanto innumerevoli piccoli funzionari ebbero in vari modi dimostrato la loro importanza, ognuno di loro facendoci perdere tempo con ostentazioni di zelo ufficiale, venimmo finalmente introdotti nella sala del trono. Sempre caritatevolmente la definisco sala del trono, poiché l'Ostikhan non sedeva affatto su un trono imponente ma se ne stava adagiato su quello che ha nome diwan e che è soltanto un mucchio di cuscini. Nonostante la calura della giornata, egli continuava a sfregarsi le mani sopra un braciere nel quale ardeva carbone e che era situato davanti a lui. In un angolo, un giovane sedeva sul pavimento, servendosi di un grosso coltello per tagliarsi le unghie dei piedi. Quelle unghie dovevano essere straordinariamente dure; ognuna di esse emetteva un forte schiocco quando veniva recisa e poi saltava via e finiva in qualche punto della stanza con un «clic» percettibile. L'Ostikhan si chiamava Hampig Bagratunian, ma il nome era la sola cosa mirabile di lui. Si trattava di un uomo piccoletto e raggrinzito e, come tutti gli Armeni, non possedeva la nuca. Aveva la testa piatta, in quel punto, come se fosse stata fatta per essere appesa a una parete. Non aveva affatto l'aria di un governatore, ed era burocratico quanto i suoi dipendenti in fatto di pignoleria e di irritazione espressa facendo schioccare la lingua. Diversamente dagli Arabi e dagli Ebrei, che ubbidiscono alle ingiunzioni della loro religione, di intrattenere con cortesia gli stranieri, l'armeno cristiano ci accolse con non mascherata irritazione.
Dopo aver letto la lettera disse, in sabir: «Soltanto perché sono anch'io un monarca» - gonfiando con noncuranza il proprio rango fino alla regalità - «ogni altro principe sembra persuaso di potersi liberare di un fastidio rifilandolo a me.» Educatamente, noi tacemmo. L'unghia di un alluce schioccò, sibilò in aria e ticchettò. L'Ostikhan Hampig continuò: «Voi giungete qui proprio alla vigilia delle nozze di mio figlio» - e indicò il giovane intento a tagliarsi le unghie - «quando ho innumerevoli altre cose di cui occuparmi, e ospiti che giungono da ogni parte del Levante, cercando di non farsi massacrare dai Mammalucchi durante il viaggio, e tutti i festeggiamenti da organizzare, e...» Continuò elencando tutte le seccature alle quali il nostro arrivo ne aveva aggiunto un'altra. Suo figlio recise un'ultima, clamorosa unghia del piede, poi alzò gli occhi e disse: «Aspetta, padre.» L'Ostikhan, interrotto nella sua elencazione, disse: «Sì, Kagig?» Kagig si alzò da dove sedeva, ma non proprio in piedi. Cominciò invece ad aggirarsi per la stanza piegato in due, come per offrirci una chiara visione della sua nuca piatta. Raccattò qualcosa ed io mi resi conto che, chissà per quale motivo, stava ricuperando i pezzettini delle unghie tagliate. Mentre si dava da fare, disse, voltando la testa verso l'Ostikhan: «Questi stranieri hanno portato con loro due uomini di chiesa.» «Sì, infatti» riconobbe suo padre, spazientito. «E con questo?» Una delle falci di unghia era finita accanto al mio piede; la presi e la diedi a Kagig. Egli mi ringraziò con un cenno e, persuaso a quanto parve di averle ricuperate tutte, sedette accanto al padre sul diwan e spazzò via dal palmo della mano, nel braciere, le unghie tagliate. «Ecco» disse. «Ora nessuno stregone potrà più servirsene per fare incantesimi contro di me.» Le unghie sembravano ancora decise a non perire silenziosamente; sfrigolavano e scoppiettavano tra i carboni ardenti. «Che cosa volevi dirmi a proposito degli ecclesiastici, ragazzo mio?» tornò a domandare Hampig, accarezzando paternamente la testa senza nuca del figlio. «Be', abbiamo il vecchio Dimirjian per celebrare la Messa nuziale» disse languidamente Kagig. «Ma qualsiasi volgare contadino viene sposato da "un" prete. Se io ne avessi tre...» «Hm» fece suo padre, volgendo lo sguardo verso i Fratelli Niccolò e Guglielmo; i due lo fissarono altezzosamente. «Sì, questo renderebbe più fastosa la cerimonia.» Rivolto a mio padre e a zio Maffeo, l'Ostikhan soggiunse: «Potreste non essere sgraditi, tutto sommato. Sono, quegli uomini di chiesa, autorizzati a unire in matrimonio?» «Sì, Eccellenza» rispose mio padre. «Sono frati predicatori.» «Potrebbero servire Messa come accoliti suffraganei del Metropolita Dimirjian. E dovrebbero sentirsi onorati di partecipare. Mio figlio sposa una pshi - una principessa - degli Adighei. Quelli che voi chiamate Circassi.» «Un popolo famoso per la sua bellezza» disse zio Maffeo. «Ma... cristiano?» «La fidanzata di mio figlio è stata istruita dallo stesso Metropolita Dimirjian, che l'ha cresimata e le ha fatto fare la prima comunione. La principessa Seosseres è adesso cristiana.» «E' una bellissima cristiana, invero» disse Kagig, facendo schioccare le labbra color fegato. «La gente si ferma quando la vede - anche i Musulmani e gli altri infedeli - e china il capo e ringrazia il Creatore per averla creata.» «Ebbene?» ci disse Hampig. «Le nozze saranno celebrate proprio domani.» Mio padre rispose: «Sono certo che i frati si sentiranno onorati di partecipare. Vostra Eccellenza non deve che chiedermelo, e a mia volta io li inviterò a servirvi.» I due frati parvero alquanto risentiti per non essere stati consultati personalmente durante la conversazione, ma non sollevarono obiezioni di sorta. «Bene» disse l'Ostikhan. «Avremo tre ecclesiastici alle nozze, e due di essi forestieri giunti da lontano. Sì, questo farà colpo sui miei ospiti e sui miei sudditi. A tale condizione, allora, messieurs, voi...»
«Rimarremo qui a Suvediye per le nozze regali» disse zio Maffeo, aggiungendo con disinvoltura l'aggettivo. «Naturalmente, desideriamo riprendere il viaggio subito dopo. E pertanto, naturalmente, Vostra Eccellenza ci aiuterà nel frattempo a procurarci cavalcature e provviste.» «Ehm... sì... certo» disse Hampig, e parve innervosito perché, a sua volta, gli era stata posta una condizione. Fece tintinnare un campanello e uno dei piccoli funzionari entrò. «Questi è il cerimoniere del mio palazzo, messieurs. Arpad, mostrerai a questi gentiluomini i loro alloggi qui nel palazzo, poi presenterai i frati al Metropolita, quindi accompagnerai i gentiluomini al mercato e li aiuterai in tutti i modi che riterranno necessari». Quindi tornò a voltarsi verso di noi: «Benissimo, allora. Vi do il benvenuto a Suvediye, messieurs, e vi invito ufficialmente alle nozze regali e a tutti i successivi festeggiamenti.» Così Arpad ci condusse in due camere al primo piano, una per noi e una per i frati. Non appena tolto dai bagagli quel tanto che sarebbe stato sufficiente per un breve soggiorno scendemmo di nuovo al pianterreno e affidammo i frati al Metropolita Dimirjian. Era, costui, un uomo robusto e anziano, la cui assenza di nuca sembrava meno cospicua di quello che si poteva vedere al lato opposto: un naso massiccio, una grossa mascella sporgente, sopracciglia eccessivamente inarcate e orecchie lunghe e carnose. Quando egli condusse via i frati per provare il rito dell'indomani, mio padre, mio zio ed io ci recammo con il cerimoniere Arpad nella piazza del mercato di Suvediye. «Tanto vale che vi abituiate a chiamarlo bazar» egli disse, volonteroso. «Questo è il termine "farsi" impiegato da qui al lontano Oriente. Farete acquisti in un momento favorevole, poiché le nozze hanno attratto venditori da ogni luogo, ed espongono ogni mercanzia immaginabile, per cui avrete ampie possibilità di scelta. Ma vi esorto a consentirmi di aiutarvi nelle trattative. Dio sa se i mercanti arabi sono imbroglioni e truffatori, ma gli Armeni riescono ad essere talmente più disonesti che soltanto altri Armeni osano contrattare con essi. Gli Arabi si limiterebbero a spogliarvi nudi a furia di frodare. Gli Armeni vi scorticherebbero vivi.» «Ci occorrono soprattutto bestie da sella e da soma» disse zio Maffeo. «Che possano portare noi e quanto acquisteremo.» «Vi suggerisco cavalli» disse Arpad. «In seguito potrete volerli scambiare con cammelli, quando dovrete attraversare vasti deserti. Ma, per il momento, poiché la vostra prossima meta è Bagdad, e non si tratta di tappe difficili, i cavalli saranno più veloci e assai più mansueti dei cammelli. I muli andrebbero ancor meglio, ma dubito che vogliate spendere quel che vi costerebbero.» In gran parte dell'Oriente, come nell'Europa civilizzata, il mulo, essendo così mansueto, e docile e intelligente è la montatura preferita dai gentiluomini e dalle dame di alto rango - vale a dire dalle persone ricchissime - per cui gli allevatori di muli chiedono, senza arrossire, somme esorbitanti per le loro bestie. Il babbo e lo zio riconobbero che non intendevano sborsare simili prezzi e che i cavalli sarebbero andati bene per noi. Così, andammo a vedere i vari recinti delimitati con corde che si trovavano tutto attorno al bazar e ove era possibile acquistare ogni sorta di animali da sella e da soma: muli, somari, cavalli di ogni razza, dagli squisiti purosangue arabi ai più vigorosi cavalli da tiro, e inoltre cammelli e i loro cugini, gli snelli e veloci dromedari. Dopo avere esaminato molti cavalli, mio padre, zio Maffeo e il cerimoniere ne scelsero cinque, due castrati e tre giumente, di bell'aspetto e di robusta conformazione, non così massicci come quelli da tiro, ma nemmeno lontanamente eleganti come gli arabi dalla sottile ossatura. Acquistare cinque cavalli significò sobbarcarsi a cinque diverse trattative. E così, lì nel bazar di Suvediye, per la prima volta, assistetti a una procedura della quale dovevo in ultimo stancarmi, dopo essere stato costretto a sopportarla in ogni bazar dell'Oriente. Mi riferisco alla curiosa maniera orientale di arrivare a un acquisto. Anche se quella volta fu il cerimoniere Arpad a trattare, cortesemente, in vece nostra, la faccenda si protrasse a lungo e fu tediosa. Arpad e il mercante di cavalli si tesero la mano, lasciando che le lunghe maniche ricadessero sulle mani unite, così da renderle invisibile a chiunque guardasse - e in ogni bazar vi sono sempre innumerevoli curiosi i quali non hanno niente di meglio da fare che osservare le trattative altrui. Poi, sia Arpad, sia il mercante, agitarono le dita nascoste e tamburellarono con esse sulla mano dell'altro,
il mercante segnalando il prezzo che chiedeva e Arpad quello che offriva. Sebbene abbia imparato i segnali e li rammenti bene, non starò a descriverli qui con tutte le loro complicazioni. Basterà dire che un uomo dapprima tamburella per indicare o singole unità oppure decine o centinaia; ad esempio, battendo il dito tre volte di seguito indica sia tre, sia trenta, sia trecento. E così via. Questo sistema consente anche la segnazione delle frazioni, e persino dei diversi valori, quando acquirenti e mercanti devono contrattare con valute diverse, per esempio dinari e ducati. A furia di tamburellare, il mercante di cavalli ridusse a poco a poco il prezzo richiesto, e il cerimoniere a poco a poco aumentò quello offerto. In questo modo pervennero a tutti i prezzi ragionevoli e a tutte le irragionevoli estorsioni concepibili. In oriente, i vari tipi di prezzo hanno un nome: il grande prezzo, il piccolo prezzo, il prezzo di città, il prezzo meraviglioso, il prezzo fisso, il buon prezzo... e una infinità di altri prezzi ancora. Quando i due pervennero a un accordo reciprocamente accettabile per quanto concerneva il primo cavallo, dovettero ricominciare per ognuno degli altri quattro, e in ciascun caso il cerimoniere dovette consultarsi di tanto in tanto con noi, per non eccedere nei poteri delegatigli e per non superare le capacità della nostra borsa. Ognuna di queste trattative avrebbe potuto senz'altro svolgersi apertamente, parlando, ma questo non avviene mai, poiché la segretezza del sistema mani-coperte-dalle-maniche conviene sia all'acquirente, sia al venditore; nessun altro, infatti, viene mai a sapere qual è il prezzo richiesto inizialmente, e quale quello definitivo dell'acquisto. In questo modo, l'acquirente può talora indurre il mercante a scendere ad una cifra che egli si vergognerebbe di dire a voce alta; tuttavia può in ultimo indursi a vendere a quel prezzo, sapendo che ogni eventuale altro acquirente non lo saprà mai e non potrà approfittarne. Oppure un acquirente tanto desideroso di fare un acquisto da essere disposto a non tirare troppo sul prezzo, può pagare sapendo che non sarà deriso dai presenti come uno stupido spendaccione. Le nostre cinque trattative non terminarono finché il sole non fu quasi tramontato, e così, quel giorno, non ci rimase più tempo a sufficienza per acquistare le selle e tanto meno tutte le altre mercanzie che figuravano nei nostri elenchi. Dovemmo tornare al palazzo per recarci nell'hammam e pulirci a fondo prima di indossare i nostri abiti migliori per il pasto serale. Si sarebbe trattato infatti di un banchetto, ci aveva detto Arpad, il tradizionale festeggiamento riservato soltanto agli uomini, prima di un matrimonio. Mentre venivamo strofinati e massaggiati nell'hammam, mio padre disse in tono alquanto ansioso a zio Maffeo: «Maffeo, dobbiamo offrire un qualche dono di nozze all'Ostikhan per suo figlio o per la sposa, se non un dono per entrambi. Non so davvero che cosa potrebbe essere opportuno. E, quel che è peggio, non so che cosa possiamo permetterci. L'acquisto di quelle cavalcature ha messo a dura prova le nostre disponibilità, e rimangono ancora molte altre cose da acquistare.» «Non temere, ci avevo già pensato» disse lo zio, nel suo solito tono fiducioso. «Ho dato un'occhiata in cucina, ove stanno preparando il banchetto. Per colorare e condire i cibi, i cuochi si stanno servendo di quello che, stando a quanto mi hanno detto, sarebbe zafferano. Be', l'ho assaggiato e riesci a immaginarlo? - non è altro che volgare càrtamo, lo zafferano bastardo. Di quello vero non ne hanno nemmeno un briciolo. Pertanto doneremo all'Ostikhan una forma del nostro zafferano dorato; dovrebbe fargli più piacere dei gingilli d'oro che doneranno gli altri.» Il palazzo, sebbene fosse decrepito, vantava una sala da pranzo lodevolmente vasta, e quella sera risultò indispensabile, poiché i soli ospiti maschili dell'Ostikhan formavano una folla enorme. Erano, per la massima parte, Armeni e Arabi - e i primi includevano la famiglia «reale» di Bagratunian e i suoi parenti, dai più prossimi ai più remoti; i funzionari del palazzo e del governo; coloro che supposi passassero per la nobiltà di Suvediye, e inoltre legioni di visitatori provenienti dall'Armenia Minore e dal resto del Levante. Gli Arabi sembravano appartenere tutti alla tribù Avedi, e doveva essere una tribù immensa, dato che tutti i suoi appartenenti asserivano di essere sceicchi di rango più o meno elevato. Mio padre, mio zio, i due domenicani ed io non eravamo i soli forestieri. Era forestiera l'intera famiglia circassa della sposa essendo venuta al sud dalle montagne del Caucaso per quell'occasione. Potrei dire che si trattava - come d'altronde godono fama di esserlo tutti i Circassi - di persone straordinariamente belle, di gran lunga le più avvenenti nello stuolo di
quella sera. Il banchetto consistette, in realtà, di due pasti diversi, serviti contemporaneamente, e ogni pasto comprese innumerevoli portate. Quelle servite a noi e ai cristiani Armeni furono le più varie, perché non limitate da alcuna superstizione degli infedeli. Le portate poste dinanzi agli ospiti musulmani dovevano escludere i tanti cibi che il Corano vieta loro di mangiare - la carne di maiale, naturalmente, e i crostacei, e la carne appartenente a qualsiasi creatura che viva in una tana, si tratti di fori nel terreno, di fori negli alberi o di fori nel fango sotto l'acqua. Non prestai una particolare attenzione a ciò che veniva servito agli ospiti arabi, ma rammento che la portata principale per noi Cristiani fu una coscia di cammello giovane farcita con un'anatra a sua volta farcita con carne di porco tritata, pistacchi, uva passa, pinoli e spezie. V'erano inoltre melanzane ripiene e zucche ripiene e foglie di vite ripiene. Come bevande avemmo sorbetti fatti con "neve" ancora gelata, portata Dio solo sa dove, Dio solo sa con quali rapidi mezzi e Dio solo sa a quale costo. I sorbetti erano di sapori diversi - limone, rosa, mela cotogna, pesca - e tutti profumati con nardo e incenso. I dolci risultarono essere paste ricche di burro e di miele e quanto mai soffici, nonché una sorta di torrone chiamato halvàh, fatto di mandorle finemente tritate, e poi tartine al cedro, e piccoli pasticcini incredibilmente fatti di petali di rose e fiori d'arancio, e pasta di datteri con mandorle e chiodi di garofano. Non mancava, inoltre, il meraviglioso ed eccezionale qahvah. V'erano inoltre vini di molti colori diversi e altri liquori inebrianti. I Cristiani si ubriacarono ben presto con queste bevande e gli Arabi e i Circassi non rimasero indietro di molto. E' ben noto che il Corano vieta ai Musulmani di bere vino, ma non è altrettanto noto che i Musulmani osservano tale divieto "esattamente" alla lettera. Mi spiegherò meglio. Poiché il vino doveva essere la sola bevanda inebriante esistente al mondo ai tempi in cui il Profeta Maometto scrisse il Corano, egli non pensò a proibire ogni altra bevanda alcoolica che potesse essere stata inventata successivamente, o scoperta. Così, molti Musulmani, anche quelli più rigidamente religiosi sotto altri aspetti, si sentono liberi - specie in occasione di festeggiamenti - di bere qualsiasi liquore inebriante che non sia, come il vino, fatto con l'uva, e inoltre di masticare un'erba a cui essi attribuiscono molti nomi - hashish, banj, bhangh e ghanja - e che può alterare la mente. Poiché il banchetto di quella sera era bene annaffiato da bevande forti mai sognate dal Profeta - uno scintillante liquido color dell'urina, chiamato abijau, che viene ricavato dal frumento, e l'araq, che si ricava dai datteri, e un'altra bevanda detta medhu, che è un'essenza del miele, oltre a gommoso hashish da masticare - gli Arabi e i Circassi, tranne alcuni anziani santi uomini, divennero brilli e allegri e litigiosi e lagrimosi come tutti i Cristiani. Be', non proprio tutti i Cristiani; mio zio dimostrò di avere la mente notevolmente annebbiata e di essere alquanto propenso ai canti, ma mio padre ed io e i frati ci astenemmo dai liquori. V'era un gruppo di musicanti - o acrobati, sarebbe stato difficile dire quale delle due cose, poiché, "suonando" si esibivano nelle capriole, nelle acrobazie e nelle contorsioni più stupefacenti. I loro strumenti consistevano in una sorta di zampogne, in tamburi e in liuti dalla forma molto allungata, ed io avrei definito quella musica uno spaventoso gnaulìo se non mi fosse sembrato ammirevole il fatto che riuscissero a suonarla eseguendo salti mortali e camminando sulle mani e balzando gli uni sulle spalle degli altri. Gli invitati rimanevano in ginocchio, o accosciati o sdraiati sui cuscini del diwan, intorno alle tovaglie che rivestivano ogni centimetro quadrato del pavimento, eccezion fatta per gli stretti passaggi lungo i quali si muovevano i servi tenendosi, in un certo qual modo, rannicchiati su se stessi. Gli ospiti si alzarono, uno alla volta, o un gruppo dopo l'altro, per portare all'Ostikhan e a suo figlio, i quali sedevano su una pedana, un po' più in alto del resto della compagnia, i doni acquistati per l'occasione. Si inginocchiavano e chinavano il capo e sollevavano con entrambe le mani brocche e vassoi e piatti d'oro e d'argento, spille rilucenti di gemme e tiare e medaglioni finemente lavorati, oppure tessuti di seta ricamati in oro, nonché molti altri stupendi oggetti. Scoprii, quella notte, che, nei paesi dell'Oriente, chi riceve un dono deve dare in cambio non soltanto ringraziamenti bensì, a sua volta, un dono per lo meno altrettanto ricco. In seguito, dovevo vedere ripetersi innumerevoli volte questo scambio di doni e constatare, non poche volte, come il
donatore si allontanasse con qualcosa di incalcolabilmente più prezioso di ciò che aveva donato. Ma quella notte tale consuetudine, più che colpirmi mi divertì. Infatti, l'Ostikhan Hampig, che aveva l'anima di un contabile, si atteneva alla costumanza semplicemente dando a ogni nuovo donatore un qualche oggetto scelto tra il mucchio di preziosi regali offertigli dai donatori precedenti. Tutto ciò equivaleva, in pratica, a un rapido rimescolamento dei regali, per cui gli invitati tornavano a casa con gli stessi doni che avevano portato, ma ognuno con il dono fatto da qualcun altro. Hampig si discostò una sola volta da questo sistema, quando venne la nostra volta di alzarci e avvicinarci alla pedana. Come zio Maffeo aveva previsto, l'Ostikhan fu talmente felice di ricevere da noi la forma di zafràn che invitò il figlio Kagig ad alzarsi e a correre a prendere qualcosa di straordinario da darci in cambio. Kagig tornò con tre oggetti che parvero alquanto comuni. Sembrava trattarsi, semplicemente, di tre piccole borse di cuoio. Ma quando Hampig le consegnò con reverenza a mio padre, constatammo che si trattava di scroti di cervi muschiati, pieni zeppi di preziosi granelli di muschio ricavati da quei cervi. I tre scroti di cervo erano muniti di lunghe striscioline di cuoio, per una ragione che ci venne spiegata da Hampig: «Se conoscete il valore di questi scroti, messieurs, li legherete dietro i vostri stessi testicoli e li porterete là, affinché rimangano nascosti e al sicuro durante il viaggio.» Mio padre ringraziò sinceramente per il dono e zio Maffeo pronunciò un discorso di gratitudine, ebbro e stomachevolmente adulatore, che sarebbe potuto continuare all'infinito se non gli fosse venuto un accesso di tosse. Io non mi resi conto di quanto fosse realmente prezioso quel dono, e quanto atipico da parte di Hampig con la sua mentalità da contabile, finché il babbo non mi spiegò, in seguito, che il valore dei tre scroti colmi di muschio equivaleva senz'altro a quanto avevamo speso quel giorno nel bazar. Quando ci inchinammo per l'ultima volta all'Ostikhan e ci allontanammo dalla pedana, suo figlio ci seguì barcollando, per unirsi a noi davanti alla nostra tovaglia. Quest'ultima era, naturalmente, molto lontana dalla pedana d'onore e si trovava tra alcuni barbari che sembravano essere ospiti di scarsa importanza, forse parenti venuti da qualche paese povero. Kagig, che era ormai ubriaco come tutti gli altri nella sala, ci disse di voler sedere accanto a noi per qualche tempo perché la sua imminente sposa aveva sembianze più simili alle nostre che a quelle di tutti gli altri lì presenti. Essendo circassa, Seosseres aveva la pelle chiara, soggiunse, i capelli castani e fattezze di una bellezza incomparabile. Continuò a dilungarsi a non finire sulla bellezza di lei («E' più bella della luna!») e sulla sua dolcezza («E' più dolce del vento dell'ovest!») e sulla sua soavità («E più soave della fragranza di una rosa!») nonché sulle varie altre virtù di lei: «Ha ormai quattordici anni, che può essere un'età un po' troppo matura per il matrimonio, ma è tanto vergine e non perforata quanto una perla che ancora non fa parte di una collana. E' istruita e sa parlare, e bene, di numerosi argomenti dei quali persino io non so niente. Filosofia e logica, i canoni del grande medico Ibn-Sina, le poesie di Majnun e di Laila, la matematica denominata geometria e Al-jebr...» Noi ascoltatori, ritengo, dubitavamo a buon diritto che la Pshi Seosseres potesse essere così sublime. Se lo fosse stata, come sarebbe potuta essere disposta a sposare un ignorante Armeno dalle labbra color del fegato e senza nuca, deciso inoltre a impedire che le sue unghie tagliate cadessero nelle mani di qualche stregone? Penso altresì che quei dubbi trasparissero sulle nostre facce e che Kagig dovette accorgersene poiché in ultimo egli si alzò, barcollò fuori della sala e salì al piano di sopra per andare a prendere la principessa nella stanza ove si trovava rinchiusa. Allorché la trascinò giù, tenendola per un polso, ella cercava, verginalmente, di opporre resistenza, ma al contempo si sforzava di non essere troppo ribelle, in modo disdicevole per una moglie. Kagig la condusse nella sala, la lasciò in piedi di fronte alla compagnia e strappò via il chador che le copriva il viso. Se gli invitati non fossero stati tutti alle prese con le vivande poste dinanzi ad essi e se, per la maggior parte, non avessero già bevuto fino all'ubriachezza, qualcuno di loro avrebbe impedito probabilmente a Kagig quel gesto tanto zotico. L'ingresso della fanciulla così costretta causò senz'altro mormorii nella sala, più forti e più irosi da parte dei parenti di lei. Numerosi sant'uomini Musulmani si coprirono il volto e non pochi Cristiani molto avanti negli anni girarono la testa
dall'altra parte. Ma tutti gli altri, noi compresi, pur deplorando il comportamento villano di Kagig, trovarono piacevole il risultato del suo gesto. La Pshi Seosseres, infatti, era davvero una splendida rappresentante del proprio popolo, famoso per la sua bellezza. Aveva i capelli lunghi e ondulati, un corpo talmente superbo da mozzare il fiato, un viso così bello che il leggero trucco dell'al-kohl intorno agli occhi e del rosso succo di bacche sulle labbra era ovviamente del tutto superfluo. L'imbarazzo soffondeva di rosa la pelle chiara della fanciulla ed ella soltanto fuggevolmente ci consentì di vederle gli occhi castani-qahwah prima di chinarsi e di tenerli bassi. Ciò nonostante potemmo contemplarne la fronte immacolata, le lunghe ciglia, il naso perfetto, la bocca seducente e il mento delicato. Kagig la tenne lì in piedi per almeno un intero minuto, mentre faceva inchini buffoneschi e gesti di presentazione. Poi, non appena le lasciò andare il polso, ella fuggì dalla sala e scomparve alla nostra vista. Gli Armeni, si dice, erano un tempo uomini forti e prodi, capaci di impavide imprese in guerra. Ma, nei nostri tempi, non sono ormai più che miseri simulacri di uomini, buoni a niente se non a bere e a cicalare nei bazar. Così avevo sentito dire, e così dimostrò il figlio dell'Ostikhan. E non mi riferisco all'aver egli esibito la futura sposa agli uomini partecipanti al banchetto; mi riferisco a quanto accadde inseguito. Non appena Seosseres se ne fu andata, Kagig si accosciò di nuovo davanti alla nostra tovaglia, tra me e mio padre, si guardò attorno con un sorriso vanesio e domandò, a chiunque potesse udirlo: «Che cosa ve ne pare di lei, eh?» I parenti della fanciulla, seduti lì attorno, risposero soltanto con occhiate bieche; altri uomini vicino a noi si limitarono a mormorare rispettose parole di lode. Kagig si pavoneggiò come se avessero lodato lui e si accinse a diventare ancor più ubriaco e ancor più abietto. I suoi incessanti elogi alla Principessa cominciarono a concernere non tanto la bellezza del viso di lei quanto il fascino esercitato da alcune altre sue parti; i sorrisi si tramutarono in lascivi sogghigni e le labbra tumide e color del fegato sbavarono. Di lì a non molto egli era talmente inebetito dal vino e dalla lussuria che mormorò: «Perché dovrei aspettare che il vecchio Dimirjian gracidi parole davanti a noi? Sono suo marito in tutto e per tutto ormai tranne che nominalmente. Stanotte, domani notte, che differenza fa...?» E, all'improvviso, si districò dai cuscini, di nuovo uscì barcollante dalla sala e pesantemente e rumorosamente salì di sopra. Come ho detto, il palazzo non era costruito in modo molto solido. Pertanto, chiunque nella sala si diede la pena di rimanere in ascolto - come me - poté udire quello che accadde dopo. Ciò nonostante, nessuno degli altri invitati, nemmeno l'Ostikhan, o i Circassi, che sarebbero dovuti essere i più interessati, parve notare la brusca uscita di Kagig o i suoni successivi. Io mi accorsi di tutto, come mio padre, che non era brillo, e i due frati. Ascoltando attentamente, udii tonfi lontani e gridolini e ordini confusi e deboli proteste; poi alcuni altri tonfi che, in ultimo, si tramutarono in un ritmo regolare e insistente. Mio padre e i frati si alzarono, altrettanto feci io, tra tutti aiutammo lo zio Maffeo ad alzarsi a sua volta, poi salutammo il nostro anfitrione Hampig - che era ubriaco e del tutto indifferente alla nostra presenza o alla nostra assenza - e tornammo nelle camere assegnateci. Trascorremmo la mattinata dell'indomani di nuovo nel bazar, di nuovo accompagnati dal cerimoniere Arpad. Fu eroico da parte sua continuare ad aiutarci, poiché ovviamente soffriva a causa delle libagioni del giorno prima. Ma, nonostante l'emicrania, si dimostrò abile contrattando per noi - mano sotto la manica - in una nuova e tediosa serie di interminabili trattative. Acquistammo selle e gerle per selle e finimenti e coperte e facemmo consegnare tutto ciò, insieme ai cavalli, dai garzoni del bazar alle scuderie del palazzo, così da essere pronti a ripartire. Acquistammo otri di cuoio per l'acqua, molti sacelli di frutta secca e di uva passa, nonché grosse forme di formaggio di capra protette da spessi strati di cera affinché non si guastassero. Consigliati da Arpad, acquistammo inoltre un aggeggio chiamato kamàl. Non era altro che un rettangolo grande quanto un palmo, fatto di strisce di legno, simile a una piccola e vuota cornice per ritratti, dal quale pendeva una cordicella. «Ogni viaggiatore» disse Arpad «può stabilire, orientandosi sul sole e sulle stelle, le direzioni del nord, dell'est, dell'ovest e del sud. Voi andrete a est e potrete valutare il tratto percorso ogni giorno
in base all'andatura della marcia. Ciò nonostante, sarà talora difficile stabilire quanto a nord, a sud o a est avrete deviato, e questo è ciò che il kamàl può dirvi.» Vi furono, da parte di mio padre e di mio zio, esclamazioni di stupore e di interesse. Arpad si prese con tenerezza il capo tra le mani, poiché, evidentemente, gli doleva quando venivano emessi suoni. «Gli Arabi sono infedeli» disse «e indegni di rispetto e di ammirazione, ma hanno inventato questo utile strumento. Prendete, ve ne servirete voi, giovane monsieur Marco, e io vi insegnerò come fare. Stanotte, quando spunteranno le stelle, voltatevi verso nord e tenete il kamàl lontano da voi con il braccio teso. Avvicinatelo al volto e allontanatelo finché l'orlo inferiore della cornice coinciderà con l'orizzonte a nord e la stella Polare verrà a trovarsi subito sopra l'orlo superiore. Fate allora un nodo nella cordicella in modo che, tenendo il nodo stesso tra i denti, la cordicella abbia una lunghezza tale da consentirvi di tenere sempre il rettangolo alla stessa distanza di prima dagli occhi.» «Benissimo, cerimoniere Arpad» dissi io, remissivo. «E poi?» «Viaggiando da qui verso est, il terreno è quasi sempre pianeggiante, per cui avrete invariabilmente un orizzonte più o meno piano. Ogni notte tenete il kamàl con la cordicella tesa partendo dal nodo, con l'orlo inferiore del rettangolo coincidente con l'orizzonte nord. Se la stella Polare si troverà sempre subito sopra l'orlo superiore, sarete direttamente a est di Suvediye. Ma se la stella sarà percettibilmente più in alto dell'orlo, avrete deviato a nord. E se la stella verrà a trovarsi sotto l'orlo, avrete deviato a sud.» «Cazza beta!» esclamò ammirato zio Maffeo. «Il kamàl può fare anche di più» continuò il cerimoniere. «Legate una targhettina con il nome Suvediye a quel primo nodo che avrete fatto, giovane Marco. Poi, quando arriverete a Bagdad, regolate di nuovo la distanza del rettangolo dal vostro volto, in modo che la parte superiore venga come prima a trovarsi esattamente tra l'orizzonte nord e la stella Polare, fate un altro nodo nella cordicella a tale distanza e segnatelo con il nome di Bagdad. Se continuerete a regolarvi in questo modo, facendo un nuovo nodo e segnandolo ad ogni meta che raggiungerete, saprete sempre andando verso est - se vi trovate a nord o a sud dell'ultima sosta, o di una qualsiasi delle vostre soste precedenti.» Ritenendo che il kamàl fosse un'aggiunta quanto mai utile al nostro equipaggiamento, lo acquistammo volentieri - dopo che Arpad e il mercante avevano contrattato a lungo, fissandone il prezzo a un numero ridicolmente esiguo di shahi di rame. Comprammo numerosi altri oggetti ancora che ritenevamo necessari durante il viaggio. Poi, grazie al muschio dell'Ostikhan, che aveva reso di nuovo pingui le nostre borse, ci permettemmo anche alcuni piccoli lussi dei quali avremmo fatto altrimenti a meno. Soltanto nel pomeriggio rivedemmo alcuni di coloro che avevano preso parte al banchetto della sera prima. Questo accadde quando ci riunimmo nella chiesa di San Gregorio, a Suvediye, per la Messa nuziale. A giudicare dalle facce tirate dei fedeli, e dai gemiti sommessi che si udivano di quando in quando, quasi tutti gli uomini continuavano a sentire, come Arpad, le conseguenze dei loro eccessi. Lo sposo sembrava star peggio di tutti gli altri. Avrei potuto aspettarmi di scorgere sulla sua faccia un'aria soddisfatta, o compiaciuta o colpevole, ma invece sembrava soltanto più goffo del solito. Quanto alla sposa, era così fittamente velata che non riuscii a scorgerne l'espressione, ma sia la bella madre di lei, sia tutte le sue altre parenti, guardavano attraverso gli spiragli del chador con occhi furenti all'estremo. La cerimonia si svolse senza incidenti, e i nostri due frati, quasi irriconoscibili nei paramenti sfarzosi della Chiesa armena, coadiuvarono abilmente il Metropolita. In seguito il corteo nuziale si diresse dalla chiesa nuovamente al palazzo, per un secondo banchetto. Questa volta, naturalmente, poterono prendervi parte anche tutte le donne - tranne le musulmane. Una volta di più vi furono diversivi: gli acrobati e la loro musica, poi prestigiatori e cantanti e danzatori. Quasi all'inizio del banchetto, le mani della coppia appena sposata - lui con un'aria afflitta e lei ancor più triste di quanto sarebbe potuta esserlo la compagna di un simile villano - vennero unite dal Metropolita, e dopo che quest'ultimo ebbe recitato una preghiera in armeno, i due salirono, adagio e di malavoglia,
le scale verso la stanza nuziale, seguiti da alcuni tiepidi e rozzi lazzi e dai vivaci applausi degli invitati. Questa volta lo strepito era tale nella sala - causato soprattutto dai musicanti e dai danzatori - che nemmeno le mie orecchie attente e curiose riuscirono a cogliere suoni nei quali si potesse riconoscere la consumazione del matrimonio. Ma, dopo qualche tempo, si udì una serie di forti tonfi e qualcosa di sospettosamente simile a uno strillo lontano, percettibile nonostante la musica. E all'improvviso, ecco entrare di nuovo Kagig, con gli abiti in disordine, come se, dopo esserseli tolti, li avesse indossati di nuovo in fretta e alla meglio. Discese rumorosamente e irosamente le scale ed entrò d'impeto nella sala. A gran passi si diresse verso la più vicina anfora di vino e bevve direttamente da essa. Io non ero stato il solo a vederlo entrare. Ma credo che gli altri invitati, sbalorditi nel constatare che il marito abbandonava la sposa durante la prima notte di nozze, avessero a tutta prima tentato di fingere che Kagig non si trovasse tra loro. Egli però cominciò a imprecare e a bestemmiare a gran voce - o tali parvero a me, a giudicare dal suono, le sue parole armene - e nessuno poté ignorarne la presenza. I Circassi ricominciarono a borbottare e l'Ostikhan Hampig gridò ansiosamente qualcosa come: «Che cosa non va, in nome del Cielo, Kagig?» «Che cosa non va!» esclamò il giovane - o così mi venne detto in seguito; egli era troppo sconvolto infatti, e riusciva a parlare soltanto l'armeno. «La mia sposa ha dimostrato di essere una bagascia, ecco che cosa non va!» Numerose persone protestarono e lo confutarono e i Circassi urlarono tutti insieme parole che significavano probabilmente «Bugiardo!» e «Come osi?» «Credevate forse che non me ne sarei accorto?» infuriò Kagig, sempre come mi venne detto in seguito. «Ha pianto durante l'intera cerimonia, dietro il velo, perché sapeva che cosa avrei scoperto di lì a poco! Ha pianto quando siamo entrati insieme nella nostra stanza, perché il momento della rivelazione era ormai vicino! Ha pianto mentre ci stavamo spogliando, perché si trovava ormai sull'orlo della rivelazione della sua perfidia! E ha pianto ancor più forte quando l'ho abbracciata. E poi, nel momento cruciale, "non ha gridato come gridano tutte!" Ho indagato, allora, e non ho potuto sentire alcuna verginità in lei, e non ho veduto alcuna macchia di sangue sul letto, e...» Uno dei parenti di Seosseres lo interruppe, urlando! «Oh, cane bastardo di un armeno, non "ricordi"?» «Ricordo che mi era stata promessa vergine! Né i tuoi urli né i suoi pianti possono modificare la realtà: che ella è stata posseduta da qualcun altro prima di me!» «Maledetto diffamatore! Verme!» urlarono i Circassi, con la bava alla bocca. «Nostra sorella Seosseres non ha mai avvicinato un uomo prima d'ora!» Stavano cercando tutti di lanciarsi su Kagig, ma venivano trattenuti da altri invitati. «Allora ha fatto l'amore con un finto fallo!» urlò selvaggiamente Kagig. «Con il picchetto di una tenda o con un cetriolo o con una di quelle sculture haramlik! Ma soltanto questi oggetti l'ameranno, da ora in avanti!» «Oh, putridume! Oh, vomito!» sbraitarono i Circassi, cercando di svincolarsi da coloro che li trattenevano. «Hai forse fatto del male a nostra sorella?» «Avrei dovuto!» ringhiò lui. «Avrei dovuto tagliarle la lingua bugiarda e ficcargliela tra le gambe. Avrei dovuto far bollire dell'olio e versarglielo nel buco profanato. Avrei dovuto inchiodarla viva alla porta del palazzo.» A queste parole, molti dei suoi stessi parenti lo afferrarono e lo scrollarono rudemente, domandandogli: «E allora? Che cosa le "hai" fatto? Parla!» Egli si dibatté per liberarsi da loro, poi, con petulanza, si assestò addosso, approssimativamente, le vesti. «Ho fatto soltanto quello che un marito cornuto ha il diritto di fare, e intenterò causa affinché questo matrimonio-burla venga annullato!» Non soltanto i Circassi, ma anche gli Arabi e gli Armeni lo coprirono, urlando, di ogni sorta di insulti e di offese. Regnava un tal confusione, mentre le donne si strappavano i capelli, gli uomini la barba e tutti si laceravano le vesti, che parecchi minuti trascorsero prima che qualcuno riuscisse a
calmarsi quanto bastava per parlare in modo coerente e dire al detestabile marito che cosa avesse fatto in stato di ubriachezza e poi dimenticato. Fu suo padre, l'Ostikhan Hampig, a dirglielo piangendo: «Oh, sfortunato Hagig, sei stato "tu" a deflorare la vergine! Ieri sera, alla vigilia delle nozze. Hai pensato che sarebbe stata una cosa scaltra e divertente goderti in anticipo i diritti di un marito. Sei salito di sopra, l'hai gettata sul letto, e poi sei venuto a vantartene in questa stessa sala. Molto mi è costato persuadere questi parenti di lei a non ucciderti e a non anticipare la vedovanza della fanciulla. La Principessa non ha commesso alcun peccato. Sei stato tu! Tu stesso!» Le grida nella sala divennero due volte più forti. «Porco!» «Carogna!» «Putridume!» E Kagig impallidì e le tumide labbra gli guizzarono e, per la prima volta da quando lo conoscevo, egli si comportò come un uomo. Dimostrò di essere sinceramente addolorato e chiese di essere punito, come se dicesse sul serio, gridando: «Possano le braci dell'inferno giacere ardenti e in eterno sul mio capo! Amavo sinceramente la mia bella Seosseres e le ho mozzato il naso e le labbra!»
6. Mio padre mi tirò per la manica e lui ed io e zio Maffeo sgattaiolammo con discrezione tra la furente ressa e uscimmo dalla sala. «Questo non è pane per i miei denti» disse il babbo, accigliandosi. «L'Ostikhan si trova in guai grossi, e ogni sovrano in difficoltà può causare afflizioni tre volte più grandi e più rovinose a chiunque lo circondi. Evitiamo di rischiare!» Osservai: «Senza dubbio non può incolpare dì niente noi.» «Quando la testa duole, tutto il corpo può soffrirne. Credo sia meglio sellare e mettere i basti ai cavalli, così da poter partire alle prime luci dell'alba. Andiamo in camera nostra e cominciamo subito a fare i bagagli.» Là ci raggiunsero i due domenicani, che a gran voce parlarono della loro nausea e del loro disgusto a causa di quel che aveva fatto Kagig, come se loro soltanto, tra noi tutti, possedessero una sensibilità che poteva rimanere ferita. «Oh oh» fece lo zio Maffeo, ma non in tono divertito. «Costoro sono nostri correligionari. I veri barbari dovete ancora conoscerli.» «E' questo a turbarci, soprattutto» disse Fratello Guglielmo. «Ci risulta che crudeltà così orrende sono una normale consuetudine nella lontana Tartaria.» Mio padre osservò, placido, di sapere che atrocità venivano commesse anche in Occidente. «Ciò nonostante» disse Fratello Niccolò «temiamo di non poter esercitare efficacemente il nostro ministero con mostri come quelli tra i quali vorreste condurci. Desideriamo essere esonerati dalla nostra missione di predicatori.» «Oh, davvero?» Zio Maffeo tossì e si raschiò la gola. «Volete disertare prima ancora che siamo partiti? Be', potete volere tutto quel che vi pare. Ma noi ci siamo impegnati e altrettanto avete fatto voi.» Fra Guglielmo disse, gelido: «Forse Fra Niccolò non si è espresso abbastanza energicamente. Non stiamo chiedendo il vostro consenso, Messeri, vi stiamo comunicando la nostra decisione. Convertire quei rozzi selvaggi richiederebbe più... più autorevolezza di quella che noi possediamo. E le Sacre Scritture dicono: 'Allontana i tuoi passi dal male. Colui che tocca la pece ne sarà contaminato.' Ci rifiutiamo di seguirvi oltre.» «Non potete aver supposto che questa fosse una missione comoda e piacevole» osservò mio padre. «Come dice l'antico adagio, nessuno va in Paradiso su un cuscino.»
«Un cuscino? Fichèvelo!» tuonò zio Maffeo, alludendo con questa parola a uno straordinario impiego di quel cuscino. «E dire che abbiamo sborsato denaro sonante per i cavalli di questi due culattoni!» «Coprirci di sudici insulti non riuscirà a persuaderci» disse Fra Niccolò, altezzosamente. «Come l'Apostolo Paolo, noi evitiamo le ciance profane e inutili. La nave che ci ha portati qui si sta preparando a salpare per Cipro e noi torneremo a bordo.» Zio Maffeo avrebbe continuato a infuriare, servendosi probabilmente di altri termini che i sacerdoti odono di rado, ma mio padre lo invitò con un gesto a tacere, poi disse: «Volevamo emissari della Chiesa per dimostrare a Qubilai Khan il valore e la superiorità della fede cristiana rispetto alle altre religioni. Ma queste due pecore dalle vesti sacerdotali difficilmente potrebbero essere gli esempi migliori da mostrargli. Tornate pure alla nave, Fratelli, e che Dio vi accompagni.» «E andatevene "in fretta" con Dio!» ringhiò zio Maffeo. Quando i due ebbero preso la loro roba e furono usciti, egli borbottò: «Costoro si sono limitati ad approfittare della nostra impresa come di un pretesto per allontanarsi dalle perfide femmine di Acri. E ora si servono del laido episodio avvenuto qui per allontanarsi da noi. Eravamo stati invitati a portare cento preti e non abbiamo trovato altro che due vecchie zitelle del tutto prive di spina dorsale. E adesso rimaniamo anche senza di loro.» «Be', è meno doloroso perderne due soli che cento» osservò mio padre. «Come dice il proverbio, è preferibile cadere da una finestra anziché dal tetto.» «La perdita di questi due riesco a sopportarla» disse zio Maffeo. «Ma ora che cosa faremo? "Dobbiamo" proseguire? Senza "nessun" prete per il Khan?» «Gli abbiamo promesso che saremmo tornati» disse mio padre. «E siamo già rimasti assenti molto a lungo. Se non torniamo, il Khan non avrà più alcuna fiducia nella parola di un occidentale. Può chiudere le porte in faccia a tutti i mercanti che viaggiano, noi compresi, e, prima di ogni altra cosa, siamo mercanti. Non possiamo portargli alcun prete, però disponiamo di un capitale sufficiente - il nostro zafràn e il muschio di Hampig - per farlo fruttare, laggiù, e moltiplicarlo ricavandone un patrimonio cospicuo. Io dico di sì, di proseguire. Ci limiteremo a dire a Qubilai che la Chiesa era nello scompiglio durante l'interregno papale. Ed è alquanto vero.» «Sono d'accordo» disse zio Maffeo. «Proseguiamo. Ma che cosa faremo di questo germoglio?» Entrambi guardarono me. «Non può ancora fare ritorno a Venezia» rifletté a voce alta mio padre. «E la nave inglese sta salpando per l'Inghilterra. Però potrebbe sbarcare a Cipro e laggiù salire a bordo di qualche vascello diretto a Costantinopoli...» Mi affrettai a dire: «Io non andrò nemmeno fino a Cipro con quei due codardi di Domenicani. Potrei essere tentato di conciarli per le feste, e questo sarebbe un sacrilegio, e potrebbe mettere in pericolo la mia speranza di andare in Paradiso.» Zio Maffeo rise e disse: «Ma se lo lasciamo qui, e se vi sarà una faida sanguinosa tra quei Circassi e gli Armeni, Marco potrebbe finire in Paradiso più presto di quanto ci si sarebbe potuti augurare.» Mio padre sospirò, poi mi disse: «Verrai con noi fino a Bagdad. Là cercheremo una carovana di mercanti diretti a ovest passando per Costantinopoli. Andrai a far visita allo zio. Potrai restare con lui fino al nostro ritorno, oppure, se verrai a sapere che a Tiepolo è succeduto un nuovo Doge, potrai imbarcarti per Venezia.» Credo che soltanto noi, tra tutte le persone alloggiate nel palazzo di Hampig, cercammo di dormire, quella notte. E dormimmo pochissimo, poiché l'intero edificio continuò a vibrare a causa di passi pesanti e delle grida di voci furenti. Tutti gli ospiti circassi indossarono le vesti blu-cielo che sono soliti mettere per un lutto, ma evidentemente stavano tempestando nel palazzo non già per rispettare un lutto; no, minacciavano di vendicare in qualche modo le mutilazioni subite dalla loro Seosseres, e gli Armeni, altrettanto clamorosamente, tentavano di placarli, o almeno di urlare più forte di loro. Il tumulto continuava in pieno quando uscimmo a cavallo dal cortile del palazzo, diretti a est nei primi chiarori dell'alba. Non so che cosa fu, in seguito, delle persone che lasciammo là: ignoro se i
pavidi frati riuscirono ad arrivare sani e salvi a Cipro, o se gli sciagurati Bagratunian subirono le rappresaglie dei parenti della Principessa. Da quel giorno non ho saputo più nulla di alcuno di loro. E a dire il vero, quel giorno non mi crucciavo a causa loro, ma ero alle prese con un altro problema: come restare in sella. In vita mia, come mezzi di trasporto avevo conosciuto soltanto le imbarcazioni. Per conseguenza mio padre imbrigliò e sellò la giumenta destinata a me e mi disse di osservare bene quel che stava facendo, perché in seguito avrei dovuto pensarci io stesso. Poi mi mostrò come dovevo montare in sella e da quale parte della cavalla bisognava farlo. Imitai i movimenti di lui. Infilai il piede sinistro nella staffa, mi molleggiai per un momento sul piede destro, spiccai il balzo con entusiasmo, portai la gamba destra al di là del dorso del cavallo, piombai con un tonfo a cavalcioni della dura sella e proruppi in un selvaggio ululato di dolore. Ognuno di noi, come ci aveva consigliato l'Ostikhan, portava legato su di sé uno degli scroti colmi di muschio, in modo che ci pendesse sotto l'inguine, ed io ero piombato proprio su quello - per cui, mentre mi contorcevo in preda agli spasimi durante qualche minuto, pensai che la disavventura mi sarebbe costata il mio scroto personale. Mio padre e mio zio girarono bruscamente sui tacchi, le spalle sussultanti, per occuparsi delle loro cavalcature. Io mi ripresi a poco a poco e spostai il sacchetto di muschio in modo che non ponesse di nuovo in pericolo le parti intime. Poi, rendendomi conto che mi trovavo per la prima volta appollaiato sul dorso di un animale, pensai che non dovevo cominciare con una bestia così alta, ma con un somaro, magari, poiché sembrava che stessi oscillando molto in alto e tutt'altro che al sicuro rispetto al terreno sottostante. Tuttavia rimasi in sella mentre mio padre e mio zio montavano a loro volta e mentre ognuno di loro prendeva in mano la corda di uno degli altri due cavalli, sui quali avevamo caricato tutti i nostri bagagli e il necessario per il viaggio. Uscimmo così dal cortile e ci dirigemmo verso il fiume proprio mentre l'alba stava spuntando. Sulla riva, voltammo nella direzione a monte del fiume, verso il varco tra le colline nel quale esso scorreva dall'entroterra. Ben presto la turbata città di Suvediye rimase alle nostre spalle, poi ci lasciammo indietro le rovine delle Suvediye precedenti e venimmo a trovarci nella valle dell'Oronte. Era una mattinata splendida e tiepida e la valle si stendeva dinanzi a noi lussureggiante di vegetazione - verdi frutteti che separavano vasti campi d'orzo seminato in primavera e ormai dorato e pronto per essere mietuto. Anche in quelle prime ore del giorno le donne si trovavano già al lavoro e stavano falciando. Riuscimmo a scorgerne soltanto alcune chine sulle falci, ma potemmo renderci conto che erano in molte a faticare lì, dagli innumerevoli suoni ticchettanti. Siccome in Armenia soltanto le donne lavorano i campi e siccome gli steli dell'orzo sono resistenti e ruvidi e dolorosi sulla pelle, le donne, lavorando, infilavano le dita in tubicini di legno. Innumerevoli e affaccendate com'erano, quelle dita causavano un vasto e insistente ticchettio che sarebbe potuto essere scambiato per un incendio scoppiettante nei campi. Quando giungemmo al di là dei terreni coltivati, la valle continuò ad essere verdeggiante e pittoresca e ricca di vita. V'erano i grandi ed estesi platani di un verde-scuro, chiamati da quelle parti alberi chinar, e la cui ombra fitta riusciva gradita. V'erano inoltre i cardi-tigre, di un verde vivido; e i generosi e spinosi alberi dalle foglie argentee chiamati zizafun, sui quali il viaggiatore può cogliere le giuggiole dorate, simili a prugne, ottime sia fresche sia secche. Si trovavano lì branchi di capre che brucavano i cardi; e su ogni capanna di fango dei pastori si vedeva in cima al tetto l'ispido nido di una cicogna; v'erano inoltre intere popolazioni di piccioni, in ogni stormo dei quali se ne sarebbero potuti contare tanti quanti ne esistono in tutta Venezia; e non mancavano le aquile dorate, quasi sempre in volo, in quanto sono tanto goffe e vulnerabili quando si posano, essendo costrette a correre e a battere le ali per lungo tempo prima di riuscire a sollevarsi. In Oriente un viaggio per via di terra ha nome karwan, una parola "farsi". Noi stavamo seguendo una delle principali vie dei karwan da est a ovest, per cui, a comodi intervalli, pari a circa sei farsakh - vale a dire ogni quindici miglia circa - si trovava uno dei luoghi di sosta detti karwansarai. Sebbene noi viaggiassimo con comodo, senza mettere a dura prova la resistenza nostra o dei cavalli, potevamo sempre far conto di trovare, verso il tramonto, uno di questi luoghi sulla riva del fiume Oronte.
Non ricordo molto bene il primo di essi poiché quella notte fui tormentato dalle sofferenze. Durante il nostro primo giorno sulla carovaniera, non avevamo mai spinto i cavalli più in fretta che al passo e a me era sembrato di godermi una comoda gita e varie volte ero smontato e rimontato senza mai accorgermi che l'andare a cavallo mi infastidisse menomamente. Tuttavia, al karwansarai, quando infine smontai definitivamente per trascorrere la notte, constatai di essere indolenzito e sofferente. Avevo la schiena dolorante come se fosse stata frustata, i lati interni delle gambe irritati e brucianti e i muscoli delle cosce talmente irrigiditi e dolenti che temetti di essere costretto a camminare, da allora in poi, con le gambe arcuate. Ma il disagio a poco a poco diminuì, e, di lì a pochi giorni, potei cavalcare e spingere il cavallo a intermittenza al piccolo galoppo e al galoppo - o persino al trotto che è l'andatura più spossante - anche per tutto il giorno, se necessario, senza risentirne minimamente. Fu, questo, un piacevole miglioramento, a parte il fatto che, non dovendo più concentrarmi sulle mie sofferenze, potei notare meglio gli inconvenienti del dover trascorrere ogni notte in un karwansarai. Il karwansarai è una sorta di compromesso tra la locanda per i viaggiatori e le stalle per le loro bestie, sebbene i ripari per gli uomini e quelli per gli animali non si distinguano facilmente, né dal punto di vista delle comodità né da quello della pulizia. Senza dubbio perché ognuno di questi luoghi di sosta deve essere sufficientemente grande e preparato per ospitare cento volte più persone e più bestie di noi e dei nostri cavalli e per provvedere alle loro necessità. E infatti non furono poche le notti durante le quali condividemmo un karwansarai con una vera e propria folla di mercanti, arabi o persiani che viaggiavano in karwan con innumerevoli cavalli, muli, asini, cammelli e dromedari, tutti pesantemente carichi, affamati, assetati e sonnacchiosi. Ciò nonostante, io avrei preferito mangiare la biada destinata agli animali, anziché consumare i pasti serviti agli esseri umani, e dormire sulla paglia delle stalle anziché su uno degli aggeggi di corde intrecciate denominati letti. I primi due o tre di questi luoghi di sosta nei quali giungemmo, ostentavano insegne che li proclamavano essere una «casa di riposo cristiana». Li mandavano avanti monaci armeni ed erano sudici e brulicanti di parassiti e maleodoranti, ma i pasti, per lo meno, avevano il merito di essere alquanto variati. Più a oriente, ogni karwansarai risultò essere diretto da Arabi, con una insegna che annunciava: «Qui la vera e pura religione». Questi altri luoghi di sosta erano un pochino più puliti e meglio tenuti, ma i pasti musulmani risultarono essere di un'invariabile monotonia - montone, riso, pane che aveva esattamente la stessa forma, le stesse dimensioni, la stessa sostanza e lo stesso sapore del sedile di una sedia di vimini, nonché, come bevande, sharbat insipidi, tiepidi e abbondantemente annacquati. Dopo appena pochi giorni di viaggio da Suvediye, giungemmo nella città di Antakya, situata sulla riva del fiume. Quando si sta viaggiando per via di terra, ogni luogo abitato che appaia all'orizzonte è una vista gradita, e persino meravigliosa, da lontano. Ma tale bellezza, consentita dalla lontananza, si dilegua anche troppo presto allorché ci si avvicina. Antakya era, come ogni altra città di quelle regioni, brutta e sudicia, monotona e brulicante di mendicanti. Tuttavia si distingueva per aver dato il proprio nome al territorio circostante: Antiochia, come viene denominato nella Bibbia. In altri tempi, quando faceva parte dell'impero di Alessandro, questa regione veniva chiamata Siria. Allorché l'attraversammo noi, faceva parte del Regno di Gerusalemme, o di quanto rimaneva di quel regno, che in seguito è caduto completamente sotto il dominio dei Mamlucchi. In ogni modo, io cercai di vedere Antakya e tutta l'Antiochia, o Siria, come poteva averla veduta Alessandro, in quanto mi entusiasmava enormemente l'idea di percorrere una delle carovaniere lungo le quali era passato un tempo Alessandro il Grande. Lì ad Antakya il fiume Oronte corre verso sud. Pertanto ce ne allontanammo, a questo punto, e proseguimmo in direzione est, verso un'altra città molto più grande, ma anche molto più squallida Halep, denominata Aleppo dagli occidentali. Vi trascorremmo la notte in un karwansarai e, il proprietario avendoci insistentemente fatto osservare che avremmo cavalcato assai più comodamente qualora ci fossimo decisi a cambiare la nostra tenuta da viaggio, acquistammo da lui vesti arabe per tutti noi. Quando ripartimmo da Aleppo (e fu così per molto tempo in seguito)
vestivamo di tutto punto come Arabi. Questo modo di vestire è davvero più comodo, per chi viaggia a cavallo, della tunica e delle brache attillate veneziane. E, per lo meno veduti da lontano, avevamo l'aspetto di tre di quegli Arabi nomadi che si attribuiscono il nome di senza-terra, o bedawin. Poiché quasi tutti i proprietari di karwansarai da quelle parti sono Arabi, imparai, naturalmente, un gran numero di parole arabe. Ma quegli uomini parlavano altresì la lingua dei commerci universale in Asia, vale a dire il "farsi", e noi andavamo avvicinandoci ogni giorno di più alla Persia, la cui lingua è per l'appunto il "farsi". Così, per aiutarmi a impararla più rapidamente, mio padre e zio Maffeo facevano del loro meglio per conversare nel "farsi" che conoscevano anziché in veneziano o nel gergo che è il sabir francese. Ed io imparai. A dire il vero, trovai il "farsi" assai meno difficile di alcune altre lingue con le quali dovetti venire alle prese in seguito. Inoltre, dev'essere che i giovani assimilano le lingue più facilmente di quanto facciano gli anziani, poiché non trascorse molto tempo prima ch'io parlassi il "farsi" più scorrevolmente sia di mio padre, sia di mio zio. In qualche punto a est di Aleppo raggiungemmo il fiume successivo, il Furat, più noto come Eufrate e menzionato nel Libro della Genesi come uno dei quattro fiumi del Paradiso Terrestre. Io non contesto la Bibbia, ma vidi ben poco che somigliasse a un giardino lungo tutto l'immenso corso del Furat. Là ove arrivammo noi, per seguirlo a valle in direzione sud-est, quel fiume non scorre come l'Oronte, in un'amena vallata: si limita a serpeggiare capricciosamente attraverso una regione piatta, che è tutta un'immensa distesa di pascoli per i branchi di capre e i greggi di pecore. Ciò può essere utile, ma fa sì che il territorio sia quanto mai privo di interesse per chi lo attraversa. Si esulta scorgendo un raro uliveto o alcune palme da datteri, ed è possibile scorgere anche un singolo albero da distanze enormi prima di raggiungerlo. Su questa regione pianeggiante soffia quasi costantemente una brezza da est e, poiché lontano ad oriente si trovano deserti, anche questa brezza leggera giunge satura di una polvere grigia e impalpabile. E poiché soltanto gli alberi molto distanziati e i rari viaggiatori si levano al di sopra dell'erba bassa, su di essi va a posarsi la polvere portata dal vento. I nostri cavalli abbassavano la testa, tenevano giù le orecchie, chiudevano gli occhi e mantenevano la direzione facendo sì che la brezza soffiasse contro la loro spalla sinistra. Noi avvolgevamo strettamente gli aba intorno al corpo, le kaffiya intorno al volto, ma, ciò nonostante, la polvere ci rendeva granulose le palpebre, ci irruvidiva la pelle, ci otturava le narici e scricchiolava tra i denti. Capivo adesso perché il babbo e lo zio e quasi tutti gli altri viaggiatori si facevano crescere la barba; infatti, radersi ogni giorno in tali condizioni è una penosa fatica. Ma la mia barba era ancora troppo rada per poter crescere in modo estetico. Provai pertanto il mumum depilatorio dello zio Maffeo; risultò efficace ed io continuai a servirmene, preferendolo al rasoio. Ma il mio ricordo più duraturo, credo, di quel Paradiso Terrestre saturo di polvere, è la vista di un piccione che un giorno si posò su un albero; quando l'uccello toccò il ramo, sollevò una nuvola di polverone, come se si fosse posato entro un barile di farina. Accennerò qui alle due altre cose che mi vennero in mente durante l'interminabile viaggio lungo il fiume Furat. La prima è che il mondo è grande. Questa potrà non sembrare un'osservazione molto originale, ma l'imponente solennità di tale rivelazione aveva cominciato soltanto allora a penetrare in me. In precedenza ero sempre rimasto nella limitata città di Venezia, che, nel corso di tutta la sua storia, non si è mai estesa al di là dei suoi argini, né mai potrà farlo - la qual cosa dà a noi veneziani la sensazione di essere rinchiusi nella sicurezza e nella comodità: nell'intimità, se volete. Sebbene Venezia si affacci sull'Adriatico, l'orizzonte marino non sembra impossibilmente lontano. E anche a bordo della nave avevo veduto quell'orizzonte rimanere immutabile da ogni lato; non esisteva alcuna sensazione di avvicinarsi ad esso o di allontanarsene. Ma viaggiare per via di terra è diverso. Il profilo dell'orizzonte cambia costantemente e sempre ci si avvicina a qualche punto di riferimento o ci si allontana. Durante le prime settimane del viaggio, non facemmo che giungere in un gran numero di cittadine e di villaggi, in un gran numero di regioni dagli aspetti contrastanti, sulle rive di svariati fiumi, e seguitammo ad attraversarli e ad allontanarcene. E sempre continuammo a renderci conto che v'era dell'altro più avanti: altre regioni, altre città, altri fiumi. La terraferma del mondo è
"visibilmente" più vasta di qualsiasi deserto oceano. E' vasta e diversificata e sempre promette altre vastità e altre diversità, e poi te le offre e ne promette ancora. Chi viaggia per via di terra prova la stessa sensazione che prova un uomo completamente nudo - una sensazione meravigliosa di libertà senza intralci, ma anche la sensazione di essere vulnerabile, non protetto, e, in confronto al mondo dal quale è circondato, molto piccolo. L'altra cosa che desidero dire qui è questa: le carte geografiche mentono. Anche le carte migliori, quelle di Al-Idrisi, sono bugiarde. Questo perché tutto ciò che una carta indica sembra essere misurabile con lo stesso metro, e si tratta di un'illusione. Tanto per fare un esempio, supponiamo che il vostro viaggio debba condurvi su una montagna. La carta può avvertirvi della presenza della montagna in questione prima che vi arriviate, e può anche indicarvi più o meno quanto è alta e larga e lunga; ma non può dirvi quali saranno le condizioni del terreno e del tempo allorché giungerete, o in quali condizioni sarete "voi". Una montagna che può essere scalata con facilità in una bella giornata di piena estate da un giovane in piena salute, diviene una montagna assai più inaccessibile nel gelo e nelle tormente invernali per l'uomo indebolito dall'età o dalle malattie e logorato da tutte le regioni che ha già attraversato. Poiché le indicazioni di una carta sono così ingannevoli, il viaggiatore può impiegare più tempo per superare una distanza minima indicata dalla carta di quanto gliene sia occorso per attraversare tutte le più grandi distanze precedenti. Naturalmente, noi non ci imbattemmo in difficoltà di tal genere nel corso di quel viaggio fino a Bagdad, in quanto ci bastò seguire a valle il fiume Furat attraverso i piatti pascoli. A intervalli consultavamo il Kitab, ma soltanto per vedere se la carte si conformassero alla realtà intorno a noi e così era, con lodevole precisione - e a volte mio padre o mio zio aggiungevano segni per indicare utili punti di riferimento ignorati dal cartografo: anse del fiume, isole in esso, cose di questo genere. E, ogni poche notti, sebbene per il momento non fosse necessario, tiravo fuori il kamàl che avevamo acquistato. Tendendolo verso la stella Polare fino alla lunghezza del nodo fatto a Suvediye e facendo coincidere la sbarretta inferiore del rettangolo di legno con l'orizzonte piatto, vedevo ogni volta che la stella Polare si trovava molto più sotto della sbarretta superiore. Questo attestava quanto già sapevo: che stavamo deviando a sud rispetto alla nostra direzione, l'oriente. Ovunque, in quella regione, non facevamo che attraversare i confini invisibili di una piccola nazione dopo l'altra, e le nazioni erano analogamente invisibili, tranne il loro nome. Così accade ovunque nel Levante: le estensioni più vaste sono indicate, sulle carte, come Armenia, Antiochia, Terra Santa e così via, ma, nell'ambito di questi settori, le popolazioni del posto riconoscono innumerevoli regioni più piccole, e attribuiscono loro nomi e le chiamano nazioni e onorano i loro insignificanti capi con titoli risonanti. Da bambino, alle lezioni di religione, avevo sentito parlare di regni levantini come la Samaria e Tiro e Israele e me li ero raffigurati come paesi formidabili, enormemente estesi, immaginandone i re, Ahab e Hiram e Saul, come monarchi di grandi popoli. Ora, dalla gente del posto incontrata durante il viaggio, imparavo che stavamo attraversando sedicenti nazioni come il Nabaj e il Bishri e il Kubbaz, governate da vari re e sultani e sceicchi. Ma ognuna di queste nazioni poteva essere attraversata con una marcia di un giorno o due e per giunta esse erano squallide, insignificanti, misere, piene di mendicanti, scarsamente popolose, e l'unico «re» che incontrammo si limitava ad essere il capraio più anziano di una tribù bedawi di caprai arabi. Non uno solo di tutti quei frammenti di regni e di sceiccati pigiati insieme in quella parte del mondo è più vasto della Repubblica di Venezia. E Venezia, sebbene sia prospera e importante, si estende soltanto su una manciata di isole e su una piccola parte della costa adriatica. A poco a poco, finii con il rendermi conto che anche tutti quei re biblici - persino i più grandi, come Salomone e Davide - avevano governato regni che, nel mondo occidentale, sarebbero stati denominati semplicemente confini, o contee, o parrocchie. Le grandi migrazioni tramandate dalla Bibbia dovettero essere in realtà trascurabili vagabondaggi, come quelli delle moderne tribù di caprai che io vedevo. Le grandi guerre che la Bibbia descrive dovettero essere, in realtà, schermaglie insignificanti tra eserciti minuscoli per decidere insignificanti dispute tra quei minuscoli re. E ciò mi indusse a domandarmi perché mai il Padreterno si fosse preso la briga di mandare incendi e tempeste e profeti e pestilenze per influire sui destini di nazioni così trascurabili.
7. Per due notti, in quella regione, evitammo volutamente il karwansarai più vicino e ci accampammo per nostro conto all'aperto. Era questa una cosa che in seguito, una volta giunti in regioni meno popolate, saremmo stati costretti a fare, e pertanto mio padre e mio zio ritennero che dovessi cominciare a vivere tale esperienza su un terreno non accidentato e con un clima mite. Inoltre, cominciavamo ad essere tutti e tre stanchi all'estremo di sporcizia e di carne di montone. Per cui, entrambe quelle notti, preparammo un giaciglio con le coperte, ci servimmo delle selle come di guanciali, accendemmo un fuocherello per cucinare e lasciammo i cavalli liberi di brucare l'erba, impastoiando le loro due gambe anteriori affinché non si allontanassero troppo. Avevo già imparato dal babbo e da zio Maffeo, la cui esperienza in fatto di viaggi era grande, alcuni trucchi del viaggiatore. Mi avevano insegnato, ad esempio, a tenere sempre le coperte in una gerla da sella e gli indumenti in un'altra e di fare in modo che le due gerle restassero sempre lontane una dall'altra. Poiché il viaggiatore deve adoperare le proprie coperte in ogni karwansarai, esse, inevitabilmente, si riempiono di pulci, di pidocchi e di cimici. Questi insetti sono un tormento anche quando uno dorme il sonno profondo della spossatezza, ma diventerebbero intollerabili per chi fosse desto e vestito e stesse viaggiando. Ragion per cui, alzandomi nudo dal letto ogni mattina, mi liberavo accuratamente di tutti i parassiti, dopodiché, avendo badato bene a tenere i miei indumenti lontani dal giaciglio, potevo indossarli, fossero essi già stati portati o di bucato, senza che gli insetti li avessero invasi. Quando non sostammo in un karwansarai, ma ci accampammo per nostro conto, imparai altre cose. Rammento la prima notte. Cominciai a inclinare uno degli otri dell'acqua, accingendomi a bere a lungo, ma mio padre mi fermò. «Perché?» domandai. «Abbiamo uno dei benedetti fiumi del Paradiso Terrestre al quale attingere.» «E' meglio abituarsi a soffrire la sete anche quando non sarebbe necessario» disse lui «poiché dovrai soffrirla per forza quando lo sarà. Aspetta un momento e ti mostrerò una cosa di grande utilità.». Accese un fuoco di rami tagliati con il coltello che portava alla cintola da un albero zizafun, il cui legno spinoso arde rapidamente e irradiando molto calore, e lo lasciò bruciare finché il legno si fu completamente carbonizzato senza essere ancora cenere. Poi spostò da un lato quasi tutta la legna bruciata e dispose altri rami su quella che rimaneva, per ravvivare il fuoco. Lasciò raffreddare le braci rimosse, le schiacciò, riducendole in polvere, e le ammonticchiò su un lembo di tessuto che mise poi, a mo' di setaccio, sull'imboccatura di uno dei vasi di terracotta che avevamo acquistato. Mi porse un altro vaso e mi ordinò di andare a riempirlo al fiume. «Assaggia l'acqua del Paradiso Terrestre» disse, quando così ebbi fatto. L'assaggiai e osservai: «E' melmosa e vi sono alcuni insetti. Ma non e' cattiva.» «Sta a vedere. Io la migliorerò.» Versò l'acqua facendola filtrare adagio attraverso le braci macinate e il tessuto nell'altro vaso. Quando il lento gocciolio fu terminato, assaggiai di nuovo l'acqua ora contenuta dall'altro vaso. «Sì. E' limpida e buona. Sembra persino più fredda.» «Ricordati di questo espediente» egli disse. «Molte volte la sola acqua della quale potrai disporre sarà putrida o contaminata da sali minerali, o addirittura sospetterai che possa essere velenosa. Questo espediente la renderà per lo meno potabile, e innocua, se non deliziosa. Tuttavia, nei deserti ove esiste l'acqua peggiore, non si trova di solito legna da ardere. Perciò cerca di avere sempre con te una riserva di braci ridotte in polvere. Possono essere adoperate più e più volte prima che si saturino e divengano inefficaci.» La ragione per cui ci accampammo due sole volte all'aperto durante il viaggio lungo il Furat consistette nel fatto che mentre mio padre era in grado di eliminare insetti e impurità dall'acqua, non poteva eliminare però gli uccelli dall'aria, e ho già accennato al particolare che in quella regione abbondano le aquile dorate.
Il giorno del quale sto parlando, mio zio, per buona fortuna, era capitato su una grossa lepre tra l'erba; l'animale rimase immobile e tremante nell'attimo della sorpresa e zio Maffeo fulmineamente estrasse e lanciò il coltello che portava alla cintola, uccidendo la creatura. Per questo motivo perché disponevamo del necessario per cucinare un pasto che non fosse carne di montone decidemmo di accamparci per la prima volta. Ma quando zio Maffeo infilzò la lepre scuoiata in un ramo di zizafun e la mise sopra le fiamme ed essa cominciò a sfrigolare e il suo aroma si levò nell'aria insieme al fumo, ci aspettava una sorpresa come quella toccata alla lepre stessa. Nel cielo notturno sopra di noi si udì un forte suono frusciante. Prima ancora che avessimo potuto alzare gli occhi, una sorta di striatura brunastra balenò tracciando un arco che calò tra noi, attraversò il bagliore del fuoco e di nuovo risalì nelle tenebre. Nello stesso momento si udì uno schiocco simile a un "klop!", il fuocherello si disintegrò tra sciami di scintille e nuvole di cenere, mentre noi constatavamo che la lepre era scomparsa con tanto di spiedo e udivamo un verso latrante e trionfante: «"Kya!"» «Malasorte!» esclamò mio zio, chinandosi a prendere una grossa piuma tra i resti del fuoco. «Una dannata aquila ladra! Maledetta!» E quella sera dovemmo preparare il pasto con un po' di dura carne salata di porco tolta dai nostri fardelli. La stessa cosa, o quasi la stessa cosa, accadde la seconda volta che dormimmo all'aperto. A quest'altro accampamento venimmo indotti dal fatto che avevamo acquistato, da una famiglia di arabi bedawin di passaggio, una coscia di giovane cammello appena ucciso. Quando la mettemmo sul fuoco ad arrostire e le aquile la scorsero, un'altra di esse si avventò sulla preda. Non appena zio Maffeo udì il frusciare nell'aria delle aquile, scattò per lanciarsi, protettivo, sul pasto che stava cuocendo. Questo salvò il nostro pasto ma per poco non ci fece perdere lo zio. Un'aquila dorata ha ali che, aperte, superano in lunghezza le braccia tese di un uomo, e pesa all'incirca come un grosso cane, per cui quando piomba giù dall'alto - quando «picchia» come dicono i falconieri - è un proiettile formidabile. Quella, finì contro la nuca di zio Maffeo, soltanto con l'ala, fortunatamente, e non con gli artigli, ma fu un colpo violento abbastanza per farlo finire lungo disteso sul fuoco. Il babbo ed io lo trascinammo via, smorzammo le scintille sul suo aba che stava cominciando a bruciare, e lui dovette scuotere la testa per qualche tempo prima di rientrare del tutto in sé; poi imprecò abbondantemente, finché non lo prese un accesso di tosse. Nel frattempo, io rimasi accanto all'arrosto infilzato nello spiedo, agitando vistosamente un grosso ramo, e le aquile si tennero alla larga, per cui riuscimmo a cucinare e a consumare il pasto. Ma decidemmo che, fino a quando fossimo rimasti nella regione delle aquile, avremmo vinto la ripugnanza e trascorso ogni notte in un karwansarai. «Siete assennati regolandovi in questo modo» ci disse, la sera dopo, il proprietario del karwansarai, mentre mandavamo giù un altro schifoso pasto a base di montone e riso. Eravamo i soli ospiti, quella sera, per cui l'uomo conversò mentre scopava fuori della porta la polvere accumulatasi durante il giorno. Si chiamava Hasan Badr-al-Din, un nome che non gli si addiceva affatto, in quanto significa Luna della Fede. Era raggrinzito e nodoso come un vetusto ulivo. Aveva una faccia che sembrava essere fatta di cuoio, corrugata come il grembiule di un ciabattino e sfoggiava una barbetta simile a un nembo di altre rughe che non fossero riuscite a trovare posto sulla faccia. Egli continuò, dicendo: «Non è prudente rimanere all'aperto e privi di protezione, durante la notte, nelle terre dei Mulahida, i Pervertiti.» «Che cosa sono i Pervertiti?» domandai, sorseggiando uno sharbat talmente amaro che doveva essere stato fatto con frutta acerba. Luna della Fede intanto spruzzava acqua sulla polvere rimasta. «Forse li avrete uditi chiamare Hashshashin. Sono gli assassini che uccidono per conto del Vecchio della montagna.» «Quale montagna?» borbottò zio Maffeo. «Questa regione è più piatta di un mare alcionico.» «E' sempre stato chiamato così - lo Sceicco ul-Jibal - sebbene nessuno sappia in realtà dove abita. Se il suo castello si trova davvero su una montagna o no.» «E' morto, ormai» disse mio padre. «Il vecchio seccatore venne ucciso dall'Ilkhan Hulagu quando i Mongoli giunsero da queste parti quindici anni or sono.»
«E non è vero» disse Luna della Fede. «Quello era il Vecchio Rokn-ed-Din Kurshah. Ma esiste sempre un altro Vecchio.» «Non lo sapevo.» «Oh, sì, certo. E un Vecchio continua a comandare i Mulahida anche se alcuni dei Pervertiti devono essere vecchi anch'essi, ormai. Li cede temporaneamente a pagamento ai fedeli che hanno bisogno dei loro servigi. Mi risulta che i Mamlucchi d'Egitto pagarono una grossa somma per fare uccidere da un Hashshashin quel Principe inglese che comanda i Crociati cristiani.» «Allora hanno gettato via il loro denaro» disse zio Maffeo. «Fu l'inglese a uccidere l'assassino.» Luna della Fede alzò le spalle e disse: «Un altro ci proverà, e poi un altro ancora, finché la cosa non sarà stata fatta. Il Vecchio darà l'ordine e loro obbediranno.» «Perché?» domandai, e mandai giù un boccone di riso che sapeva di marcio. «Perché qualcuno dovrebbe mettere a repentaglio la propria vita uccidendo per ordine di un altro uomo?» «Ah, per capire questo, giovane Sceicco, devi sapere qualcosa del Sacro Corano.» Venne a sedersi davanti alla nostra tovaglia, come se gli facesse piacere spiegare. «In quel libro, il Profeta (benedizioni e pace scendano su di Lui) fa una promessa agli uomini della Fede. Promette ad ogni uomo che, purché sia irremovibilmente devoto, almeno una volta in vita sua godrà una notte miracolosa, la Notte del Possibile, durante la quale ogni suo desiderio sarà esaudito.» Il vecchio riordinò le rughe in un sorriso, un sorriso che era per metà felice e per metà malinconico. «Una notte colma di agi e di lussi, con cibi meravigliosi e bevande e banj, con donne haura e fanciulli di grande bellezza e compiacenti, e con rinnovata gioventù e virilità per il loro godimento. Così, chiunque sia credente, vive la propria vita con irremovibile devozione, e spera in quella Notte del Possibile.» Il vecchio si interruppe e parve smarrirsi in una contemplazione. Dopo un momento, zio Maffeo disse: «E' un sogno allettante.» Luna della Fede osservò, con distacco: «I sogni sono le immagini dipinte nel libro del sonno.» Io dissi: «Ma non capisco che cosa c'entri questo con...» «Il Vecchio della Montagna» disse lui, quasi fosse emerso all'improvviso dal sonno, «... il Vecchio "dà" quella Notte del Possibile. E poi promette altre di tali notti.» Mio padre, lo zio ed io ci scambiammo occhiate divertite. «Non dubitatene!» disse il proprietario del karwansarai, in tono stizzito. «Il Vecchio, o uno dei suoi reclutatori Mulahida, trova un uomo capace - un uomo forte e audace - e gli mette nei cibi o nelle bevande un po' del potente banj. Quando l'uomo piomba nel sonno, viene portato per incanto nel Castello ul-Jibal. Si desta e si trova nel giardino più meraviglioso che si possa immaginare, circondato da avvenenti giovani e da belle donne. Questi haura gli servono succulente vivande e altro hashish e persino vini proibiti. Poi cantano e danzano in modo incantevole, rivelando i loro seni dai capezzoli impennati, i loro lisci ventri, i loro invitanti culetti. Lo seducono e gli fanno provare tali rapimenti di voluttà che, in ultimo, egli perde di nuovo i sensi. E, una volta di più, viene portato via per incanto... e torna alla sua dimora e alla sua vita di sempre, che sono, nel migliore dei casi, monotone, ma, molto più probabilmente, orribili. Come la vita di un proprietario di karwansarai.» Mio padre sbadigliò e disse: «Comincio a capire. Come dice il proverbio, ha avuto la carota e il bastone.» «Sì. Ha ormai avuto la Notte del Possibile e anela a riaverla. La desidera e supplica e prega per ottenerla, e i reclutatori vengono e lo tentano, finché egli promette di fare "qualsiasi cosa". Gli affidano un compito... di uccidere qualche nemico della Fede, di rubare o rapinare affinché i forzieri del Vecchio possano essere rimpinguati, di tendere agguati agli infedeli che entrano nei territori del Mulahida. Se riesce a portare a termine con successo l'incarico, viene premiato con un'altra Notte del Possibile. E, dopo ogni sua successiva prova di dedizione, gli tocca un'altra notte ancora, e così via.» «E ognuna di quelle notti» disse il mio scettico zio «non è altro, in realtà, che un sogno causato dall'hashish. Un bell'inganno davvero!»
«Oh, incredulo!» lo rimproverò Luna della Fede. «Dimmi, per la tua barba, riesci tu a distinguere tra il ricordo di un sogno delizioso e il ricordo di qualcosa di delizioso che è accaduto realmente? Entrambi esistono soltanto nella tua memoria. Riferendone a un'altra persona, come potresti dimostrare che cosa è accaduto mentre eri desto e che cosa è accaduto mentre dormivi?» Zio Maffeo rispose, affabilmente: «Te lo farò sapere domani, perché adesso ho sonno.» Si alzò, stiracchiandosi e consentendosi un enorme sbadiglio. Di solito andavamo a coricarci più tardi, la sera, ma anche mio padre ed io stavamo sbadigliando, e così seguimmo tutti e tre Luna della Fede mentre ci precedeva in un lungo corridoio e - siccome eravamo gli unici ospiti del suo karwansarai - assegnava a ognuno di noi una camera diversa, e per giunta molto pulita, con paglia fresca sul pavimento. «Camere volutamente lontane una dall'altra» disse «affinché il vostro russare non disturbi gli altri e i vostri sogni non si confondano.» Ciò nonostante, il sogno che feci io fu abbastanza intricato e confuso. Dormii e sognai che mi destavo dal sonno, venendo a trovarmi, come una recluta dei Pervertiti, in un giardino di sogno, in quanto era colmo di fiori mai veduti in stato di veglia. Tra le aiuole fiorite e illuminate dal sole danzavano persone di una bellezza talmente sognante che sarebbe stato impossibile dire, o anche curarsene, se fossero fanciulli o fanciulle. In preda a un sognante languore, mi univo alla danza e constatavo, come accade spesso nei sogni, che ogni mio passo e saltello e movimento erano lenti anch'essi in modo sognante, quasi che l'aria fosse stata olio di sesamo. Questa sensazione era tanto sconvolgente - persino in sogno ricordavo l'esperienza con l'olio di sesamo - che il giardino assolato si tramutò all'istante nel buio corridoio di un palazzo, lungo il quale danzavo inseguendo una ballerina il cui viso era quello di Donna Ilaria. Tuttavia, quando ella piroettò in una stanza ed io la seguii passando per l'unica porta e l'afferrai, il suo viso divenne rugoso e disseminato di verruche e vi spuntò una barba rosso grigiastra simile a escrescenze fungose. La donna disse: «Salamelèch», con una voce baritonale e maschile, ed io non mi trovai più nella stanza di un palazzo e nemmeno in quella di un karwansarai, bensì in una buia e angusta cella del Vulcano, a Venezia. Il vecchio Mordecai Cartafilo disse: «Oh Pervertito, non imparerai mai la sete di sangue della bellezza?» e mi diede un biscotto quadrato, bianco e secco, da mangiare. Era secco al punto da soffocarmi e aveva un sapore nauseante. Ebbi un conato di vomito talmente convulso che mi destai - mi destai sul serio, questa volta, nella stanza del karwansarai, per constatare che non avevo sognato la nausea. Evidentemente il montone servitoci a cena, o qualcos'altro, "era stato" infettato, poiché stavo per vomitare con violenza. Strisciai fuori delle coperte e corsi nudo e a piedi nudi nella stanzetta in fondo al corridoio, con il buco scavato nel terreno. Chinai la testa sopra il buco, troppo sofferente per indietreggiare dal fetore o per temere che un demone jinn potesse protendersi dalle profondità e ghermirmi. Il più silenziosamente possibile vomitai una sozza poltiglia verdastra, poi, una volta asciugatemi le lacrime dagli occhi e ripreso fiato, tornai silenziosamente verso la mia stanza. Percorrendo il corridoio passai davanti alla porta della stanza assegnata a zio Maffeo, e udii borbottii all'interno. Già malfermo sulle gambe, del resto, mi addossai alla parete e ascoltai. In parte si trattava di mio zio che russava e in parte di una voce sibilante e sommessa che pronunciava parole. Mi domandai in qual modo egli potesse russare e parlare al contempo, e ascoltati più attentamente. Le parole erano "farsi", per cui non riuscii a capirle tutte. Ma quando la voce, il cui tono sembrava meravigliato, divenne più forte, udii con chiarezza: «Aglio? Gli infedeli sostengono di essere mercanti e non portano con loro altro che "aglio" senza alcun valore?» Toccai la porta della stanza e sentii che non era stata chiusa dall'interno. Si aprì con facilità e silenziosamente. Nella stanza, una fioca luce si stava muovendo e, quando scrutai meglio, vidi che era una lampada a stoppino nella mano di Luna della Fede; l'uomo si chinava sulle gerle da sella di zio Maffeo, ammonticchiate in un angolo della stanza. Il proprietario del karwansarai stava ovviamente tentando di derubarci e, aperti i fardelli, aveva trovato i preziosi bulbi di zafràn, scambiandoli per aglio.
Ero più divertito che infuriato e tenni a freno la lingua, per vedere che cosa egli avrebbe fatto ancora. Sempre bofonchiando e dicendo a se stesso che l'infedele doveva aver portato a letto con sé la borsa e la merce davvero preziosa, il vecchio si avvicinò al giaciglio e, con la mano libera, cominciò a tastare, cauto, sotto le coperte di zio Maffeo. Trovò qualcosa, poiché trasalì, e di nuovo parlò a mezza voce, in preda allo stupore. «Per i novantanove tributi di Allah! Questo infedele lo ha lungo come un cavallo!» Sebbene mi sentissi ancora in preda alla nausea, per poco non ridacchiai, e mio zio sorrise nel sonno, come se si godesse i titillamenti. «Non soltanto uno zab lungo e non circonciso» continuò a meravigliarsi il ladro «ma anche - Allah sia lodato per la sua munificenza persino con gli indegni - due scroti dei testicoli!» In quel momento avrei potuto ridacchiare davvero, ma, un attimo dopo, la situazione smise di essere divertente. Scorsi, alla luce della lampada, il bagliore del metallo, mentre Luna della Fede toglieva un coltello di sotto la veste e lo alzava. Non sapevo se si proponesse di circoncidere lo zab di zio Maffeo, o di amputargli lo scroto in soprannumero o di tagliargli la gola, e non aspettai di accertarlo. Balzai avanti e sferrai un pugno, colpendo il ladro con forza alla nuca. Mi sarei aspettato che un colpo simile mettesse fuori combattimento quell'individuo così debole e anziano, ma l'uomo non era delicato come sembrava. Cadde di lato, ma rotolò come un acrobata e balzò su dal pavimento vibrando la lama contro di me. Più per caso che per destrezza, riuscii ad afferrargli il polso. Glielo contorsi, lo costrinsi con uno strattone ad aprire il pugno, venni a trovarmi il coltello in mano e me ne servii. Questa volta egli stramazzò e rimase giù, gemendo e gorgogliando. La zuffa era stata breve, ma non silenziosa; ciò nonostante, mio zio aveva continuato a dormire mentre venivamo alle prese, e adesso dormiva ancora, sempre sorridendo nel sonno. Atterrito da quello che avevo fatto, nonché da quanto per poco non era accaduto, mi sentivo molto solo nella stanza e avevo un gran bisogno di qualcuno che fosse mio alleato e mi sostenesse. Sebbene le mani mi tremassero, scrollai lo zio Maffeo e dovetti scuoterlo con violenza per strapparlo al sonno. Mi resi conto, a questo punto, che il pasto serale, perfido più del solito, doveva essere stato abbondantemente drogato con banj. Saremmo morti tutti e tre se il sogno non mi avesse destato al pericolo, consentendomi di vomitare la droga. Mio zio, infine, cominciò mal volentieri a destarsi, sorridendo e mormorando: «I fiori... le danzatrici... le dita e le labbra che si trastullavano con il mio flauto...» Poi batté le palpebre ed esclamò: «Dio me varda! Marco, non sarai stato "tu"?» «No, zio Maffeo» risposi in veneziano tanto ero agitato. «Hai corso un grave pericolo. Per piacere, svegliati!» «Drìo de ti!» disse lui, irritato. «Perché mi hai tolto da quel giardino meraviglioso?» «Credo che fosse il giardino degli Hashshashin. E ho appena accoltellato un Pervertito.» «Il padrone del karwansarai!» esclamò mio zio, drizzandosi a sedere e scorgendo il corpo inerte sul pavimento. «Oh, scagaròn, che cosa hai fatto? Stai giocando di nuovo al bravo?» «No, zio, guarda. Il coltello che gli sporge dal corpo è suo. Era sul punto di ucciderti, per prendere lo scroto con il muschio.» Mentre gli spiegavo la situazione, cominciai a piangere. Zio Maffeo si chinò sul vecchio e lo esaminò, borbottando: «Proprio nel ventre. Non è morto, ma sta morendo.» Poi si voltò verso di me e disse, con dolcezza: «Su, su, figliolo. Smettila di piagnucolare. Va a svegliare tuo padre.» Luna della Fede non meritava lacrime, vivo o morto o moribondo. Ma era il primo uomo che avessi mai ucciso e togliere la vita a un altro essere umano non è una pietra miliare insignificante nella carriera di un uomo. Mentre andavo a strappare mio padre dal giardino dello hashish, mi resi conto di essere più che mai lieto perché, a Venezia, era stata la mano di un altro ad affondare la spada nella mia prima e incolpevole preda. Infatti, avevo appena imparato qualcosa a proposito dell'uccisione di un uomo, o per lo meno dell'uccisione mediante una lama. La lama affonda nel ventre della vittima molto facilmente, quasi con avidità, quasi di sua iniziativa. Ma là viene afferrata all'istante dai muscoli violati e tenuta stretta come un'altra mia arma era stata un tempo afferrata dalla vergine carne della giovane Doris. Avevo conficcato il coltello nel corpo del vecchio Luna
della Fede assolutamente senza alcuna fatica; ma, subito dopo, non ero riuscito ad estrarlo. E in quel momento mi ero reso conto di una verità sconvolgente: che un atto così laido, compiuto così facilmente, diviene, subito dopo, irrimediabile. Questo faceva sì che uccidere sembrasse alquanto meno prode e audace e coraggioso di quanto io avessi immaginato. Dopo essere riuscito, a stento, a destare mio padre, lo condussi sulla scena del delitto. Zio Maffeo aveva deposto il proprietario del karwansarai sul giaciglio di coperte, sebbene il sangue continuasse a scorrere, componendo le membra di Luna della Fede in attesa della morte, e i due stavano conversando, amichevolmente, si sarebbe detto. Il vecchio era il solo di noi ad essere vestito. Alzò gli occhi su di me, il suo assassino, e dovette scorgermi sulla faccia le tracce delle lacrime, poiché disse: «Non stare a tormentarti, giovane infedele. Hai ucciso il più Pervertito di tutti. Ho commesso un peccato terribile. Il Profeta (pace e benedizioni scendano su di Lui) ci ingiunge di trattare un ospite con le più riverenti premure e con rispetto. Anche se egli è il più umile dei mendicanti, o persino un infedele, e anche se esiste una sola crosta di pane in casa e se la moglie e i figli del padrone soffrono la fame, quella crosta deve essere data all'ospite. Anche se egli è un nemico giurato, deve essergli offerta ogni ospitalità ed ogni salvaguardia finché si trova sotto il nostro tetto. Avendo io disubbidito a questa sacra legge, sarei stato privato della Notte del Possibile anche se fossi vissuto. Nella mia avarizia, ho agito senza riflettere, e ho peccato, e ti esorto a perdonarmi di questa mia colpa.» Cercai di dirgli che lo perdonavo, ma un singhiozzo soffocò le parole e, un attimo dopo, ne fui lieto poiché egli continuò: «Avrei potuto facilmente mettere la droga nella vostra colazione di domattina e lasciarvi percorrere un tratto di strada prima che cadeste. Allora mi sarebbe stato possibile derubarvi e assassinarvi sotto l'aperto cielo, anziché sotto il mio tetto, e la mia sarebbe stata in tal caso un'impresa virtuosa, gradita ad Allah. Ma non l'ho fatto. Sebbene, prima d'ora, nel corso di tutta la mia esistenza, sia sempre stato devoto alla Fede e abbia ucciso molti altri infedeli per la maggior gloria dell'Islam, quest'unica empietà mi costerà la gioia eterna nel Paradiso, con le sue bellezze haura e l'eterna felicità e le voluttà senza limite. E per tale perdita mi affliggo profondamente. Avrei dovuto uccidervi nel modo opportuno.» Bene, queste parole fecero sì, per lo meno, che smettessi di piangere. Fissammo tutti, impietriti, il proprietario del karwansarai, mentre riprendeva a parlare. «Ma voi avete una possibilità di essere virtuosi. Quando sarò morto, fatemi la cortesia di avvolgermi in un ampio lenzuolo. Portatemi nella stanza principale e deponetemi al centro, nella posizione prescritta. Copritemi la faccia e fate in modo che abbia i piedi rivolti verso il sud, verso la Santa Kaaba nella Mecca.» Il babbo e lo zio si scambiarono un'occhiata e alzarono le spalle e in seguito fummo tutti lieti che non avessero promesso, poiché il vecchio lestofante pronunciò, a questo punto, le sue ultime parole: «Avendo fatto questo, cani abietti, morirete virtuosi quando i miei fratelli del Mulahida verranno qui e mi troveranno morto con un coltello conficcato nelle viscere e seguiranno le orme dei vostri cavalli e vi daranno la caccia facendovi quello che io non sono riuscito a fare. Salam aleikum.» La voce di lui non si era affatto indebolita, ma, dopo aver invocato la pace su di noi, Luna della Fede chiuse gli occhi e morì. E, essendo quello il primo letto di morte accanto al quale mi trovavo, scoprii per la prima volta che quasi tutte le morti sono orrende come quasi tutte le uccisioni. Morendo, infatti, Luna della Fede schifosamente e abbondantemente vuotò sia la vescica, sia gli intestini, insozzando le proprie vesti e le coperte e colmando subito la stanza di un fetore spaventoso. Nessuno può desiderare che la propria fine venga ricordata per una disgustosa indegnità. Eppure ho veduto, in seguito, morire molte persone e - tranne nei rari casi in cui era stato possibile somministrare prima una purga - in questo modo tutti gli esseri umani dicono addio alla vita; anche i più forti e i più coraggiosi degli uomini, anche le più belle e le più pure delle donne, sia che muoiano di morte violenta o che se ne vadano serenamente nel sonno.
Uscimmo dalla stanza per respirare aria pura, e mio padre sospirò: «Bene. Ora che cosa facciamo?» «Per prima cosa» disse zio Maffeo, sciogliendo le cordicelle dello scroto contenente il muschio, «liberiamoci di questi scomodi pendagli. E' chiaro che saranno altrettanto al sicuro entro i nostri fardelli - o meno non sicuri - e in ogni modo preferisco perdere il muschio che mettere di nuovo a repentaglio il mio scroto personale.» Il babbo mormorò: «Ti preoccupi per le palle mentre potremmo essere sul punto di rimetterci la pelle?» Io dissi: «Mi dispiace, babbo e zio. Se i Pervertiti che ancora sopravvivono stanno per darci la caccia, allora io ho fatto male a uccidere costui.» «Assurdo» disse mio padre. «Se tu non ti fossi destato e non avessi agito prontamente, non saremmo più in vita e nessuno potrebbe darci la caccia.» «E' vero che tu sei impetuoso, Marco» disse zio Maffeo. «Ma se un uomo si soffermasse a riflettere su tutte le conseguenze di ogni sua azione prima di agire, diventerebbe vecchissimo prima di fare qualsiasi dannata cosa. Niccolò, credo che potremmo tenere come nostro compagno questo giovanotto fortunatamente impetuoso. Non lasciamolo al sicuro a Costantinopoli o a Venezia, ma consentiamogli di venire con noi fino al Catai. In ogni modo, sei tu suo padre. Spetta a te decidere.» «Sono propenso a trovarmi d'accordo con te, Maffeo» disse il babbo. Poi, rivolto a me: «Se vuoi venire con noi, Marco...» Sorrisi felice. «Allora vieni. Lo meriti. Ti sei comportato bene, stanotte.» «Forse più che bene» mormorò mio zio, cogitabondo. «Quel vecchio bricòn ha detto di essere il più Pervertito di tutti. Non è possibile che fosse il capo di tutti loro? L'ultimo Sheikh ul-Jibal regnante? Vecchio lo era senz'altro.» «Il Vecchio della Montagna?» esclamai. «Avrei ucciso "lui"?» «Non possiamo saperlo» disse mio padre. «E non lo sapremo a meno che non ce lo dicano gli altri Hashshashin, quando ci raggiungeranno. Ma non ci tengo poi tanto a venirlo a sapere.» «Non devono raggiungerci» disse zio Maffeo. «Siamo già stati imprudenti spingendoci così avanti in paesi stranieri senza altre armi all'infuori dei coltelli.» Il babbo osservò: «Non ci raggiungeranno se non avranno alcun motivo per darci la caccia. E non dobbiamo fare altro che eliminare il motivo. Facciamo in modo che i primi arrivati trovino il karwansarai deserto. Lasciamoli presumere che il proprietario sia uscito per qualche motivo... che sia andato magari a uccidere una pecora da mettere in dispensa. Potrebbero trascorrere giorni prima che giungano altri viaggiatori, e giorni ancora prima che comincino a domandarsi dove si trova il proprietario. Prima che qualcuno dei Pervertiti cominci a cercarlo e prima che, non trovandolo, cominci a sospettare qualcosa, noi saremo partiti da un pezzo e ci troveremo molto lontani da qui e loro non riuscirebbero più a rintracciarci.» «Dobbiamo portare con noi il cadavere?» domandò zio Maffeo. «Correndo, così, il rischio di un incontro imbarazzante prima di essere arrivati lontano?» Mio padre scosse la testa. «Ma non possiamo neppure gettarlo nel pozzo del karwansarai, o nasconderlo o seppellirlo. Chiunque arrivasse, andrebbe per prima cosa ad attingere acqua. E ogni arabo ha lo stesso fine senso dell'odorato di un segugio nel fiutare un nascondiglio o la terra rivoltata di fresco.» «Né sottoterra, né nell'acqua» disse zio Maffeo. «Rimane una sola altra alternativa. Sarà bene che provveda prima di vestirmi.» «Sì» disse mio padre, e si voltò verso di me. «Marco, fa il giro di tutto questo karwansarai e cerca qualche coperta per sostituire quelle dello zio. E, già che ci sei, vedi se ti riesce di trovare qualche arma da portare con noi là ove siamo diretti.» L'ordine mi era stato dato, ovviamente, per togliermi di mezzo mentre loro avrebbero fatto quel che si accingevano a fare. E mi occorse parecchio tempo per eseguirlo, in quanto il karwansarai era antico e doveva avere avuto tutta una lunga sequela di proprietari, ognuno dei quali si era dato da fare con nuove aggiunte. L'edificio principale sembrava una conigliera di corridoi, di stanze, di sgabuzzini e di ripostigli; v'erano poi le scuderie, le stalle, i recinti per le pecore e altri edifici annessi. Ma il vecchio, evidentemente sentendosi al sicuro grazie alle sue droghe e ai suoi inganni, non si era preoccupato troppo di nascondere quel che possedeva. A giudicare dal gran numero di
armi e di provviste, doveva proprio essere stato, se non il vero Vecchio della Montagna, per lo meno il principale fornitore dei Mulahida. Scelsi anzitutto, tra la considerevole riserva del necessario per viaggiare, le due migliori coperte di lana. Poi frugai tra le armi e, anche se non mi riuscì di trovare alcuna spada diritta, come quelle cui eravamo abituati noi veneziani, presi le più lucenti e le più affilate tra le lame del tipo locale. Si trattava di lame larghe e ricurve - più che altro sciabole, essendo affilate soltanto lungo l'orlo esterno; venivano denominate shimshir, che significa «leone silenzioso». Ne presi tre, una per ognuno di noi, e presi inoltre cinturoni con anelli ai quali appenderle. Avrei potuto rimpinguare ulteriormente le nostre borse, in quanto Luna della Fede aveva messo da parte una piccola fortuna sotto forma di sacchetti di banji essiccato, forme di banji compresso, nonché flaconi di olio di banji. Ma lasciai tutto dove si trovava. L'alba stava spuntando quando portai ciò che avevo trovato nella stanza principale, ove avevamo cenato la sera prima. Mio padre stava preparando la colazione davanti al braciere, ed era quanto mai circospetto nella scelta degli ingredienti. Proprio mentre entravo, udii una serie di strepiti nel cortile: un lungo sibilo frusciante, un sonoro "klop"! e un urlo stridulo, "kya"! Poi zio Maffeo entrò dal cortile, ancora nudo, con la pelle spruzzata di sangue e la barba che sapeva di fumo. Disse, in tono soddisfatto: «Il vecchio demonio non esiste più, e se n'è andato come desiderava. Ho bruciato anche i suoi indumenti e le coperte, e disperso le ceneri. Possiamo ripartire non appena ci saremo vestiti e avremo finito di mangiare.» Capii, naturalmente, che a Luna della Fede non era stata data alcuna sepoltura, bensì esequie nonmusulmane all'estremo; questo mi rese curioso a proposito del significato delle parole di zio Maffeo, «se n'è andato come desiderava». Gli domandai che cosa avesse voluto dire, e lui ridacchiò e rispose: «Quel che rimaneva di lui è volato verso sud. Nella direzione della Mecca.»
BAGDAD.
1. Continuammo a seguire a valle il corso del Furat, sempre in direzione sud-est, attraversando ora una regione particolarmente priva di attrattive, ove il fiume aveva scavato il proprio letto in compatte rocce basaltiche - un territorio squallido e nero e privo persino d'erba, di piccioni e di aquile - ma non venimmo inseguiti, comunque, né dai Pervertiti, né da chiunque altro. E, a poco a poco, come per festeggiare la nostra liberazione dal pericolo, i dintorni divennero più ameni e ospitali. Il terreno cominciò a innalzarsi percettibilmente a entrambi i lati del fiume, finché quest'ultimo prese a scorrere in una vallata ampia e verdeggiante. V'erano frutteti e foreste, pascoli e fattorie, fiori e frutti. Ma i frutteti sembravano sterposi e abbandonati come le foreste, e le fattorie invase dalle erbacce come i campi di fiori selvatici. Tutti i proprietari dei terreni non si trovavano più lì, e le sole persone che incontrammo nella vallata furono famiglie nomadi di pastori bedawin, i vagabondi senza terra e senza radici che vagavano in quella valle come ovunque vi fossero pascoli. In nessun luogo trovammo persone che risiedessero lì stabilmente e faticassero per impedire alla terra, un tempo lavorata, di regredire allo stato selvaggio. «Questa è l'opera dei Mongoli» disse mio padre. «Quando l'Ilkhan Hulagu - vale a dire il Minore dei Hulagu Khan, fratello del nostro amico Qubilai - invase questo paese e distrusse l'Impero persiano, quasi tutti i Persiani morirono o fuggirono, e i superstiti non sono ancora tornati a lavorare di nuovo le loro terre. Ma gli Arabi nomadi e i Curdi sono come l'erba grazie alla quale vivono e della quale vanno continuamente in cerca. I bedawin si piegano, noncuranti, dinanzi a qualsiasi vento possa soffiare - sia esso una dolce brezza o il violento simùm - ma poi tornano a raddrizzarsi,
proprio come fa l'erba. I nomadi non si curano di chi governa il paese, né se ne cureranno mai fino alla fine del tempo, purché il paese stesso rimanga.» Mi voltai sulla sella, contemplando il paesaggio tutto attorno a noi, la regione più fertile e più promettente che avessimo mai veduto durante il nostro viaggio, e domandai a mio padre: «Chi governa la Persia, adesso?» «Quando Hulagu morì, gli succedette, come Ilkhan, Abaga, ed egli ha fondato una nuova capitale nella città di Maraghegh, situata al nord, anziché a Bagdad. Sebbene l'impero persiano faccia ora parte del Khanato mongolo, continua ad essere diviso, come in passato, in Shahnati, per facilitare l'azione di governo. Ma ogni Scià è sottoposto all'Ilkhan Abaga, così come l'Ilkhan Abaga è sottoposto al Khakhan Qubilai.» Rimasi colpito. Sapevo che ci trovavamo ancora a molti mesi di faticoso viaggio dalla città ove si trovava la corte di quel Khakhan Qubilai. Ma già lì, all'estremo limite occidentale della Persia, "già lì" ci trovavamo entro i confini dell'impero di quel lontanissimo Khan. A scuola avevo studiato, con la più grande ammirazione e con sommo entusiasmo, "Il libro di Alessandro" e pertanto sapevo che la Persia aveva fatto parte un tempo dell'impero di quel conquistatore e che quell'impero era stato talmente vasto da meritargli l'appellativo di «il Grande». Eppure le terre conquistate e dominate dal Macedone comprendevano appena un piccolo frammento del mondo se paragonate alle immensità occupate da Gengis Khan e ulteriormente ampliate dai figli conquistatori di lui, fino a divenire l'inimmaginabilmente immenso Impero Mongolo, sul quale regnava adesso il nipote Qubilai, come Khan di tutti i Khan. Credo che né gli antichi Faraoni, né l'ambizioso Alessandro, né gli avidi Cesari abbiano mai sognato che esistesse un mondo così vasto e che, pertanto, difficilmente possano essersi proposti di impadronirsene. Quanto a tutti i successivi governanti dell'Occidente, le loro ambizioni e le loro conquiste sono state ancora più misere. In confronto all'Impero Mongolo, l'intero continente denominato Europa sembra non essere altro che una piccola e affollata penisola, e tutte le sue nazioni, come quelle del Levante, sembrano non essere altro che piccole province permalosamente presuntuose. Dall'altezza sulla quale siede sul trono il Khakhan, la mia natia Repubblica di Venezia, fiera della sua gloria e della sua grandezza, deve sembrare insignificante come la piccola Suvediye dell'Ostikhan Hampig. Se i cultori della storia continuano a onorare Alessandro con il titolo di Grande, senza dubbio dovrebbero riconoscere che Qubilai è immensamente più grande. Ma non spetta a me dirlo. Posso dire comunque che, entrando nella Persia, mi sentii percorso da un fremito di commozione mentre mi rendevo conto che una creatura insignificante come me stava ponendo piede nell'impero più immenso che sia mai stato governato da un solo uomo nel corso di tutti gli innumerevoli anni trascorsi da quando esiste il mondo degli uomini. «Una volta giunti a Bagdad» continuò mio padre «mostreremo all'attuale Scià, chiunque egli possa essere, la lettera di Qubilai. E lo Scià dovrà darci il benvenuto, in quanto ambasciatori accreditati del suo signore.» Così proseguimmo lungo il Furat e vedemmo la valle sempre più segnata dalle tracce della civiltà, poiché la intersecavano adesso numerosi canali di irrigazione che si diramavano dal fiume. Tuttavia, le torreggianti ruote di legno, nei canali, non venivano fatte girare né da uomini né da animali; rimanevano immobili e gli orci di argilla intorno ai loro orli non sollevavano e non riversavano l'acqua. Nel tratto più ampio e più verdeggiante della vallata, il Furat si avvicina al massimo all'altro grande fiume che scorre a sud nel paese, il Dijlah, talora denominato Tigri, che si suppone sia a sua volta uno dei fiumi del Paradiso Terrestre. Se è vero, allora il territorio tra i due corsi d'acqua dovrebbe presumibilmente essere stato quel biblico Paradiso. E, se "così" stanno le cose, allora il Paradiso Terrestre, quando lo vedemmo noi, era deserto di uomini e donne che vi risiedessero, come lo fu immediatamente dopo la cacciata di Adamo ed Eva. In quei pressi voltammo i cavalli a est, rispetto al Furat, percorremmo le dieci farsakh che lo separano dal Dijlah e attraversammo quest'ultimo fiume grazie al ponte là esistente - fatto di vuoti scafi di imbarcazioni che sorreggono una strada di assi - giungendo così a Bagdad, sulla riva orientale.
La popolazione della città, come quella delle campagne circostanti, era tragicamente diminuita durante l'assedio e la conquista di Hulagu. Ma, nella quindicina d'anni successivi, gran parte del popolino aveva fatto ritorno e si era accinto a riparare i danni subiti da Bagdad. I mercanti cittadini, a quanto sembra, hanno più capacità di ricupero dei contadini. Come i primitivi bedawin, gli uomini civilizzati che si dedicano ai commerci sembrano riaversi rapidamente dall'abbattimento del disastro. Nel caso di Bagdad questo poté forse accadere perché molti dei suoi mercanti non erano Musulmani passivi e fatalistici, bensì Ebrei e Cristiani irreprimibilmente energici - alcuni dei quali provenivano originariamente da Venezia ma probabilmente molti di più da Genova. O forse Bagdad riuscì a riprendersi perché è una città così "necessaria", situata a un importante crocicchio dei commerci. Oltre ad essere il termine occidentale della Via della Seta, che giunge qui dall'entroterra, è il termine settentrionale delle rotte marittime dalle Indie. La città non è situata sulla costa, naturalmente, ma il fiume Dijlah sopporta un traffico massiccio di grandi battelli fluviali, che lo discendono sul filo della corrente o lo risalgono spinti mediante lunghi pali, andando a Bassora, al sud, sul Golfo Persico, ove approdano le navi arabe, o venendone. In ogni modo, quale che possa essere la benefica ragione, Bagdad era, quando vi giungemmo noi, come era stata prima dell'arrivo dei Mongoli: un centro di commerci ricco, vitale e animatissimo. Ed era una città bella quanto animata. Di tutte le città dell'Oriente ch'io avevo veduto fino ad allora, Bagdad fu quella che più mi ricordò la mia natia Venezia. Il suo lungofiume sul Dijlah era affollato e tumultuoso e ingombro e ricco di odori come la Riva di Venezia, sebbene le navi che si potevano vedere lì - tutte costruite da Arabi e con equipaggi Arabi - non fossero in alcun modo paragonabili alle nostre. Erano imbarcazioni mal fatte in modo allarmante per essere affidate all'acqua, costruite completamente senza chiodi o rinforzi di ferro di qualsiasi genere, il fasciame essendo invece trattenuto insieme, e come "cucito", con corde di una qualche rozza fibra. Gli interstizi non venivano resi impermeabili all'acqua mediante la pece, ma con una sorta di lardo ricavato dall'olio di pesce. E anche il più grande di questi battelli aveva un solo remo per dirigerlo, un remo per giunta non molto manovrabile, essendo saldamente imperniato a metà poppa. Un altro particolare deplorevole di queste imbarcazioni arabe consisteva nel modo tutt'altro che schizzinoso con il quale veniva stivato il carico. Dopo aver riempito la stiva, ad esempio, con una partita di soli generi commestibili - datteri e frutta e cereali e così via - i barcaioli arabi potevano poi pigiare, sul ponte sovrastante la stiva, bestiame vario. Si trattava, non di rado, di splendidi cavalli arabi; e sono animali meravigliosi, ma si liberano degli escrementi frequentemente ed enormemente come tutti gli altri cavalli, per cui orina e feci si infiltravano e colavano tra le assi sul carico di commestibili nella stiva sottostante. Bagdad non è, come Venezia, intersecata da canali, ma le sue strade vengono costantemente annaffiate con acqua allo scopo di fermare la polvere, per cui hanno un'umida fragranza che a me ricordava i canali. Inoltre nella città si trovano molti e vasti spazi aperti equivalenti ai campielli di Venezia. Alcuni sono bazar, vale a dire mercati, ma in genere si tratta di giardini pubblici, poiché i Persiani amano appassionatamente i giardini. (Imparai lì che la parola "farsi" per dire giardino, pairi-daeza, è divenuta il Paradiso della nostra Bibbia.) In questi giardini pubblici si trovano panche affinché i passanti possano riposare; vi scorrono rivoletti, vi dimorano numerosi uccelli, e vi sono alberi e cespugli e piante olezzanti e fiori luminosi - in particolare le rose, poiché i Persiani hanno una passione per le rose. (Chiamano ogni fiore «gul», sebbene questa parola "farsi" significhi specificamente rosa.) Inoltre, i palazzi delle famiglie nobili e le case più vaste dei ricchi mercanti sorgono intorno a giardini privati, vasti quanto quelli pubblici e altrettanto ricchi di rose e di uccelli, molto simili a paradisi terrestri. Mi ero messo in mente, presumo, che le parole musulmane e arabe fossero intercambiabili e, per conseguenza, che ogni comunità musulmana non si differenziasse in alcun modo - per quanto concerneva la sporcizia, i parassiti, i mendicanti e i fetori - dalle città, dalle cittadine e dai villaggi arabi attraverso cui ero passato. Rimasi perciò piacevolmente sorpreso constatando che i Persiani, sebbene la loro religione sia quella islamica, sono più propensi a mantenere pulite le abitazioni, le strade, gli indumenti e le loro stesse persone. Questo, oltre all'abbondanza di fiori ovunque, e ad una
relativa scarsità di mendicanti, faceva di Bagdad una città piacevolissima e persino profumata, tranne - per logica necessità di cose - sul lungofiume e nei bazar. Sebbene gran parte dell'architettura di Bagdad sia, come è ovvio, tipicamente orientale, anch'essa non apparve del tutto esotica ai miei occhi di occidentale. Vidi molti di quei lavori in pietra, gli «arabeschi» simili a filigrane o a pizzi, che anche Venezia ha adottato per le facciate di alcuni dei suoi edifici. Bagdad, essendo tuttora una città musulmana, anche se assorbita nel Khanato - poiché i Mongoli, diversamente dalla maggior parte dei conquistatori, non impongono ovunque un qualsiasi cambiamento di religione - era costellata da quei grandi edifici di culto musulmani che sono le masjid. Ma le loro immense cupole non differiscono molto dalle cupole di San Marco e delle altre chiese di Venezia. Le loro esili guglie, i manarat, non sembravano troppo dissimili dai campanili di Venezia, a parte il fatto che erano generalmente dì pianta rotonda anziché quadrata, e che avevano, alla sommità, piccoli balconi dai quali i muezzin gridavano a intervalli per annunciare le ore della preghiera. Questi muezzin di Bagdad, sia detto di sfuggita, erano tutti ciechi. Domandai se si trattasse di una qualifica indispensabile per il loro incarico, di un qualcosa richiesto dalla religione islamica, e mi venne risposto negativamente. I ciechi annunciavano l'ora delle preghiere dall'alto dei manarat per due ragioni pratiche. Essendo inadatti a quasi tutte le altre occupazioni, non potevano pretendere una gran paga per quel lavoro. Né potevano peccaminosamente approfittare della loro posizione letteralmente elevata; infatti non era loro possibile adocchiare dall'alto le donne oneste che salivano sul tetto della loro casa per togliersi il velo - o anche qualcosa di più - e fare in privato il bagno di sole. All'interno, i templi masjid differiscono considerevolmente dalle nostre chiese cristiane. In nessuno di essi, ovunque, si trovano mai statue o dipinti o altre immagini riconoscibili. Sebbene l'Islam riconosca, credo, tanti angeli e santi e profeti quanti ne annovera la cristianità, non consente alcuna loro rappresentazione, né alcuna rappresentazione di ogni altra creatura vivente o che mai sia vissuta. I Musulmani credono che il loro Allah, come il nostro Dio Onnipotente, abbia creato tutte le cose esistenti. Ma, diversamente da noi cristiani, sostengono che ogni cosa creata, anche se trattasi di un'imitazione della vita, dipinta o scolpita nel legno o nella pietra, debba essere riservata in eterno ad Allah. Il loro Corano li ammonisce: il Giorno del Giudizio, a chiunque abbia creato una di queste immagini, verrà imposto di farla vivere; e se egli non vi riuscirà - e naturalmente non può riuscirvi - finirà all'inferno per la sua presunzione. Di conseguenza, sebbene una masjid musulmana, o anche un palazzo o una dimora, siano sempre ricche di decorazioni, queste decorazioni non rappresentano mai immagini di qualcosa; consistono soltanto di disegni geometrici, colori e intricati arabeschi. A volte, però, intrecciate nei disegni, si possono distinguere le lettere simili a vermi dell'alfabeto arabo, le quali formano qualche frase o qualche verso del Corano. (Imparai queste varie cose insolitamente strane dell'Islam - e imparai inoltre svariate altre cose insolitamente bizzarre - perché, mentre rimanevo a Bagdad, trovai dapprima uno e poi un altro insolito insegnante, dei quali parlerò tra poco.) Mi affascinò, in particolare, una forma di decorazione che vidi nelle sale interne di ogni edificio pubblico e privato a Bagdad. Dovrei dire che la vidi per la prima volta in quella città, ma in seguito la notai anche in altri palazzi, case e templi di tutta la Persia e di gran parte dell'Oriente. Secondo me potrebbe essere vantaggiosamente adottata ovunque da tutti coloro che amano i giardini; e chi mai non ama i giardini? Si tratta di un modo per portare un giardino "al chiuso", pur senza essere mai costretti a curarlo, a strappare le erbacce o ad annaffiarlo. Denominato in Persia qali, è una sorta di tappeto o di arazzo disteso sul pavimento o appeso a una parete, ma diverso da ogni altro lavoro del genere noto in Occidente. Nel qali si vedono tutti i colori di un giardino lussureggiante e inoltre vi si scorgono le forme di moltitudini di fiori, rampicanti, foglie, graticci - tutto ciò che si può trovare in un giardino e tutto disposto in modo decorativamente piacevole. (Per rispettare, tuttavia, il divieto del Corano sulle immagini, un qali persiano è fatto in modo che nei fiori non si possano riconoscere fiori realmente esistenti.) Vedendo per la prima volta un qali, pensai che il giardino fosse dipinto o
ricamato su di esso. Ma, esaminandolo meglio, constatai che tutti quegli intricati particolari erano "intrecciati in esso". Mi stupì il fatto che un tappezziere riuscisse a creare qualcosa di così fantasioso con un mero telaio e fili di lana colorati, e trascorse qualche tempo prima che scoprissi il modo meraviglioso con il quale si creano questi capolavori. Ma sono già andato troppo avanti con il mio racconto. Noi tre conducemmo i cinque cavalli sul dondolante e ondulato ponte di imbarcazioni che attraversa il fiume Dijlah. Sul lungofiume di Bagdad, brulicante di uomini di ogni colore, di ogni costume e di ogni lingua, avvicinammo il primo che vedemmo indossare abiti occidentali. Era un genovese, ma devo far rilevare che, in Oriente, tutti gli occidentali vanno abbastanza convivialmente d'accordo persino i genovesi e i veneziani, sebbene siano rivali nei commerci, e anche se le loro repubbliche possono essere coinvolte in una delle frequenti guerre marittime. Il mercante genovese ci disse amabilmente il nome dello Scià allora al potere - lo pronunciò «Shahinshah Zaman Mirza» - e ci spiegò dove si trovava il palazzo, «nel quartiere Karkh, che è il grande quartiere della città riservato esclusivamente alla regalità.» Là ci recammo e trovammo il palazzo circondato da un giardino chiuso da cancellate, e spiegammo chi eravamo alle guardie al cancello. Queste guardie portavano elmetti che sembravano fatti d'oro puro - ma questo non poteva essere, altrimenti il loro peso sarebbe stato intollerabile -; in ogni modo, se anche erano soltanto di legno o di cuoio rivestiti d'oro, si trattava di oggetti di grande valore. Erano inoltre oggetti interessanti, essendo foggiati in modo da far sembrare che chi li portava avesse folti e ricciuti capelli dorati e lunghe fedine. Una delle guardie attraversò il giardino verso il palazzo. Quando tornò indietro e ci fece cenno, un'altra guardia prese in consegna i nostri cavalli e noi entrammo. Venimmo condotti in una sala con vividi qali alle pareti e sul pavimento; lì sedeva lo Shahinshah, disteso a mezzo su un mucchio di cuscini dai colori altrettanto vividi e dai bei tessuti. Lo Scià, quanto a lui, non vestiva altrettanto vistosamente; dal turbante alle pantofole, quel che indossava era di un uniforme marrone chiaro. E' questo il colore persiano del lutto, e lo Scià portava ormai sempre vesti marrone chiaro per piangere il suo impero perduto. Rimanemmo alquanto stupiti - essendo quella una dimora musulmana - nel vedere che una donna occupava un altro mucchio di cuscini accanto a lui, e che v'erano per giunta altre due femmine nella sala. Facemmo gli opportuni inchini, poi mio padre, sempre piegato in due, salutò lo Shahinshah nella lingua "farsi", quindi sollevò, sul palmo delle due mani, la lettera di Qubilai Khan. Lo Scià la prese e ne lesse a voce alta la formula introduttiva: «'Serenissimi, Potentissimi, Eccelsi, Nobili, Illustri, Onorati, Savi e Prudenti Imperatori, Ilkhan, Scià, Re, Signori, Prìncipi, Duchi, Conti, Baroni e Cavalieri, nonché Magistrati, Ufficiali, Giudici e Reggenti di tutte le buone città e i buoni luoghi, sia ecclesiastici sia secolari, che leggerete questa lettera di presentazione o che la udirete leggere...'» Dopo aver letto fino in fondo, lo Shahinshah ci diede il benvenuto, rivolgendosi a ciascuno di noi con le parole «Mirza Polo». Questo mi confuse un po' le idee, in quanto mi sembrava di aver capito che Mirza fosse uno dei "suoi" nomi. Ma, a poco a poco, arguii che si stava servendo di quella parola come di un termine rispettoso e onorifico, così come gli Arabi si servono della parola Sceicco. E in ultimo mi resi conto che Mirza, quando precede il nome di una persona, ha semplicemente lo stesso significato di Messere a Venezia, mentre, quando segue il nome, significa regalità. Il nome dello Scià era in realtà, e semplicemente, Zaman e il titolo di Shahinshah significava Scià di tutti gli Scià; egli ci presentò inoltre la dama accanto a luci come la sua Regale Prima Consorte, o Shahryar, il cui nome era Zahd. Quel giorno lo Scià di tutti gli Scià non disse quasi altro poiché, una volta presentata e ammessa nella conversazione, la Shahryar Zahd dimostrò di essere di una loquacità esuberante e sconfinata. Dapprima interrompendo il marito, poi impedendogli di parlare, ci diede il suo benvenuto in Persia e a Bagdad e nel palazzo, quindi rimandò al cancello la guardia che ci aveva accompagnati, fece vibrare con un martelletto il piccolo gong che aveva accanto a sé per chiamare un maggiordomo del palazzo che, ci disse, veniva denominato wazir, e ordinò al wazir di prepararci alloggi nel palazzo
stesso e di assegnarci servi; quindi ci presentò alle altre due femmine nella sala. Una era sua madre, l'altra la figlia maggiore di lei e dello Scià Zaman. Ci fece sapere che ella stessa, Zahd Mirza, era una diretta discendente della favolosa Balkis, Regina di Saba - così come, naturalmente, lo erano sua madre e sua figlia - e ci rammentò che il famoso incontro della Regina Balkis con il Padshah Solaiman figurava negli annali dell'Islam nonché di quelli del giudaismo e della cristianità (precisazione che mi consentì di riconoscere la biblica Regina di Saba e Re Salomone), facendoci sapere inoltre che la stessa Regina di Saba, Balkis, era una jinniyeh, discendente di un demone a nome Eblis, il quale era il jinn a capo di tutti i demoni jinn, e inoltre... «Diteci, Mirza Polo» intervenne lo Scià, quasi con disperazione, rivolto a mio padre, «qualcosa del vostro viaggio sin qui.» Mio padre, compiacente, cominciò a fare un resoconto delle nostre peregrinazioni, ma non ci aveva nemmeno ancora fatti uscire dalla laguna di Venezia quando la Shahryar Zahd intervenne con una lirica descrizione di alcuni oggetti di vetro soffiato di Murano che aveva acquistato poco tempo prima da un mercante veneziano lì a Bagdad, e questo le rammentava il vecchio, ma poco noto, racconto persiano di un soffiatore di vetro che, una volta, aveva foggiato un cavallo di vetro soffiato e persuaso un jinn a pronunciare una certa formula magica in seguito alla quale il cavallo era riuscito a volare come un uccello e... Il racconto era abbastanza interessante, ma poco credibile, per cui rivolsi lo sguardo verso le altre due femmine presenti nella sala. La presenza stessa di quelle donne a una riunione di uomini - per non parlare dell'irreprimibile loquacità della Shahryar - dimostrava che i Persiani non isolavano e sequestravano e soffocavano le loro donne come fanno quasi tutti gli altri Musulmani. Gli occhi di ognuna di quelle femmine erano visibili al di sopra di un mero mezzo chador che, essendo per giunta trasparente, non nascondeva né il naso, né la bocca, né il mento. Sulla parte superiore del corpo esse indossavano una blusa e una sorta di corpetto, mentre le gambe erano avvolte dal voluminoso pi-jamah. Tuttavia questi indumenti non erano pesanti e molteplici come quelli delle donne arabe, ma leggeri come veli e traslucidi, per cui le forme dei loro corpi potevano essere vedute facilmente e apprezzate. Mi limitai a rivolgere un solo sguardo all'anziana nonna: rugosa, scheletrica, gobba, quasi calva, con le gengive sdentate che mordicchiavano le labbra granulose, gli occhi infiammati e lagrimosi, le tette avvizzite che ricadevano su costole sporgenti. Un'occhiata alla vecchia megera fu sufficiente per me. Ma la figlia, la Shahryar Zahd Mirza, era una donna straordinariamente bella, quando non parlava, in ogni modo; e la figlia di "lei" era una ragazza superbamente splendida e ben fatta, press'a poco della mia stessa età. Si trattava della Principessa ereditaria, o Shahzrad. Si chiamava Magas, che significa Falena, e il suo nome doveva essere seguito dal titolo regale di Mirza. Ho dimenticato di dire che i Persiani non sono, come gli Arabi, di carnagione scura. Sebbene abbiano tutti capelli corvini e la barba nero-bluastra come quella di zio Maffeo, la loro pelle è chiara come quella di qualsiasi veneziano, e molti di essi hanno gli occhi di un colore più chiaro del castano. La Shahzrad Magas Mirza mi stava valutando con occhi di un verde smeraldo. «A proposito di cavalli» disse lo Scià, prendendo lo spunto dalla conclusione del racconto sul cavallo volante, prima che a sua moglie potesse venire in mente qualche altra fiaba, «voi gentiluomini dovreste prendere in considerazione la convenienza di barattare i vostri cavalli con cammelli prima di ripartire da Bagdad. A est di qui dovrete attraversare il Dasht-e-Kavir, un deserto vasto e terribile. I cavalli non possono sopportare la...» «I cavalli dei Mongoli l'hanno sopportata» lo contraddisse sua moglie in tono aspro. «Un mongolo va ovunque a cavallo e nessun mongolo monterebbe mai un cammello. Vi dirò io come disprezzano e maltrattano i cammelli. Quando stavano assediando questa città, i Mongoli catturarono, non so dove, un branco di cammelli, li caricarono con balle di erba secca, appiccarono il fuoco a quel fieno, e lanciarono le povere bestie nelle strade di Bagdad. I cammelli, sentendosi bruciare il mantello e anche le gobbe di grasso, si diedero a una pazza fuga a causa della sofferenza e non poterono essere fermati. Percorsero così al galoppo le nostre strade, appiccando incendi in gran
parte di Bagdad prima di stramazzare, le fiamme avendoli penetrati, raggiungendo i loro organi vitali, e di morire.» «Oppure» ci disse lo Scià, quando la Shahryar si interruppe per riprendere fiato, «il vostro viaggio potrebbe essere accorciato di molto se procedeste in parte per mare. Potreste proseguire a sud-est, fino a Bassora - o anche più in giù nel Golfo, fino a Hormuz - e imbarcarvi su qualche nave che salpasse per l'India.» «A Hormuz» disse la Shahryar Zahd «ogni uomo ha soltanto il pollice e le due dita esterne della mano destra. E vi dirò io perché. Questa città portuale ha tesoreggiato per secoli la propria importanza e la propria indipendenza, per cui ogni cittadino adulto è sempre stato addestrato come arciere allo scopo di difenderla. Quando i Mongoli guidati dall'Ilkhan Hulagu cinsero d'assedio Hormuz, l'Ilkhan fece una proposta ai Padri della città. Hulagu disse che avrebbe lasciato intatta Hormuz, consentendole di restare indipendente e di avere i propri arcieri, se soltanto i Padri della città gli avessero "prestato" gli arcieri stessi quel tanto che bastava per aiutarlo a occupare Bagdad. In seguito, promise, avrebbe consentito agli uomini di tornare a Hormuz e di esserne di nuovo i devoti difensori. La proposta venne accettata e tutti gli arcieri della città - sia pure con riluttanza - si unirono a Hulagu nell'assedio di Bagdad e si batterono bene per lui, e in ultimo la nostra diletta Bagdad cadde.» Sia lei, sia lo Scià emisero un profondo sospiro. «Bene» ella continuò. «Hulagu era rimasto talmente colpito dal valore e dalla prodezza degli uomini di Hormuz, che li mandò a letto con tutte le giovani donne mongole le quali accompagnano sempre i loro eserciti. Hulagu voleva aggiungere la potenza del seme della gente di Hormuz alle nuove generazioni mongole, capite. Dopo alcune notti di questa coabitazione forzata, quando Hulagu ritenne che le sue femmine fossero state sufficientemente fecondate, mantenne la promessa e liberò gli arcieri affinché facessero ritorno a Hormuz. Ma, prima di lasciarli andare, fece amputare a ciascun uomo le due dita che tendono la corda dell'arco. In breve, Hulagu colse i frutti degli alberi e poi li abbatté. Quegli uomini mutilati non potevano più difendere in alcun modo Hormuz e, naturalmente, anche quella città, come la nostra amata e sconfitta Bagdad, entrò ben presto a far parte del Khanato mongolo.» «Mia cara» disse lo Scià, e parve turbato, «questi gentiluomini sono emissari del Khanato. La lettera che mi hanno mostrato è dello stesso Khakhan Qubilai. Dubito molto che possano divertirsi udendo narrare episodi del... ehm... comportamento piuttosto scorretto dei Mongoli.» «Oh, potete pur dire "atrocità", Scià Zaman» tuonò cordialmente zio Maffeo. «Noi continuiamo ad essere veneziani, non siamo Mongoli adottivi né loro apologisti.» «Allora devo assolutamente descrivervi» esclamò la Shahryar, protendendosi di nuovo avidamente in avanti, «il modo orribile con il quale Hulagu trattò il nostro Qalif al-Mustasim Billah, l'uomo più santo dell'Islam.» Lo Scià emise un nuovo sospiro, e tenne lo sguardo fisso verso l'angolo più lontano della sala. «Come forse sapete, Mirza Polo, Bagdad era per l'Islam quello che è Roma per la Cristianità. E il Qalif di Bagdad era, per i Musulmani, quello che è il Papa per voi Cristiani. Così, quando Hulagu cinse d'assedio questa città, presentò le condizioni della resa al Qalif Mustasim e non allo Scià Zaman.» A questo punto ella scoccò un'occhiata sprezzante al marito. «Hulagu offriva di togliere l'assedio qualora il Qalif avesse accettato determinate richieste, tra le quali la consegna di una grande quantità d'oro. Il Qalif rifiutò dicendo: 'Il nostro oro sostiene il Santo Islam'. E lo Scià regnante non annullò questa decisione.» «Come avrei potuto?» disse lo Scià, debolmente, come se la questione fosse già stata dibattuta a lungo molte altre volte. «Il capo spirituale è superiore per rango a quello temporale.» Sua moglie continuò, implacabile: «Bagdad avrebbe potuto resistere ai Mongoli e ai loro alleati di Hormuz, ma non poté resistere alla fame causata dall'assedio. La nostra popolazione mangiò tutto ciò che era ingeribile, anche i topi, ma andò indebolendosi sempre e sempre più, e molti morirono e gli altri non furono più in grado di combattere. Quando la città cadde, inevitabilmente, Hulagu fece imprigionare e gettare, solo, in una cella, il Qalif Mustasin, affamandolo più che mai. In ultimo, il sant'uomo dovette chiedere supplichevole un po' di cibo. Hulagu, con le sue stesse mani, gli porse
un piatto colmo di monete d'oro, e il Qalif gemette: 'Nessun uomo al mondo può nutrirsi d'oro'. Hulagu disse: 'Affermasti che sosteneva, quando io te lo chiesi. Non ha sostenuto la tua santa città? Prega, allora, affinché sostenga anche te. ' E fece fondere l'oro e versare quel metallo liquido e incandescente nella gola del vecchio, uccidendolo in un mondo orribile. Mustasin fu l'ultimo rappresentante del califfato, che aveva una storia di oltre cinquecento anni, e adesso Bagdad non è più la capitale né della Persia, né dell'Islam.» Noi, doverosamente, scuotemmo la testa in segno di commiserazione, e questo incoraggiò la Shahryar ad aggiungere: «Per darvi un esempio di quanto in basso è stato fatto cadere lo Shahnato: costui, mio marito, Shah Zaman, che un tempo era Shahinshah di tutto l'Impero della Persia, ora addirittura alleva piccioni e coglie ciliege!» «Mia cara...» mormorò lo Scià. «E' vero. Uno dei piccoli Khan - non so dove, all'est: non lo abbiamo mai incontrato - va matto per le ciliege mature. E' inoltre un appassionato di piccioni e i suoi piccioni sono stati addestrati a tornare sempre alla dimora di lui, ovunque possano essere stati portati. Così ora vi sono alcune centinaia di quei topi piumati in una colombaia dietro le scuderie del palazzo, e, per ognuno di essi, esiste un minuscolo sacchetto di seta. L'Imperatore mio marito ha ricevuto ordini precisi. La prossima estate, quando la frutta maturerà nei nostri frutteti, dovremo cogliere le ciliege, metterne una o due in ogni sacchettino, legare i sacchetti alle zampe dei piccioni e liberare questi ultimi. Come l'uccello rukh che porta via uomini e leoni e principesse, i piccioni porteranno le nostre ciliege all'Ilkhan in attesa. Se non verseremo questo tributo umiliante, egli verrà senza dubbio dall'oriente e di nuovo distruggerà la nostra città.» «Mia cara, sono certo che i gentiluomini siano ormai stanchi... per aver viaggiato sin qui» disse lo Scià e parve stanchissimo egli stesso. Fece vibrare il gong per chiamare, una volta di più, il wazir, e, rivolto a noi, soggiunse: «Desiderate di certo riposare e rinfrescarvi. Poi, se vorrete farmi l'onore, ci ritroveremo per il pasto serale.» Il wazir, un uomo malinconico, di mezza età, a nome Jamshid, ci mostrò l'alloggio assegnatoci, tre stanze comunicanti. Erano bene arredate, con molti qali sui pavimenti e alle pareti e finestre intagliate in pietra nelle quali si trovavano inseriti vetri, e soffici letti di trapunte e cuscini. I nostri bagagli erano già stati tolti dai cavalli e portati lì. «Ed ecco un servo per ognuno di voi» disse il wazir Jamshid, facendo entrare tre giovani, snelli e glabri. «Sono tutti esperti nell'arte indiana del champna, e la eserciteranno per voi dopo che sarete stati nell'hammam.» «Ah, sì» disse zio Maffeo, e parve compiaciuto. «Non ci siamo goduti più un vero sciampo da quando passammo per il Tadzhikistan.» E così potemmo avere di nuovo la pulizia a fondo e il ristoro di un hammam, un hammam elegantemente arredato, questa volta, nel quale i nostri tre giovincelli ci massaggiarono. E in seguito giacemmo nudi sui nostri singoli letti, ognuno nella propria stanza, per quello che veniva denominato il champna, o sciampo, come aveva pronunciato la parola mio zio. Non avevo idea di che cosa aspettarmi; a giudicare dal suono si sarebbe detto che potesse trattarsi di una esibizione di danza. Invece risultò essere un vigoroso strofinare e battere con i pugni e «impastare» tutto il mio corpo, il tutto molto più energicamente del massaggio nell'hammam e con l'intenzione non già di spremere la sporcizia fuori dalla pelle, ma di lavorare ogni parte del corpo in modo da far sentire un uomo ancor più in perfetta salute e più rinvigorito di quanto possa ottenere il bagno hammam. Il mio giovane servo, Karim, mi martellò e pizzicò e impastò, e a tutta prima fu doloroso. Ma dopo qualche tempo i muscoli, le giunture e i tendini, irrigiditi dalle interminabili cavalcate, cominciarono a distendersi e a sciogliersi sotto quell'assalto, e a poco a poco io giacqui tranquillo e mi godetti la cosa e sentii che cominciavo a fremere di vitalità. In effetti, una parte impertinente di me divenne invadentemente viva ed io mi sentii in preda all'imbarazzo. Poi trasalii, poiché Karim, con mano ovviamente esperta, aveva cominciato a lavorare anche quella parte... «Questo posso farlo da solo» scattai «se lo ritengo necessario.»
Egli alzò le spalle, delicatamente, e disse: «Come il Mirza comanda. Quando il Mirza comanda» e tornò a dedicarsi a parti meno intime di me. Terminò, infine, di maltrattarmi ed io rimasi disteso, in parte desideroso di appisolarmi, ma anche con una mezza voglia di balzare in piedi e di dedicarmi a imprese atletiche. Karim chiese di essere scusato. «Per occuparmi del Mirza vostro zio» spiegò. «Trattandosi di un uomo così massiccio, saremo necessari tutti e tre per un champna come si deve.» Benevolmente gli consentii di andarsene, e mi abbandonai alla sonnolenza. Credo che anche mio padre dormì, quel pomeriggio, ma lo zio Maffeo dovette essere sottoposto al più meticoloso dei massaggi, poiché i tre giovani stavano uscendo dalla sua stanza quando Jamshid venne a farci vestire per il pasto serale. Ci portò indumenti nuovi, profumati di mirra, nello stile persiano: pijamah leggeri, camicie ampie dai polsini stretti, e, da indossare sopra le camicie, panciotti corti mirabilmente ricamati; poi kamarband da avvolgere strettamente intorno alla vita e scarpe di seta dalla punta voltata all'insù, e turbanti come copricapi, in luogo delle kaffiya. Mio padre e mio zio, entrambi abilmente e in modo perfetto, si avvolsero le sciarpe dei turbanti intorno al capo, ma il giovane Karim dovette insegnarmi come le si avvolgeva e le si fermava. Una volta vestiti, sembrammo tutti Mirza straordinariamente belli e nobili, nonché autenticamente Persiani.
2. Il wazir Jamshid ci condusse in una vasta, ma non proprio imponente sala da pranzo, illuminata con torce, tutto intorno alla quale aspettavano servi e aiutanti. Erano tutti maschi e soltanto lo Scià Zaman si unì a noi dinanzi alla tovaglia sontuosamente apparecchiata. Provai quasi una sensazione di sollievo constatando che l'etichetta del palazzo non era poi così poco ortodossa da consentire alle donne di violare le costumanze musulmane e di consumare abitualmente i pasti insieme agli uomini. Noi e lo Scià mangiammo senza essere disturbati dalla loquacità della Shahryar, e una sola volta egli si riferì a lei: «La Prima Moglie, avendo nelle vene sangue reale sabeo, non si è mai rassegnata al fatto che questo Shahnato, un tempo subordinato al Qalif, dipende ora dal Khanato. Come una giumenta purosangue araba, la Shahryar Zahd recalcitra sentendosi imbrigliata. Ma, sotto ogni altro aspetto, è una consorte perfetta, più tenera della coda di una grassa pecora.» Quei paragoni da fattoria spiegavano forse, ma a parer mio non giustificavano, il fatto che ella sembrava essere il gallo del pollaio e lui la gallina continuamente beccata. Ciò nonostante, lo Scià era un uomo amabile; bevve insieme a noi come un cristiano e risultò essere un conversatore erudito se la moglie non lo opprimeva. Quando io osservai che mi sentivo fremere di commozione seguendo le stesse piste percorse da Alessandro il Grande, lo Scià disse: «Il cammino di lui terminò non lontano da qui, sapete, dopo che egli era tornato dalla conquista del Kashmir, del Sind e del Punjab in India. Appena quattordici farsakh a sud di qui si trovano le rovine di Babilonia, ove Alessandro morì. Per una febbre dovuta al fatto, si disse, che aveva bevuto troppo del nostro vino di Shiraz.» Ringraziai lo Scià per questa precisazione, ma in cuor mio mi domandai come si potesse bere all'eccesso, fino a morirne, quel vino appiccicoso. Persino a Venezia avevo udito viaggiatori vantare il vino di Shiraz, ed esso è inoltre molto lodato nelle canzoni e nelle fiabe; ma noi lo stavamo bevendo proprio durante quel pasto, e io lo trovavo di gran lunga inferiore alla sua fama. E' un vino dal poco appetitoso color arancione, dolciastro fino alla nausea e denso quasi come melassa. Un uomo dovrebbe essere proprio deciso a ubriacarsi, mi dissi, per berne molto. Sotto ogni altro aspetto, tuttavia, il pasto risultò essere assolutamente superbo. Ci servirono pollo cucinato in succo di melagrane, agnello tagliato a cubetti, marinato e cotto a fuoco vivo in una maniera detta kabab, nonché un sorbetto insaporito alla rosa; poi una sorta di crema soffice e tremolante, simile a una crema battuta, fatta con fine farina bianca, panna e miele, delicatamente
insaporita con olio di pistacchi, e chiamata balesh. Dopo il pasto riposammo sui cuscini e sorseggiammo un liquore squisito, estratto da petali di rosa, mentre guardavamo due lottatori della corte, nudi e luccicanti e scivolosi perché cosparsi di olio di mandorle, ognuno dei quali cercava di piegare l'altro in due, o di spezzarlo in due parti. Poi, quando ebbero terminato illesi la loro esibizione, ascoltammo un menestrello di corte suonare uno strumento a corda denominato al-ud, assai simile a un liuto, e recitare poesie persiane, delle quali riesco a ricordare soltanto che ogni verso terminava con uno squittio simile a quello di un topo o con un singhiozzo luttuoso. Quando questo tormento ebbe termine, gli adulti mi permisero di andare a divertirmi, se lo desideravo. Ed io così feci, lasciando mio padre e lo zio a parlare con lo Scià dei vari itinerari e delle varie rotte che avremmo potuto seguire dopo Bagdad. Uscii dalla sala e percorsi un lungo corridoio, ove molte porte chiuse erano sorvegliate da uomini giganteschi, armati con lance o sciabole shimshir. In fondo al corridoio si trovava un'arcata non sorvegliata che dava sul giardino, e da quella parte io uscii. I viali inghiaiati e ben tenuti e le lussureggianti aiuole fiorite risaltavano nella luce morbida della luna piena, che era come una perla enorme collocata sul velluto nero della notte. Girellai pigramente qua e là, ammirando i fiori sconosciuti, resi ancor più nuovi per me dalla luce perlacea che splendeva su di essi. Poi scorsi qualcosa di così nuovo da essere stupefacente: un'aiuola di fiori che visibilmente e di sua iniziativa stava "facendo" qualcosa. Mi fermai per guardare, cogitando su quello che sembrava essere un comportamento deliberatamente non vegetale. L'aiuola era circolare e molto vasta, suddivisa come una torta in dodici spicchi, ognuno dei quali conteneva fitti fiori di tipo diverso. Tutti si trovavano nello stadio della fioritura, ma in dieci degli spicchi i fiori avevano chiuso i petali, come fanno ogni sera quasi tutte le varietà. Tuttavia, in uno dei settori, alcuni fiori color rosa pallido stavano proprio in quel momento dischiudendo i loro petali e, nello spicchio adiacente, altri grandi fiori bianchi si schiudevano contemporaneamente, emanando nella notte un profumo inebriante. «E' la gulsa'at» disse una voce, che sembrava essere a sua volta profumata. Mi voltai e vidi la giovane e bella Shahzrad, e, in piedi un breve tratto più indietro, l'anziana nonna di lei. La Principessa Falena continuò: «Gulsa'at significa meridiana di fiori. Nel vostro paese avete clessidre e orologi ad acqua per indicare l'ora, no?» «Sì, Shahzrad Magas Mirza» risposi io, badando bene a servirmi di tutta la sequela dei suoi titoli. «Potete chiamarmi Falena» disse lei, con un sorriso soave, visibile attraverso il chador trasparente. Additò la gulsa'at. «Anche questa meridiana di fiori indica le ore, ma non deve mai essere capovolta o nuovamente riempita. Ogni varietà di fiori, in quell'aiuola rotonda, si schiude spontaneamente a una certa ora del giorno o della notte e si richiude ad un'altra ora. I fiori sono stati selezionati in base alla regolarità di questa loro abitudine, e seminati lì nel giusto ordine, per cui... ecco fatto! Silenziosamente annunciano ognuna delle dodici ore che contiamo da tramonto a tramonto.» Dissi, audacemente: «E' una cosa stupenda come lo siete voi, Principessa Falena.» «Mio padre lo Scià si diverte a misurare il tempo» disse lei. «Laggiù v'è la masjid nella quale adoriamo Allah, ma essa è anche un calendario. In uno dei muri si trovano aperture in modo che il sole, seguendo la sua traiettoria, fa risplendere ad ogni alba la propria luce attraverso ad esse, una dopo l'altra, indicando il giorno e il mese.» Alquanto analogamente, io stavo girando intorno alla fanciulla per metterla tra me e la luna, affinché la luce di quest'ultima splendesse attraverso le sue vesti trasparenti facendo risaltare il profilo del desiderabile corpo di lei. La vecchia nonna si rese evidentemente conto della mia intenzione, poiché sorrise alquanto malevola, mostrandomi le gengive. «E laggiù, più avanti, si trova l'anderun ove risiedono tutte le altre mogli e le concubine di mio padre. Ne ha più di trecento, così da poterne possedere una diversa quasi ogni notte dell'anno, se lo desidera. Tuttavia, preferisce mia madre, la Prima Moglie, a parte il fatto che ella parla tutta la notte. Pertanto mio padre porta a letto una delle altre quando vuole godersi una notte di buon sonno.»
Contemplando il corpo della Shahzrad, rivelato dalla luna, sentii una volta di più il mio corpo reagire con vivacità, come aveva fatto durante il champna. Fui lieto di non indossare le attillate brache veneziane, altrimenti si sarebbero rigonfiate nel modo più vergognoso. Vestito com'ero con un ampio pi-jamah, non ritenevo che la mia eccitazione potesse essere visibile. Ma la Principessa Falena dovette intuirla ugualmente, poiché, non senza uno scandalizzato stupore da parte mia, disse: «Vorreste portare "me" a letto e fare zina, non è vero?» Balbettando e farfugliando, riuscii a dire: «Senza dubbio non dovreste parlare così, Principessa, alla presenza della vostra regale nonna! Presumo che sia la vostra...» Non conoscevo la parola farsi e pertanto lo dissi in francese: «...la vostra chaperonne?» La Shahzrad fece un gesto noncurante. «La vecchia è sorda come quella gulsa'at. Non preoccupatevi e rispondetemi. Vi piacerebbe mettermi lo zab nella mihrab, no?» Deglutii a stento. «Difficilmente potrei essere così presuntuoso... Voglio dire, un'Altezza Reale...» Ella annuì e disse, con vivacità: «Credo che possiamo organizzare qualcosa del genere. No, non ghermitemi. La nonna può vederci, anche se non ci sente. Dobbiamo essere discreti. Chiederò a mio padre il permesso di farvi da guida finché rimarrete qui, per mostrarvi le delizie di Bagdad. So essere una guida molto abile e premurosa in fatto di delizie. Vedrete.» E, ciò detto, si allontanò nel giardino illuminato dalla luna, lasciandomi scosso e tremante. Potrei dire vibrante. Quando entrai nella mia stanza, Karim mi stava aspettando per aiutarmi a togliere le non familiari vesti persiane; rise, emise suoni di ammirazione e disse: «Senza dubbio ora il giovane Mirza mi consentirà di completare il champna distensivo!» e si versò olio di mandorle nel palmo della mano, e così fece con molta perizia, dopodiché io scivolai languidamente nel sonno. Il giorno dopo, dormii fino a tardi e altrettanto fecero mio padre e lo zio, poiché il loro colloquio con lo Scià Zaman si era protratto fino a tarda ora della notte. Mentre consumavamo la colazione portataci dai servi nell'appartamento, il babbo e zio Maffeo mi dissero che stavano prendendo in considerazione il suggerimento dello Scià di proseguire per mare fino alle Indie. Ma prima dovevano accertare se la cosa sarebbe stata possibile. Ognuno di loro si sarebbe recato in un porto del Golfo: mio padre a Hormuz e zio Maffeo a Bassora, per accertare se come riteneva lo Scià - si sarebbe potuto persuadere il capitano di una nave mercantile araba a prendere a bordo noialtri, suoi rivali veneziani nel commercio. «Quando lo avremo accertato» disse mio padre «ci ritroveremo qui a Bagdad, perché lo Scià desidera che portiamo molti suoi doni al Khakhan. Pertanto tu, Marco, puoi venire con uno di noi due fino al Golfo, oppure puoi aspettare qui il nostro ritorno.» Pensando alla Shahzrad Magas, ma avendo abbastanza buon senso per non accennare a lei, risposi che preferivo restare. Avrei approfittato dell'occasione per conoscere meglio Bagdad. Zio Maffeo sbuffò: «Come conoscesti bene Venezia durante la nostra assenza? In verità non sono molti i veneziani che sanno come sia fatto all'interno il Vulcano.» A mio padre disse: «E' prudente, Niccolò, lasciare solo in una città straniera questo malanòso?» «Solo?» protestai. «Ho il servo Karim e» ma di nuovo mi astenni dall'accennare alla Principessa Falena «...e la guardia del palazzo.» «Sono responsabili dello Scià, non di te o di noi» osservò mio padre. «Se tu dovessi cacciarti di nuovo nei guai...» Con indignazione gli rammentai che il mio guaio più recente era consistito nell'impedire che venissero uccisi entrambi nel sonno, che per questo mi avevano lodato e per questo mi trovavo ancora insieme a loro, e... Il babbo mi interruppe severamente con un proverbio: «Uno vede meglio indietro che avanti. Non ti affideremo a qualcuno che ti sorvegli, ragazzo mio. Ma credo che sarebbe una buona idea acquistare uno schiavo come tuo servo personale e affinché ti impedisca di correre pericoli. Andremo al bazar.» Il malinconico wazir Jamshid venne con noi per farci da interprete, qualora la nostra conoscenza del farsi avesse dovuto risultare insufficiente. Lungo la strada, spiegò varie cose curiose che stavo vedendo per la prima volta. Ad esempio, sbirciando gli altri uomini nelle vie, notai che non consentivano alle loro barbe nero-bluastre di diventare brizzolate o bianche man mano che
invecchiavano. Ogni uomo anziano che incontravo aveva la barba di un acceso colore roseoarancione, come il vino Shiraz. Jamshid mi disse che vi riuscivano servendosi di una tinta ricavata dalle foglie di un cespuglio chiamato henné, e soggiunse che lo henné veniva inoltre impiegato frequentemente dalle donne come cosmetico e dai carrettieri per adornare i loro cavalli. Dovrei accennare qui al fatto che i cavalli impiegati a Bagdad per trainare carrozze e carri non sono gli splendidi purosangue arabi dei quali ci si serve per cavalcare. Si tratta invece di pony piccolissimi, non molto più grossi di cani mastini, e hanno un aspetto molto grazioso con le loro criniere fluenti e le code tinte mediante quel vivido colore rosa-arancione. Si trovavano, nelle vie di Bagdad, uomini di molte altre nazioni. Alcuni vestivano all'occidentale e avevano la faccia come la nostra, vale a dire bianca se non fosse stata abbronzata dal sole. Alcuni erano neri, altri bruni, altri di una sorta di colore giallo-chiaro, e se ne vedevano molti la cui faccia aveva il colore del cuoio vecchio. Erano, costoro, i Mongoli della guarnigione lasciata ad occupare la città, e tutti portavano corazze di cuoio verniciato o cotte di maglia e percorrevano sprezzanti, a gran passi, le strade gremite, scostando chiunque venisse a trovarsi sul loro cammino. Inoltre, per le strade si incontravano numerose donne, anch'esse di vari colori della pelle; le persiane appena lievemente velate e altre addirittura senza il chador: una cosa strana a vedersi in una città musulmana. Ma, anche nella liberale Bagdad, nessuna donna passeggiava sola; quali che ne fossero la razza o la nazionalità, era accompagnata o da una o da numerose altre donne, oppure da un uomo di mole considerevole e dal viso glabro. Il bazar di Bagdad mi abbacinò a tal punto che stentai a credere alla conquista e al saccheggio di quella città, tuttora tributaria dei Mongoli. Bagdad doveva essersi lodevolmente ripresa dal recente impoverimento, poiché era il più ricco e il più prospero centro di commercio che avessi mai veduto, e superava di gran lunga ogni piazza del mercato di Venezia per la varietà, l'abbondanza e il valore delle merci poste in vendita. I mercanti di stoffe rimanevano fieramente in piedi tra balle e rotoli di tessuti di seta, di lana, di peli delle capre Ankara, di cotone e lino, di fine pelo di cammelli. V'erano inoltre più esotici tessuti orientali, come la mussola di Mosul e la dungri dell'India e la bohram di Bochara e il damasco di Damasco. I mercanti di libri esponevano volumi di bella pergamena e di carta, vistosamente decorati con molteplici colori e anche in oro. Quasi tutti i libri, essendo copie delle opere di autori persiani, come Sadi e Nizami, scritti naturalmente nella lingua "farsi" e con i caratteri arabi che sembrano vermi in preda alle convulsioni, erano per me incomprensibili. Ma in uno di essi, riuscii a riconoscere, grazie alle miniature, la traduzione persiana dell'opera che prediligevo, "Il libro di Alessandro". I venditori di medicine del bazar esponevano vasi e fiale di cosmetici per uomini e donne: nero alkohl e verde malachite e bruno sommacco e rosso henné e collirio per rendere più brillanti gli occhi e profumi fatti con nardo e mirra e incenso e attar di rose. V'erano minuscoli sacchetti contenenti una polvere quasi impalpabile che Jamshid disse essere semi di felci, da impiegare da coloro i quali conoscevano l'opportuno accompagnamento di formule magiche, per rendere invisibile il loro corpo. V'era un olio denominato teryak, ricavato dai petali e dai baccelli dei papaveri; Jamshid disse che i medici lo prescrivevano per alleviare le sofferenze dei crampi o altri dolori; ma chiunque fosse abbattuto dalla vecchiaia o dall'infelicità poteva acquistarlo e berlo perché si trattava di una facile e semplice via d'uscita da un'esistenza intollerabile. Il bazar, inoltre, splendeva e luccicava e scintillava di metalli preziosi e gemme e gioielli. Ma, tra tutti i tesori posti in vendita, uno particolarmente attrasse la mia attenzione. V'era un mercante che vendeva soltanto vari tipi di una certa scacchiera. Trattavasi di un giuoco che a Venezia viene, poco immaginosamente, denominato Giuoco dei quadrati e per il quale occorrono pezzi poco costosi scolpiti nel legno di tipo comune. In Persia lo chiamano La Guerra dello Shahi e i pezzi per giocarlo sono opere d'arte il cui prezzo trascende le possibilità di tutti tranne un vero Scià o qualche altro personaggio altrettanto ricco. Le tipiche scacchiere poste in vendita da quel mercato di Bagdad erano formate da quadrati alterni d'ebano e di avorio, già costosi di per sé. Ma i pezzi disposti a un lato della scacchiera (lo Scià e il suo generale, i due elefanti, i due cavalieri, i due guerrieri rukhi e
gli otto soldati appiedati, i peyadeh) erano fatti d'oro tempestato di gemme, mentre i sedici pezzi al lato opposto della scacchiera erano d'argento tempestato di gemme. Non riesco più a ricordare il prezzo richiesto, ma era talmente alto da dare le vertigini. Il mercante disponeva di altre scacchiere con i pezzi fatti di porcellana, di giada, di legni rari o di puro cristallo, e tutti squisitamente lavorati, quasi fossero stati statuine in miniatura di monarchi e generali viventi e dei loro armigeri. Non mancavano i mercanti di bestiame, di cavalli e pony e somari e cammelli, naturalmente, ma anche di altri animali. Alcuni di questi ultimi li conoscevo soltanto per averne sentito parlare e li vidi per la prima volta quel giorno, come ad esempio un grosso e irsuto orso che mi parve somigliasse allo zio Maffeo, un daino dalle forme delicate chiamato qazel, acquistato dalle persone per abbellire i loro giardini, e un cane selvatico giallo denominato shaqal; i cacciatori riuscivano ad addomesticarlo e ad addestrarlo affinché fermasse e uccidesse i cinghiali lanciati alla carica. (I cacciatori persiani sono capaci di sfidare, soli e armati soltanto di coltello, un feroce leone, ma hanno paura di imbattersi in un maiale selvatico. Infatti, poiché i Musulmani evitano anche soltanto di menzionare la carne di porco, ritengono che la loro sarebbe una morte orrida al di là dell'immaginabile qualora dovessero perire uccisi dalle zanne di un cinghiale.) Nel mercato del bestiame si poteva inoltre vedere lo shutumurq, che significa «cammello-uccello» e, senza dubbio, ha l'aspetto della progenie bastarda di queste due creature. Il cammello-uccello ha il corpo, il becco e le piume di una gigantesca oca, ma il collo è privo di piume, lungo, come quello del cammello, e inoltre le zampe sono anch'esse goffamente lunghe, come le quattro zampe del cammello, e i piedi dalle dita divaricate sono grandi come i cuscinetti del cammello; né la bestia è in grado di volare più di quanto ne sia capace un cammello. Jamshid disse che lo shutumurq veniva catturato per la sola cosa graziosa che possa dare: le piume rigonfie che gli crescono sul deretano. V'erano inoltre in vendita scimmie, simili a quelle che i rozzi marinai portano talora a Venezia, ove le chiamano simiasse: queste scimmie sono grandi e brutte come bambini etiopi. Jamshid le denominò nedjis, che significa «indicibilmente sozzo», ma non mi disse perché venivano così chiamate e nemmeno per quale motivo qualcuno, sia pure un marinaio, poteva voler acquistare simili creature. Nel bazar si trovavano molti fardarbab o indovini-del-domani. Erano vecchi raggrinziti, dalla barba arancione, e se ne stavano accosciati dietro vassoi contenenti sabbia accuratamente lisciata. Il cliente disposto a sborsare una moneta, scuoteva il vassoio e la sabbia formava increspature e disegni che il vecchio sapeva leggere e interpretare. Si trovavano là, inoltre, molti dei sacri mendicanti darwish, laceri, coperti di croste, sudici e dall'aria perfida come quelli di ogni altra città dell'Oriente. Lì a Baghdad si distinguevano per un'altra caratteristica: danzavano e saltellavano e ululavano e piroettavano e avevano le stesse violente convulsioni di un epilettico in piena crisi. Si trattava, presumo, di una sorta di divertimento offerto in cambio del bakhshi che chiedevano. Prima che avessimo potuto anche soltanto esaminare una qualsiasi delle mercanzie del bazar, dovemmo essere interrogati da un funzionario del mercato detto l'accertatore dei redditi, e gli dimostrammo che disponevamo sia dei mezzi per fare acquisti, sia dei mezzi per pagare la jizya, che è una sorta di tassa dovuta tanto dai venditori, quanto dagli acquirenti non Musulmani. Il wazir Jamshid, pur essendo egli stesso un funzionario di corte, ci confidò che tutti quei piccoli funzionari civili erano disprezzati dal popolo e chiamati batlanim, che significa «gli oziosi». Quando mio padre mostrò, a quel particolare ozioso, uno degli scroti pieni di muschio, senza dubbio una ricchezza sufficiente per pagare almeno una scacchiera Shahi, l'accertatore dei redditi borbottò sospettosamente: «Dite di averlo avuto da un armeno? Allora non contiene, credo, muschio di cervo, ma il suo fegato tritato. Bisogna assicurarsene.» L'ozioso tirò fuori un ago, un tratto di filo e uno spicchio d'aglio. Infilò il filo nell'ago, poi fece passare più e più volte quest'ultimo attraverso lo spicchio d'aglio, finché il filo puzzò dell'odore di quest'ultimo. Prese poi lo scroto contenente il muschio e vi fece passare attraverso, una sola volta, l'ago e il filo. Fiutò infine quest'ultimo e parve sorpreso.
«L'odore è del tutto scomparso, è stato completamente assorbito. In verità, possedete, muschio autentico. Dove mai, a questo mondo, avete potuto conoscere un armeno onesto?» E ci consegnò un ferman, ovvero un documento che ci autorizzava a fare acquisti nel bazar di Bagdad. Jamshid ci condusse nel recinto degli schiavi di un mercante persiano che egli disse essere fidato, e venimmo a trovarci tra la ressa di altri possibili acquirenti o di semplici curiosi, mentre il mercante elencava, nei minimi particolari, il linguaggio, la storia, le qualità e i meriti di ogni schiavo fatto salire sul ceppo dai suoi muscolosi aiutanti. «Ecco qui un tipico eunuco» disse, presentando un negro obeso e dalla pelle lucida, che sembrava molto allegro per essere uno schiavo. «E' garantito di indole placida, pronto nell'eseguire gli ordini; inoltre non risulta che abbia mai rubato più di quanto sia ammissibile. Sarebbe un servo eccellente. Se però cercate un vero Custode delle Chiavi, egli è l'eunuco perfetto.» Presentò poi un giovane di razza bianca, biondo e muscoloso, che era bellissimo, ma sembrava malinconico, come è logico aspettarsi che lo sia uno schiavo. «Siete invitati a esaminare la mercanzia.» Zio Maffeo disse al wazir: «So, naturalmente, che cos'è un eunuco. Abbiamo castroni anche nel nostro paese, ragazzi che cantano soavemente e che sono stati castrati affinché possano cantare sempre con una voce soave. Ma come può, una creatura del tutto asessuata, essere differenziata dalle altre in quanto tipica e perfetta? Forse perché uno di questi due è etiope e l'altro russniak?» «No, Mirza Polo» disse Jamshid, e spiegò in francese, affinché non dovessimo essere confusi da parole "farsi" a noi poco familiari. «Il comune eunuco viene privato dei testicoli quando è ancora nella prima infanzia, affinché cresca docile e ubbidiente e non ribelle per indole. La cosa è facile a farsi. Si lega strettamente un filo intorno alla radice dello scroto del bambino, e, in poche settimane, esso avvizzisce, diventa nero e si stacca. Questo è del tutto sufficiente per fare di lui un buon servo, utile in qualsiasi cosa.» «Che altro potrebbe volere un padrone?» domandò lo zio Maffeo, forse sinceramente, forse sarcasticamente. «Be', per essere un Custode delle Chiavi, occorre, e lo si preferisce, un eunuco eccezionale. Infatti egli deve risiedere nell'anderun, gli alloggi ove vivono le mogli e le concubine del suo padrone, e deve sorvegliarlo. E quelle donne, specie se non vengono accolte frequentemente nel letto del padrone, possono dimostrarsi quanto mai intraprendenti e ricche di inventiva, anche con una inerte carne maschile. Pertanto questo tipo di schiavo deve essere privato di "tutto" il suo equipaggiamento, la verga oltre alle palle. E un'eliminazione del genere è un'operazione seria che non si esegue facilmente. Guardate da quella parte e osservate. La mercanzia viene esaminata adesso.» Guardammo. Il mercante aveva ordinato ai due schiavi di lasciarsi cadere di dosso il pi-jamah, e ora essi rimanevano in piedi con l'inguine scoperto per essere scrutato da un anziano ebreo persiano. Il negro grasso non aveva peli in quel punto, né i testicoli, ma possedeva ancora un membro di dimensioni rispettabili, sebbene fosse di un repellente color nero e viola. Supposi che una donna dell'anderun, qualora fosse stata disperatamente avida di un uomo e depravata al punto da volere quell'aggeggio entro di sé, avrebbe potuto escogitare una qualche sorta di stecca per irrigidirlo. Ma il giovane russniak, di gran lunga più presentabile, non possedeva neppure una flaccida appendice. Poteva esibire soltanto un ciuffo di peli biondi e qualcosa di simile alla punta di un minuscolo bastoncello bianco, che sporgeva in modo grottesco tra i peli; a parte questo, l'inguine di lui era liscio come quello di una donna. «Bruto barabào!» grugnì zio Maffeo. «Come "si esegue" l'operazione, Jamshid?» In un tono di voce neutro, come se stesse leggendo un testo di medicina, il wazir disse: «Lo schiavo viene condotto in una stanza ove aleggia denso fumo di foglie banj che ardono adagio, viene posto in un bagno caldo e gli si dà del teryak da sorseggiare; tutto questo allo scopo di attutire la sua sensibilità al dolore. L'hàkim che deve eseguire l'operazione prende poi un lungo nastro e lo avvolge strettamente intorno all'organo di lui, cominciando dalla punta del pene dello schiavo e scendendo fino alla radice, compresi i testicoli, così da formare una sorta di unico involto. Poi, servendosi di una lama affilatissima, l'hàkim elimina il tutto avvolto dal nastro d'un colpo solo.
Immediatamente applica alla ferita un astringente composto di uva passa ridotta in polvere, funghi vescia di lupo e allume. Non appena cessata l'emorragia, inserisce una penna d'oca pulita, che rimarrà lì per tutta la vita dello schiavo. Infatti, il maggior pericolo dell'operazione è che il condotto urinario possa chiudersi guarendo. Se, al terzo o al quarto giorno dopo l'operazione, lo schiavo non ha ancora fatto acqua attraverso la penna d'oca, è certo che morirà. E, purtroppo, questo accade in forse tre casi su cinque.» «Capòn mal caponà!» esclamò mio padre. «La cosa sembra raccapricciante. Voi avete assistito a una simile operazione?» «Sì» rispose Jamshid. «Osservai con un certo interesse quando venne effettuata su di me.» Avrei dovuto rendermi conto che questo spiegava la sua aria eternamente malinconica, e sarebbe stato meglio se avessi taciuto. Invece esclamai: «Ma voi non siete grasso, wazir, e avete una folta barba!» Lui non mi rimproverò per tanta impertinenza. Rispose: «Coloro che subiscono la castrazione nell'infanzia, non hanno mai più la barba, e il loro corpo diviene obeso e ha contorni femminei, a volte persino con opulenti seni. Ma quando l'operazione viene eseguita dopo che uno schiavo ha superato la pubertà, egli rimane virile, almeno per quanto concerne l'aspetto esteriore. Io ero un uomo adulto, con moglie e un figlio, quando la nostra fattoria venne invasa da procacciatori di schiavi curdi. I curdi cercavano soltanto schiavi robusti, in grado di lavorare, e così mia moglie e il mio bimbetto non gli servivano. I curdi li violentarono, ognuno di loro per varie volte, e poi li uccisero.» Seguì un silenzio sbigottito, che sarebbe potuto diventare imbarazzante, ma Jamshid soggiunse, quasi con noncuranza: «Ah, be', posso forse lamentarmi? Sarei potuto restare un semplice bracciante nei campi di miglio fino ad oggi. Ma, essendo stato privato dei desideri naturali in un uomo - quelli di seminare e coltivare terra e retaggio -, fui libero di coltivare invece il mio intelletto. E così ora sono divenuto wazir dello Shahinshah della Persia, e non è un conseguimento da poco.» Avendo così elegantemente lasciato cadere l'argomento, invitò il mercante di schiavi ad avvicinarsi e ad ascoltare i nostri desiderata. Il mercante affidò ai suoi aiutanti il compito di assistere all'esame dei due schiavi già posti in vendita e venne verso di noi sorridendo e stropicciandosi le mani. Avevo quasi sperato che mio padre acquistasse per me una avvenente fanciulla schiava, la quale potesse essere più di una serva; o almeno un giovane della mia stessa età, che sarebbe stato un compagno congeniale. Ma, naturalmente, egli spiegò al mercante non già quel che potevo desiderare io, ma quello che voleva lui per me: «Un uomo piuttosto anziano, pratico di viaggi, e ancora abbastanza agile per arrivare molto più a oriente da qui. Un conoscitore delle abitudini di questi paesi, così da poter al contempo proteggere e istruire mio figlio. E inoltre», egli scoccò un'occhiata comprensiva al wazir, «non voglio un eunuco. Preferisco non contribuire a perpetuare questa usanza che non mi garba.» «Ho proprio l'uomo che fa per voi, messieurs» disse il mercante, parlando un buon francese. «Maturo ma non vecchio, astuto ma non caparbio, esperto ma non impossibile a comandarsi. Vediamo, dove è andato a finire? Si trovava qui pochi momenti fa...» Lo seguimmo tra il suo branco di schiavi, o tra i suoi branchi, dovrei forse dire, poiché v'era un considerevole numero di persone nel recinto ed anche numerosi, minuscoli cavalli persiani abbelliti con l'henné, che trainavano i suoi carri di città in città. Il recinto era delimitato in parte da una palizzata e in parte per l'appunto da questi carri chiusi da teli sorretti da semicerchi e sui quali lui e i suoi aiutanti e la sua mercanzia viaggiavano durante il giorno e dormivano durante la notte. «E' lo schiavo ideale per voi, messieurs, quest'uomo» continuò il mercante, seguitando a guardarsi attorno. «E' appartenuto a numerosi padroni e pertanto ha viaggiato a lungo e conosce molti paesi. Parla parecchie lingue e possiede tutto un repertorio di utili talenti. Ma dove diavolo "è"?» Continuammo ad aggirarci tra gli schiavi, uomini e donne, con catene collegate agli anelli che avevano intorno alle caviglie, e tra i piccoli cavalli che invece non erano impastoiati. Il mercante cominciò ad avere un'aria lievemente imbarazzata, in quanto non riusciva a scovare proprio lo schiavo che stava cercando di vendere.
«Lo avevo separato dagli altri» borbottò «e incatenato a una delle mie giumente che doveva strigliare...» Venne interrotto da un sonoro, penetrante e prolungato nitrito. Con un fluire di criniera e di coda arancioni, un piccolo cavallo volò fuori attraverso i lembi del telo sulla parte anteriore di uno dei carri coperti. Letteralmente, volò per un momento, come il magico cavallo di vetro del quale ci aveva narrato la storia di Shahryar Zahd, in quanto era balzato dall'interno del carro, superando il sedile del guidatore, per finire al suolo davanti ad esso. E mentre percorreva l'alto arco del balzo, una catena fissata ad una delle sue zampe posteriori seguì lo stesso arco e, all'estremità opposta della catena, un uomo balzò fuori, le gambe in avanti tra i lembi del telo, come il turacciolo strappato da una bottiglia. Anche l'uomo volò al di sopra del sedile del carro e piombò con un tonfo sulla polvere. E siccome il cavallo tentò di fuggire più avanti, l'uomo venne trascinato per un tratto e sollevò una gran nuvola di polvere prima che il mercante di schiavi riuscisse ad afferrare la briglia dell'animale e a far cessare quell'insolito spettacolo. La criniera arancione del cavalluccio era stata strigliata e sembrava serica, ma la coda arancione continuava ad essere scompigliata. Altrettanto malconce erano le parti basse dell'uomo, che aveva il pi-jamah calato e afflosciato intorno ai piedi. Lo schiavo rimase seduto per qualche momento, con il fiato troppo corto per poter fare altro se non lanciare numerose, fioche imprecazioni in varie lingue. Poi, frettolosamente, si coprì, mentre il mercante di schiavi gli si avvicinava urlando bestemmie e sferrandogli calci per costringerlo a rimettersi in piedi. Lo schiavo aveva all'incirca la stessa età di mio padre, ma la sua ispida barba sembrava cresciuta appena da due settimane e non riusciva a nascondergli del tutto il mento sfuggente. L'uomo aveva vividi, piccoli e sfuggenti occhi da porco e un naso grosso e carnoso che pendeva sulle labbra tumide. Non era più alto di me, ma molto più grosso, con una pancia pendula quanto il naso. Tutto sommato, somigliava a un cammello-uccello. «La giumenta che ho appena acquistato!» stava infuriando in "farsi" il mercante, mentre continuava a sferrare calci allo schiavo. «Inqualificabile incapace!» «La perfida cavalla cercava di fuggire, padrone» gemette il poveraccio, le braccia alzate intorno al capo per proteggersi. «Ho dovuto proprio seguirla.» «La cavalla cercava di fuggire, eh? Ed è salita su un "carro"? Tu mi menti con la stessa disinvoltura con la quale ti giaci con bestie innocenti! Esecrabile pervertito!» «Ma riconoscetemi il merito che mi spetta, padrone» piagnucolò il pervertito. «La vostra giumenta sarebbe finita chissà dove e l'avreste perduta. Oppure io avrei potuto seguirla e fuggire.» «Bismillah, vorrei che tu fossi fuggito! Sei un insulto per la nobile istituzione dello schiavismo!» «Allora vendetemi, padrone. Appioppatemi a qualche acquirente senza sospetti e non mi avrete più davanti agli occhi.» «Estag farullah!» pregò il mercante, rivolto al Cielo, con tutto il fiato che aveva in corpo. «Allah perdoni i miei peccati, credevo di esserci appena riuscito. Questi gentiluomini avrebbero potuto acquistarti, abominio, ma ora ti hanno veduto sorpreso nell'atto di violentare la mia più bella giumenta!» «Oh, contesto questa accusa, padrone» disse l'abominio, osando esprimersi in un tono di virtuosa indignazione. «Ho conosciuto giumente molto migliori.» Ammutolito, il mercante strinse i pugni e i denti e ringhiò: «Arrrrgh!» Jamshid interruppe questo singolare colloquio dicendo, in tono severo: «Mirza mercante, avevo assicurato ai messieurs che voi eravate un fidato venditore di mercanzia di prim'ordine.» «E lo sono, infatti, Allah mi è testimone, wazir! Mai e poi mai venderei ai messieurs questa pustola ambulante, nemmeno "gratis"! Non lo venderei nemmeno alla moglie megera del demonio Shaitan, potessi morire, ora che conosco la sua vera indole. Mi scuso sinceramente con voi, messieurs. E si scuserà anche questa abietta creatura. Mi hai sentito? Scusati per la tua vergognosa esibizione. Umiliati! Parla, Narice!» «"Narice?"» esclamammo noi tutti.
«Sì, è il mio nome, buoni padroni» disse lo schiavo, senza avere affatto l'aria di volersi scusare. «Ho anche altri nomi, ma, il più delle volte, mi chiamano Narice, e per un buon motivo.» Portò un dito sudicio su quel suo grumo di naso e ne sollevò la punta, per cui potemmo vedere che anziché due narici ne aveva una sola e grande. L'unica narice sarebbe stata una vista repellente di per sé, ma lo era ancor più a causa dell'abbondanza di peli mocciosi che spuntavano dal naso. «Un piccolo castigo che mi venne inflitto una volta per una mia mancanza ancor più piccola. Ma non siate prevenuti contro di me a causa di questo, buoni padroni. Come potete constatare, sono, sotto ogni altro aspetto, un uomo aitante e inoltre posseggo innumerevoli virtù. Ero marinaio di mestiere prima di essere fatto schiavo e ho viaggiato "ovunque", per anni e anni, dal mio natio Sind alle sponde più remote del...» «Gesù, Maria e Giuseppe» esclamò zio Maffeo, meravigliandosi, «la lingua di quest'uomo è più lunga della sua gamba di mezzo!» Eravamo tutti affascinati e lasciammo che Narice continuasse a cianciare: «Viaggerei ancora se, disgraziatamente, trafficanti di schiavi non si fossero impadroniti di me. Stavo facendo l'amore con una femmina di shaqal quando i negrieri attaccarono, e voi gentiluomini sapete senza dubbio in qual modo il mihrab di una cagna stringa lo zab che ama e lo tenga intrappolato. Per conseguenza non potei correre molto rapidamente con la femmina di shaqal che mi penzolava davanti, sobbalzando e ululando. Così venni preso e la mia carriera marittima ebbe termine e cominciò quella di schiavo. Ma posso dire, in tutta modestia, che divenni rapidamente uno schiavo senza uguali. Avrete notato che sto parlando adesso il sabir, la vostra lingua dei commerci in occidente... e ora ascoltate, desiderabili padroni. So parlare anche il farsi, la lingua dei commerci in oriente. Inoltre parlo scorrevolmente la mia madrelingua, il sindi, nonché il pashtu, l'hindi e il panjab. Parlo inoltre passabilmente l'arabo, posso cavarmela con numerosi dialetti mongoli e turchi e...» «Non chiudi mai la bocca, parlando una qualsiasi di queste lingue?» domandò mio padre. Narice continuò, senza badargli. «Inoltre posseggo molte altre doti e molti altri talenti che non ho nemmeno ancora cominciato a menzionare. Ci so fare con i cavalli, come dovete aver notato. Sono cresciuto tra i cavalli e...» «Ma se hai appena affermato che eri marinaio» gli fece rilevare mio zio Maffeo. «Lo fui quando diventai adulto, perspicace padrone. Sono inoltre un esperto in fatto di cammelli. Posso formulare e divinare oroscopi alla maniera degli Arabi o dei Persiani o degli Indiani. Ho rifiutato offerte fattemi dagli hammam più signorili, che volevano assumermi come insuperabile massaggiatore. So tingere con l'henné le barbe grige, o eliminare le rughe applicando un unguento fatto con l'argento vivo. Servendomi della mia singola narice, posso suonare il flauto più soavemente di quanto riesca a fare qualsiasi musicante con la bocca. Inoltre, impiegando quell'orifizio in un certo altro modo...» All'unisono, mio padre e lo zio esclamarono: «Dio me varda!» «Credo che quest'uomo riuscirebbe a disgustare anche il verme più schifoso.» «Eliminatelo, Mirza mercante! E una vergogna per Bagdad! Impalatelo in qualche posto affinché venga divorato dagli avvoltoi!» «Odo e ubbidisco, wazir» disse il mercante. «Dopo che vi avrò mostrato alcune mie altre mercanzie, magari?» «E' tardi» rispose Jamshid, evitando i commenti che avrebbe potuto fare sul mercante e sulle sue mercanzie. «Siamo attesi al palazzo. Venite, messieurs. Avremo tempo domani.» «E domani sarà un giorno meno impuro» disse il mercante di schiavi, fissando vendicativamente Narice. Così uscimmo dal recinto e tornammo indietro, lungo le vie e attraverso le piazze con giardini. Eravamo quasi arrivati al palazzo quando allo zio Maffeo venne in mente di osservare: «Sapete una cosa? Quello spregevole mascalzone, Narice, non si è "mai scusato.»
3. Di nuovo i servi ci vestirono con splendidi e nuovi costumi e di nuovo ci unimmo allo Scià Zaman per il pasto serale; e, una volta di più, si trattò di un pasto delizioso, eccezion fatta, una volta di più, per il vino shiraz. Ricordo che l'ultima portata fu un pasticcio di sheriye, vale a dire una sorta di pasta a nastri, simile alle nostre fettuccine, ma cotta nella panna, con mandorle e pistacchi e minuscoli pezzettini d'oro e d'argento in fogli, talmente sottili e piccoli che dovevano essere mangiati insieme al resto del dolce. Mentre cenavamo, lo Scià ci disse che la Shahzrad Magas Mirza gli aveva chiesto il permesso, da lui concessole, di farmi da compagna e da guida, per mostrarmi i monumenti della città e i suoi dintorni, naturalmente alla presenza di una chaperonne... fino a quando io fossi rimasto a Bagdad. Mio padre mi sbirciò in tralice, ma ringraziò lo Scià per la sua cortesia e per la cortesia della Principessa. Disse inoltre che, poiché mi sarei ovviamente trovato in buone mani, non sarebbe più stato necessario acquistare uno schiavo che mi sorvegliasse. Per conseguenza, egli si sarebbe diretto al sud sin dalla mattina dopo, verso Hormuz, e Maffeo si sarebbe recato a Bassora. Li salutai all'alba. Entrambi partirono a cavallo con una guardia del palazzo incaricata dallo Scià di servirli e di proteggerli durante il viaggio. In seguito io mi recai nel giardino, ove la Shahzrad Magas aspettava, di nuovo con la nonna a discreta distanza, di accompagnarmi per il giro del primo giorno in città sotto la sua tutela. La salutai molto rispettosamente con un salam e non dissi nulla a proposito di quell'altra cosa che ella aveva accennato di volermi dare, né ella ne parlò, per qualche tempo. «L'alba è il momento giusto per vedere la masjid del nostro palazzo» disse Falena, e mi accompagnò verso quel luogo di culto, invitandomi ad ammirarne l'esterno, che era davvero mirabile. Un mosaico di piastrelle blu e argentee rivestiva l'immensa cupola, sormontata da una sorta di pomolo dorato, il tutto splendente nella luce dell'aurora. Quanto al minareto, esso sembrava una candela gigantesca, riccamente incastonata e intarsiata con gemme scintillanti. In quel momento feci una mia supposizione personale e vorrei parlarne qui. Sapevo già che i Musulmani hanno l'obbligo di tenere le loro donne rinchiuse; esse sono inutili e mute e velate e al riparo da ogni sguardo, in pardah, come chiamano i Persiani la repressione per la vita delle loro femmine. Sapevo che, per decreto del Profeta Maometto e del Corano da lui scritto, la donna fa semplicemente parte dei beni dell'uomo, come la spada o le capre o il suo guardaroba, e se ne distingue soltanto per essere uno dei beni con il quale occasionalmente l'uomo si accoppia, e questo all'unico scopo di generare figli, i quali vengono apprezzati soltanto se sono di sesso maschile come lui. I Musulmani devoti, siano essi uomini o donne, non devono parlare dei rapporti sessuali tra loro, e nemmeno dei rapporti di reciproca compagnia, anche se un uomo può essere lascivamente schietto per quanto concerne i suoi rapporti sessuali con altri uomini. Ma quel mattino, mentre contemplavo la masjid, decisi che i divieti dell'Islam contro la normale manifestazione della normale sessualità non sono riusciti a soffocare "ogni" manifestazione della stessa. Osservate una qualsiasi masjid e vedrete che ogni cupola imita la forma del seno della femmina umana, con l'eccitato capezzolo eretto verso il cielo, e che ogni minareto rappresenta l'organo maschile, anch'esso gioiosamente eretto. Potrei anche sbagliarmi nel discernere queste analogie, ma non credo che sia così. Il Corano ha decretato la disuguaglianza tra uomini e donne. Ha reso indecente e non menzionabile il naturale rapporto tra sessi e lo ha deformato nel modo più vergognoso. Ma i templi stessi dell'Islam dichiarano coraggiosamente che il Profeta si sbagliava e che Allah ha creato l'uomo e la donna affinché si compenetrino e siano una sola carne. La Principessa ed io entrammo nella sala centrale, mirabilmente alta e vasta, della masjid, che era decorata in modo meraviglioso, anche se, naturalmente, senza alcuna immagine, né pitture, né statue. Le pareti erano rivestite da disegni creati mediante lapislazzuli azzurri che si alternavano con tasselli di bianco marmo per cui la luce all'interno era di un tenue e riposante azzurro-chiaro.
Così come non esistono immagini nei templi musulmani, non vi esistono nemmeno altari, né sacerdoti, né organisti o cantori, e nemmeno alcun apparato cerimoniale, come ad esempio incensieri, fonti battesimali e candelabri. Non vi si celebrano Messe né Comunioni né altri riti del genere, e i fedeli Musulmani osservano una sola norma rituale: pregando si genuflettono tutti nella direzione della santa Mecca, luogo di nascita del loro profeta Maometto. Poiché la Mecca è situata a sud-ovest di Bagdad, il muro di fondo della masjid era orientato a sud-ovest e al suo centro si trovava una nicchia poco profonda, più alta di un uomo, anch'essa rivestita con tessere blu e bianche. «Quella è la mihrab» disse la Principessa Falena. «Sebbene nell'Islam non vi siano sacerdoti, a volte ci rivolge la parola un uomo savio di passaggio. Magari un Imam, il cui approfondito studio del Corano ne ha fatto un'autorità per quanto concerne le dottrine spirituali. Oppure un mufti, un conoscitore altrettanto profondo delle leggi temporali del Profeta (pace e benedizioni scendano su di Lui). O ancora un hajj, un uomo che ha compiuto il lungo pellegrinaggio fino alla Santa Mecca. E, per guidarci nelle preghiere, il savio prende posto là, nella mihrab.» Stavo per dire di aver creduto che la parola mihrab significasse la parte più intima di una donna, quella che una ragazza veneziana aveva un tempo chiamata volgarmente potta e che una dama veneziana, più schizzinosamente, aveva denominato mona. Ma poi notai i contorni di quella nicchia mihrab nel muro della masjid. Aveva esattamente la stessa forma dell'orificio genitale delle donne, con un profilo lievemente ovale che si restringeva a una estremità, chiudendosi ad arco appuntito. Sono entrato in molte altre masjid, e in ognuna di esse quella nicchia ha la stessa forma. Ritengo si tratti di una ulteriore conferma della mia teoria secondo la quale la sessualità umana ha influenzato l'architettura islamica. Naturalmente, non so (e non dubito che qualche musulmano lo sappia) quale fu la prima accezione della parola mihrab: se quella ecclesiastica o quella ribalda. «Ed ecco là» disse la Principessa Falena, additando in alto «le finestre che consentono al sole di indicare il trascorrere dei giorni.» Manco a dirlo, v'erano aperture accuratamente intervallate lungo la fascia alta della cupola, e il sole appena sorto stava proiettando un raggio di luce sull'opposto lato interno della cupola, ove si trovavano lastre con caratteri arabi intervallate nei mosaici. La Principessa lesse a voce alta le parole illuminate dal raggio di sole. Stando ad esse, il giorno, secondo il calendario musulmano, era il terzo del mese Jumada, secondo del 670esimo anno della Egira di Maometto, o, in base al calendario persiano, il 199esimo anno dell'era Jalali. Poi la Principessa Falena ed io, con mormoriii e contando sulle dita, eseguimmo i calcoli necessari per tramutare la data in quella del calendario cristiano. «Oggi è il giorno venti del mese di settembre!» esclamai. «Il mio compleanno!» Ella mi fece gli auguri e disse: «Voi cristiani a volte ricevete doni, il giorno del vostro compleanno, non è vero, come noi?» «A volte, sì.» «Allora vi farò un dono questa notte stessa, se sarete abbastanza coraggioso e disposto a correre qualche rischio per riceverlo. Vi donerò una notte di zina.» «Che cosa vuol dire zina?» domandai, sebbene sospettassi di saperlo già. «Vuol dire il rapporto sessuale illecito tra un uomo e una donna. E' haram, che significa proibito. Se volete avere il dono, devo farvi entrare di nascosto nella mia stanza, che si trova nell'anderun del palazzo delle donne, a sua volta haram.» «Correrò qualsiasi pericolo!» esclamai, con tutto il cuore. Poi mi venne in mente qualcosa. «Ma... scusatemi se lo domando, Principessa Falena. Però mi è stato detto che le donne musulmane vengono in qualche modo private del... del loro entusiasmo per lo zina. Mi è stato detto che sono, ehm, circoncise, in qualche modo, anche se non riesco a immaginare come.» «Ah, sì, il tabzir» fece lei, noncurante. «Questo viene fatto alle donne comuni, sì, quando sono nell'infanzia. Ma non alle bambine di sangue reale, né a quelle che, in futuro, potrebbero divenire mogli o concubine a corte. E, senza dubbio, non è stato fatto a me.»
«Ne sono felice per voi» dissi, ed ero sincero. «Ma che cosa gli fanno a quelle disgraziate femmine? Che "cos'è" il tabzir?» «Lasciate che lo mostri» disse lei. Rimasi stupito, poiché mi aspettavo che volesse denudarsi seduta stante e pertanto indicai con un gesto ammonitore la nonna che si teneva in disparte. Ma Falena si limitò a sorridermi e ad avvicinarsi alla nicchia per il predicatore, nella parete della masjid, dicendo: «Conoscete bene l'anatomia di una donna? Allora sapete che qui» e additò la sommità dell'arco «verso la parte anteriore dell'apertura mihrab, ogni donna ha una tenera sporgenza simile a un bottoncino. Essa ha nome zambur.» «Ah» feci io, illuminato, finalmente. «A Venezia la chiamano lumagheta.» Cercai di esprimermi con la stessa clinica freddezza di un medico, ma so che, parlando, arrossii. «La posizione esatta della zambur può variare lievemente da una donna all'altra» continuò Falena, quanto a lei clinica e senza arrossire. «Ma le sue dimensioni possono variare in misura considerevole. La mia zambur è lodevolmente grande e, nei momenti di eccitazione, si estende per la lunghezza della prima giuntura del mio mignolo.» Il solo pensarvi eccitò "me" e fece sì che mi estendessi. Ma poiché la nonna era presente, fui grato, una volta di più, a causa delle ampie vesti che indossavo. La Principessa continuò allegramente. «Pertanto sono molto richiesta dalle altre donne dell'anderun, in quanto la mia zambur può soddisfarle quasi quanto lo zab di un uomo. E il giuoco sessuale tra donne è halal, che significa ammissibile, non haram.» Se il mio viso pochi momenti prima era stato roseo, ormai doveva essere diventato paonazzo. Ma, se anche la Principessa Falena se ne accorse, questo non bastò a farla tacere. «In ogni donna è questo il punto più sensibile, il nocciolo stesso della sua eccitabilità sessuale. Senza la sensibilità della zambur la donna non reagisce all'amplesso. E poiché l'atto non la fa godere in alcun modo, non lo desidera. E' questa, naturalmente, la ragione del tabzir... della circoncisione, come dite voi. Nella donna adulta, a meno che ella non sia molto eccitata, la zambur rimane pudicamente nascosta tra le labbra chiuse della mihrab. Ma nelle bambine in fasce sporge tra le minuscole labbra. Un hàkim può reciderla facilmente, con un semplice paio di forbici.» «Buon Dio!» esclamai, e la mia erezione scomparve all'istante, afflosciandosi, a causa dell'orrore. «Questo non è circoncidere. Questo significa fare di una femmina un eunuco!» «Sì, qualcosa di molto simile» riconobbe lei, come se la faccenda non fosse affatto orribile. «La bambina cresce e diventa una donna virtuosamente fredda e priva di ogni capacità di reagire sessualmente, di ogni desiderio di sessualità. Diventa cosi la perfetta moglie musulmana.» «Perfetta?! E quale marito vorrebbe una moglie simile?» «Il marito musulmano» si limitò a dire lei. «Una moglie così non commetterà mai adulterio e non cornificherà il coniuge. E' incapace di prospettarsi l'atto dello zina, o qualsiasi altra cosa haram. E nemmeno stuzzicherà il marito e lo farà adirare civettando con un altro uomo. E, mantenendosi correttamente pardah, non "vedrà" neppure mai un altro uomo... a meno che non generi un figlio maschio. Voi capite, il tabzir non impedisce in lei la funzione della maternità. Ella può divenire madre, e in questo è superiore a un eunuco, che non può diventare padre.» «Ciononostante, è un destino spaventoso per la donna.» «E' il destino voluto dal Profeta (possano benedizioni e pace discendere su di Lui). In ogni modo sono lieta che noi delle classi superiori andiamo esenti da molti di questi inconvenienti riservati al popolo. E ora, per quanto concerne il vostro dono di compleanno, giovane Mirza Marco...» «Vorrei che fosse già notte» dissi, sbirciando in alto il raggio di sole che si spostava adagio. «Questo sarà il più lungo compleanno della mia vita, mentre aspetterò la notte e lo zina con voi.» «Oh, non con "me"!» «Cosa?» Ella ridacchiò. «Be', non precisamente con me.» Smarrito, tornai a dire: «Cosa?»
«Mi avete distratta, Marco, domandandomi che cos'è il tabzir e non ho potuto spiegare il dono che sto per farvi. Prima della spiegazione dovete tenere presente che sono vergine.» Cominciai a dire, con petulanza: «Non avete parlato come...» ma lei mi mise un dito sulle labbra. «E' vero, non sono tabzir e non sono fredda e forse voi non mi definireste del tutto virtuosa, dato che vi sto invitando a fare qualcosa di haram. E' vero inoltre che ho la più incantevole delle zambur, e che adoro esercitarla, ma soltanto in modi halal che non mi tolgano la verginità. Oltre alla zambur, vedete, ho "tutte" le altre parti di una donna, compresa la sangar. La membrana della verginità non è stata lacerata in me, e non lo sarà mai finché non avrò sposato qualche Principe del sangue. Non deve essere lacerata, altrimenti nessun Principe mi vorrebbe. Sarei fortunata se non mi decapitassero per essermi lasciata sverginare. No, Marco, non sognatevi nemmeno di consumare lo zina con me.» «Sono confuso, Principessa Falena. Avete detto chiaramente di volermi fare entrare di nascosto nella vostra stanza...» «E così farò, infatti. E rimarrò con voi in quella stanza per aiutarvi nello zina con mia sorella.» «Con vostra "sorella"?!» «Scccc! La vecchia nonna è sorda, ma a volte riesce a leggere le parole sulle labbra. Ora tacete e ascoltate. Mio padre ha molte mogli e pertanto io ho molte sorelle. Una di esse è portata per lo zina. In effetti, non riesce mai ad averne abbastanza. E sarà lei il vostro dono di compleanno.» «Ma se a sua volta è una Principessa di sangue reale, come mai la verginità di lei non è altrettanto...?» «Ho detto di tacere. Sì, è di sangue reale come me, ma esiste una ragione per cui non attribuisce alla verginità la stessa importanza che vi attribuisco io. Saprete tutto stanotte. Ma fino a questa sera non dirò altro e, se mi importunerete a furia di domande, ritirerò la promessa del dono. E ora, Marco, godiamoci la giornata. Lasciate che ordini a un cocchiere di condurci a fare un giro in città.» La carrozza, quando passò a prenderci, risultò essere veramente elegante, con due alte ruote e trainata da un unico, piccolo cavallo persiano. Il cocchiere mi aiutò a sollevare la vecchia nonna inferma sul sedile anteriore accanto a lui, e la Principessa ed io prendemmo posto dietro. Mentre percorrevamo il viale d'accesso del giardino e poi, dal cancello del palazzo, uscivamo nella città di Bagdad, Falena osservò che non aveva ancora mangiato nulla a colazione, aprì un sacchettino di tela, ne tolse alcuni frutti giallo-verdastri, affondò i denti in uno di essi e ne offrì un altro a me. «Banyan» disse che si chiamava. «Una varietà di fichi.» Trasalii alla parola fichi e rifiutai educatamente, senza darmi la pena di spiegare che la disavventura ad Acri mi aveva reso ripugnanti i fichi. Falena parve mettere su il broncio, quando rifiutai, e questo mi indusse a domandarle che cosa avesse. «Lo sapete» disse, accostandosi a me e bisbigliando, affinché il cocchiere non udisse, «che è questo il frutto proibito con il quale Eva sedusse Adamo?» Risposi, bisbigliando a mia volta: «Preferisco la seduzione senza il frutto. E, a proposito di seduzione...» «Vi ho detto di non parlarne. Non fino a questa notte.» Varie altre volte, durante la gita di quel mattino, cercai di affrontare l'argomento, ma sempre ella mi ignorò e parlò soltanto per richiamare la mia attenzione su questo o quell'altro particolare interessante e per dirmi cose istruttive. «Qui ci troviamo nel bazar, che avete già visitato, ma forse non lo riconoscete, adesso, deserto e silenzioso com'è. Questo perché oggi è jumea - venerdì, come lo chiamate voi - il giorno destinato da Allah al riposo, per cui nessuno deve commerciare o lavorare.» E disse: «Quel tratto erboso che vedete laggiù è un cimitero; noi chiamiamo i cimiteri Città dei Silenti.» Disse ancora: «Quel grande edificio è la Casa dell'Illusione, un istituto caritatevole fondato da mio padre lo Scià. Vi si trovano rinchiuse, e vi vengono curate, tutte le persone che impazziscono, come
accade qui a un gran numero di individui durante la calura estiva. Vengono visitate ogni giorno da un hàkim, e se per caso ritrovano la ragione escono e sono nuovamente libere.» Alla periferia della città attraversammo un ponte che scavalcava un fiumicello, ed io rimasi colpito dal colore di quell'acqua, che era di un blu insolitamente intenso per essere semplicemente acqua. Poi attraversammo un altro fiumicello e quest'ultimo era di un verde troppo vivido. Ma soltanto dopo l'attraversamento di un terzo corso d'acqua, dal colore rosso-sangue, commentai con stupore la cosa. La Principessa spiegò. «L'acqua di tutti i canali, qui, viene colorata dalle tinture di coloro che tessono i qali. Non avete mai veduto come si crea un qali? Allora dovete vedere.» E la Principessa impartì ordini al cocchiere. Mi aspettavo di essere ricondotto a Bagdad e in qualche laboratorio nella città; invece la carrozza proseguì in aperta campagna, per fermarsi poi accanto a una collina, a mezza costa della quale si trovava la bassa imboccatura di una caverna. Falena ed io scendemmo dalla carrozza, ci arrampicammo su per l'altura e, chinandoci, entrammo nel varco. Dovemmo percorrere quasi piegati in due una breve e buia galleria, ma poi giungemmo, nelle viscere della collina, in una vasta e alta caverna rocciosa, gremita di persone e ingombra di tavoli da lavoro, panche e vasche per tingere. La caverna mi parve buia finché i miei occhi non si furono abituati alla tenue luce di innumerevoli candele e lampade e torce. Le lampade erano collocate su vari tavoli, le torce situate a intervalli tutto attorno sulle pareti rocciose, mentre alcune delle candele poggiavano sulle sporgenze rocciose e le altre venivano portate qua e là nelle mani dalla moltitudine di operai. Dissi alla Principessa: «Questo non è il giorno del riposo?» «Per i Musulmani» spiegò lei. «Ma costoro sono tutti schiavi, Russniak cristiani, Lesghi e così via. Hanno il loro giorno di riposo tutte le domeniche.» Soltanto alcuni di quegli schiavi, uomini e donne, erano adulti, e svolgevano vari compiti, come ad esempio rimestare le tinture nelle vasche. Tutti gli altri erano fanciulli e lavoravano galleggiando alti nell'aria. Questo può sembrare uno dei racconti di magie della Shahryar Zahd, ma è la verità. Dall'alta volta della caverna pendeva una gigantesca rete di cordicelle, parallele e vicine le une alle altre, una rete verticale alta e larga quanto era alta e larga l'intera caverna. Si trattava ovviamente della trama di un qali che, una volta terminato, sarebbe servito da tappeto in qualche immenso salone di un palazzo, o in una sala da ballo. In alto contro questa trama, infilati in anelli di corde fissate a qualche punto ancora più in su nella buia volta, penzolava una turba di fanciulli. I bimbetti e le bimbette erano tutti nudi (a causa della temperatura elevata dell'aria lassù, mi spiegò la Principessa Falena) e pendevano per tutta la larghezza della trama, ma ad altezze diverse, alcuni più in su, altri più in giù. In alto, il qali era già completato in parte, dall'orlo fino alle varie altezze alle quali lavoravano i bambini, e, anche in quella prima fase della lavorazione, io potei constatare che si trattava di un qali dai disegni floreali quanto mai complessi e multicolori. Ognuno dei fanciulli che penzolavano lassù aveva sulla testa una candela fermata con la cera, e tutti stavano lavorando attivamente anche se non riuscivo a vedere che cosa stessero facendo; sembrava che le loro minuscole dita fossero alle prese con l'orlo inferiore non completato del qali. La Principessa disse: «Stanno tessendo nella trama i fili dell'ordito. Ogni schiavo ha in mano una spoletta e una matassa di filo di un determinato colore. Passa il filo attraverso la trama e lo tende, nell'ordine richiesto dal disegno.» «Ma in nome del Cielo» domandai «come può, ogni bambino, sapere dove far passare il proprio filo, tra tutti gli altri, così numerosi e per formare un disegno talmente complicato?» «Il maestro dei qali canta loro le istruzioni» si mise a spiegarmi la Principessa Falena. «Il nostro arrivo lo ha interrotto. Ecco, ora il maestro ricomincia.» Era una cosa mirabile. L'uomo denominato maestro dei qali sedeva davanti a un tavolo sul quale si trovava un foglio di carta dalle dimensioni enormi. Vi si vedevano tracciati innumerevoli e perfetti quadratini sui quali era stato sovrapposto quello che doveva essere il disegno definitivo del qali, con l'indicazione degli innumerevoli diversi colori.
Il maestro dei qali, consultando il foglio, cantilenava, in quest'ordine, qualcosa come ad esempio: «Uno, rosso!... Tredici, blu!... Quarantacinque, marrone!... Cinquantasei...» Solo che le parole cantilenate da lui erano di gran lunga più complesse di così. Egli doveva farsi udire in alto, vicino alla volta della caverna, le sue parole dovevano essere inequivocabilmente comprese da ogni bambino e ogni bambina cui venivano rivolte, e dovevano, per giunta, avere una cadenza che li facesse lavorare tutti ritmicamente. Mentre le "parole" rivolte a un bambino schiavo dopo l'altro dicevano a ognuno di essi dove applicare la spoletta, il "cantilenamento" delle parole stesse, in tono acuto o in tono basso, diceva a quel singolo, piccolo schiavo fino a qual punto della trama doveva fare arrivare il filo e quando doveva annodarlo. Mediante questo meraviglioso metodo di lavoro, gli schiavi completavano il qali, filo per filo, trama per trama, fino al fondo della caverna, e, una volta terminato, esso sarebbe stato perfetto, in quanto a esecuzione, come se lo avesse dipinto un singolo artista. «Questo solo qali potrà, in ultimo, costare molti schiavi» disse la Principessa, mentre ci voltavamo per uscire dalla caverna. «I tessitori devono essere il più possibile in tenera età, per pesare poco e per avere dita minuscole e agili. Ma non è facile insegnare un lavoro tanto complicato a bambini così piccoli. Inoltre, essi svengono frequentemente, a causa della calura che c'è lassù, e precipitano fratturandosi le ossa e muoiono. Oppure, se vivono abbastanza a lungo, sono quasi sicuramente destinati a diventare ciechi, perché la luce è fioca e perché devono scrutare l'ordito da vicino. E per ognuno di essi che muore, un altro piccolo schiavo deve essere già addestrato e pronto.» «Ora capisco» dissi io «perché anche un qali di dimensioni minime è tanto prezioso.» «Ma immaginate quanto verrebbe a costare» precisò la Principessa, mentre uscivamo di nuovo nella luce del giorno, «se dovessimo ricorrere al lavoro di gente libera.»
4. La carrozza ci ricondusse fino alla città, poi, riattraversandola, nei giardini del palazzo. Ancora una o due volte tentai di strappare alla Principessa un qualche accenno a quanto sarebbe accaduto quella notte, ma ella continuò ad essere inflessibile e a non soddisfare la mia curiosità. Soltanto quando scendemmo dalla carrozza e mentre lei e sua nonna si accingevano a congedarsi da me per rientrare nell'anderun, accennò al nostro appuntamento. «Quando spunterà la luna» disse. «Di nuovo vicino alla guisa'at.» Ma prima di allora dovetti superare un piccolo cimento. Quando entrai nella mia stanza, il servo Karim mi informò che mi sarebbe stato accordato l'onore di cenare quella sera con lo Scià Zaman e con la sua Shahryar Zahd. Si trattava senza dubbio di una somma cortesia da parte loro, tenuto conto di quanto ero giovane e insignificante in assenza di mio padre e di mio zio, gli ambasciatori. Tuttavia confesso che non apprezzai molto tale onore mentre sedevo, augurandomi che il pasto terminasse al più presto. Per una ragione in particolare mi sentivo lievemente a disagio alla presenza dei genitori della fanciulla che mi aveva invitato allo zina più tardi quella notte. (Dell'altra ragazza, la quale in qualche modo avrebbe partecipato allo zina, sapevo come lo Scià dovesse esserne il padre, ma non potevo supporre chi ne fosse la madre.) Inoltre, stavo letteralmente sbavando al pensiero di quanto era sul punto di accadere, sebbene non sapessi esattamente che cosa sarebbe accaduto. Con le glandole salivali che funzionavano così incontrollabilmente, stentavo a gustare l'ottimo pasto e ancor più a sostenere la conversazione. Per fortuna, la loquacità della Shahryar mi impedì di dire qualcosa di più di un occasionale «Sì, Maestà», di un «Oh, davvero?» o di un «Dite, dite.» Infatti ella diceva, e come. Nulla avrebbe potuto impedirle di parlare; anche se, a parer mio, non diceva un granché di sostanziale. «Sicché» disse «oggi avete veduto coloro che lavorano ai qali.» «Sì, Vostra Maestà.» «Sapete, nei tempi antichi esistevano qali magici capaci di portare un uomo nell'aria.» «Oh, davvero?»
«Sì, un uomo poteva salire su un qali e ordinargli di condurlo in qualche luogo molto, molto remoto del mondo. E il qali volava via, sorvolando montagne e mari e deserti, e conducendolo là in un batter d'occhio.» «Dite, dite.» «Sì. Vi narrerò ora la storia di un Principe. La sua amante, una Principessa, venne rapita dal gigantesco uccello Rukh ed egli si disperò. Pertanto si fece dare da un jinn uno dei qali magici e...» E poi, grazie al Cielo, la storia finì e finalmente ebbe termine anche il pasto e con esso la mia impaziente attesa, dopodiché, come il Principe della fiaba, mi affrettai a raggiungere la Principessa che amavo. Ella si trovava accanto alla meridiana di fiori e, per la prima volta, non era accompagnata dalla megera, la sua chaperonne. Mi prese per mano e mi condusse lungo i viali del giardino e intorno al palazzo, fino ad un'ala dello stesso. Ignoravo che esistesse. Le porte erano sorvegliate come tutti gli altri ingressi, ma alla Principessa Falena e a me bastò semplicemente aspettare al riparo di un cespuglio in fiore finché entrambe le sentinelle voltarono la testa. Lo fecero contemporaneamente, quasi avessero avuto l'imbeccata, ed io mi domandai se Falena non ne avesse comprato la complicità. Lei ed io volammo dentro non veduti, o almeno senza che ci venisse intimato l'alt, ed ella mi condusse lungo numerosi corridoi nei quali le guardie erano stranamente assenti; voltammo intorno a molti angoli e infine venimmo a trovarci di fronte a una porta ugualmente non sorvegliata e ne varcammo la soglia. Ci trovammo nella camera da letto di lei, una stanza con molti splendidi qali, con sottili e trasparenti tende e con drappeggi dai molti colori degli sharbat, annodati o fluttuanti in una confusione tumultuosa, ma tutti tenuti accuratamente lontani dalle lampade che ardevano tra essi. Il pavimento era rivestito, quasi da una parete all'altra, da un gran numero di cuscini, anch'essi con i colori degli sharbat; erano tanti che non riuscii a distinguere quali di essi formassero il diwan e quali il letto della Principessa. «Benvenuto nel mio appartamento, Mirza Marco» ella disse. «E a questo, soprattutto.» E, in qualche modo sciolse quello che doveva essere l'unico nodo - o l'unica fibbia - da cui erano sostenute tutte le sue vesti, poiché tutte le scivolarono di dosso contemporaneamente. Venne a trovarsi dinanzi a me, nella luce calda delle lampade, vestita soltanto dalla propria bellezza, da un sorriso provocante, dalla resa apparente e da un ornamento, l'unico, un mazzolino formato da tre vivide e rosse ciliege, tra i neri capelli dalla complicata acconciatura. Sullo sfondo dei chiari colori di sharbat della stanza, la Principessa si profilava vividamente: rosso, nero, verde e bianco. Rosse erano le ciliege contro le nere trecce, verdi erano gli occhi dalle lunghe ciglia nere, rosse le labbra sul viso color dell'avorio, rossi i capezzoli e neri i riccioli più in basso, sullo sfondo avorio del corpo. Il sorriso di lei si accentuò mentre ella vedeva il mio sguardo scenderle sul corpo nudo e risalire fino alle tre vivide ciliege tra i capelli. Poi Falena mormorò: «Vivide come rubini, non è vero? Ma più preziose dei rubini, poiché le ciliege avvizziscono. O forse, invece» domandò in modo seducente, facendo scorrere la rossa punta della lingua sul rosso labbro superiore, «verranno mangiate?» Poi rise. Io stavo ansimando come se avessi attraversato di corsa l'intera Bagdad fino a quella stanza incantata. Goffamente andai verso di lei ed ella mi lasciò avvicinare fino alla distanza delle braccia tese, poiché lì mi fermò, risolutamente, con una mano protesa a toccare la parte più avanzata di me. «Bene» disse, approvando quel che aveva toccato. «Prontissimo e avido dello zina. Spogliatevi, Marco! Io provvedo alle lampade.» Ubbidiente, mi denudai, tenendo però, sempre, lo sguardo affascinato fisso su di lei. Ella si spostò con grazia nella stanza, spegnendo uno stoppino dopo l'altro. Quando, per un momento, veniva a trovarsi di fronte ad una delle lampade, sebbene tenesse le gambe strettamente unite, io potevo vedere un piccolo triangolo di luce risplendere come un faro ammiccante tra le cosce e il monte di Venere, e rammentai quanto mi aveva detto molto tempo prima un ragazzo veneziano: che era quello l'indizio di «una donna la cui abilità a letto è desiderabile all'estremo». Una volta che ebbe spente tutte le lampade, Falena tornò indietro verso di me nell'oscurità.
«Vorrei che tu avessi lasciato accese le lampade» dissi. «Sei bellissima, Falena, e per me è una delizia contemplarti.» «Ah, ma le fiammelle delle lampade sono fatali per le falene» disse lei, e rise. «Il chiaro di luna che penetra attraverso la finestra è sufficiente perché tu veda me e niente altro. Ora...» «Ora!» le feci eco, con un perfetto e gioioso accordo, e mi lanciai, ma lei riuscì a schivarmi con destrezza. «Aspetta, Marco! Stai scordando che non sono io il tuo dono di compleanno.» «Ah, sì» farfugliai. «Dimenticavo. Tua sorella. Ora rammento. Ma perché allora ti sei spogliata, Falena, se è lei a...» «Ti ho detto che avrei spiegato stanotte, e lo farò, purché tu la smetta di brancicarmi. Stammi a sentire, adesso. Questa mia sorella, essendo a sua volta una Principessa di sangue reale, non ha dovuto subire la mutilazione del tabzir quando era bambina, in quanto si prevedeva che un giorno avrebbe sposato qualche principe. Pertanto è una femmina integra, intatta in tutti i suoi organi, e con tutte le necessità, i desideri e le capacità di una donna. Sfortunatamente, la cara ragazza crescendo è diventata brutta. Spaventosamente brutta. Non riuscirei a descriverti fino a qual punto lo sia.» «Ma in "qual modo" precisamente è brutta, Falena? Soltanto in viso, forse? Oppure è deforme? Gobba? O che altro?» «Zitto, Marco! Mia sorella sta aspettando fuori della porta e potrebbe udirti.» Abbassai la voce. «Com'è che questa creatura... come si chiama la ragazza?» «E la Principessa Shams. Anche questo un peccato, in quanto il nome significa sole. In ogni modo, non insistiamo sulla sua bruttezza rovinosa. Basterà dirti che questa mia povera sorella già da molto tempo ha rinunciato ad ogni speranza di poter concludere un qualsiasi matrimonio, o anche soltanto di poter attrarre un fuggevole amante. Nessuno riuscirebbe a guardarla in piena luce, o a tastarla al buio, e a mantenere tesa la lancia per lo zina.» Mi sentii percorrere da un brivido gelido. Se non avessi continuato a scorgere Falena, in modo fioco ma seducente, la mia stessa lancia si sarebbe afflosciata sin d'ora. «Ciò nonostante, posso assicurarti che le sue parti femminili sono normalissime. E che, in modo del tutto normale, vogliono essere riempite e saziate. Ecco perché lei ed io abbiamo escogitato un piano. E siccome io voglio bene a mia sorella Shams, collaboro con lei per attuarlo. Ogni qual volta ella scorge dal suo nascondiglio un uomo che desta in lei il desiderio, io lo invito qui e...» «Hai fatto questo già altre volte!» belai, sgomento. «Imbecille di un infedele, certo che l'ho fatto! Molte e molte volte. Ecco perché posso prometterti che ne godrai. Perché molti altri uomini hanno goduto.» «Hai detto che era un dono di compleanno...» «Disdegni forse un dono perché proviene da qualcuno che è generoso nel donare? Taci e ascolta. Ecco quello che facciamo. Tu ti corichi, supino. Io mi metto a cavalcioni su di te, all'altezza della tua vita, rimanendo sempre dinanzi ai tuoi occhi. Mentre tu ed io ci accarezzeremo e ce la spasseremo (e faremo tutto, tranne la cosa ultima) mia sorella striscerà avanti silenziosamente e si accontenterà della tua metà inferiore. Tu non vedrai mai Shams, né la toccherai, se non con il tuo zab, che non incontrerà alcunché di ripugnante. Nel frattempo, vedrai e sentirai soltanto me. E tu ed io ci ecciteremo reciprocamente fino al delirio, per cui quando lo zina si compirà, là sotto, tu non ti accorgerai mai che "non" saremo io e te a godercelo.» «Ma tutto questo è grottesco.» «Puoi rifiutare il dono, naturalmente» disse lei, gelida. Ma si fece più vicina, così da sfiorarmi con i seni, i quali erano tutt'altro che gelidi. «Oppure puoi offrire a me e a te stesso una delizia e al contempo compiere una buona azione per una povera creatura destinata per sempre all'oscurità e all'inesistenza. Allora... rifiuti?» Tese la mano cercando la risposta. «Ah, immaginavo che non avresti rifiutato. Sapevo che eri una brava persona. Benissimo, Marco, corichiamoci.» Così facemmo. Io mi distesi supino, come mi era stato detto, e Falena drappeggiò il proprio corpo intorno alla mia vita, in modo che non potessi vedere sotto ad esso, e iniziammo i preludi del fare musica. Con leggerezza ella mi passò le punte delle dita sul viso, tra i capelli e sul torace, ed io feci
altrettanto di lei, e ogni qual volta ci toccavamo, ovunque ci toccassimo, sentivamo quella sorta di solleticante scossa che si può sentire strofinando energicamente il pelo di un gatto nel senso sbagliato. Ma Falena "non" poteva solleticarmi in alcun modo sbagliato (né potevo io con lei) come accertai. I capezzoli della Principessa divennero impetuosamente turgidi sotto le mie carezze, e anche in quella luce fioca potei vedere le pupille di lei dilatarsi e sentii che aveva le labbra tumide di passione. «Perché chiami questo fare musica?» ella domandò sommessamente, a un certo momento. «E' di gran lunga più bello della musica.» «Be', sì» risposi, dopo aver riflettuto. «Dimenticavo il genere di musica che avete voi qui, in Persia...» Di tanto in tanto Falena tendeva una mano dietro di sé, per accarezzare quella mia parte che mi impediva di vedere, e ogni volta questo mi faceva sussultare con una sensazione deliziosa di urgenza, e ogni volta lei ritirava la mano giusto in tempo, altrimenti avrei eiaculato uno spruzzo in aria. Mi consentì di portare una mano sulle sue parti intime, limitandosi a bisbigliare, fremente: «Attento con le dita. Soltanto la zambur. Non dentro, rammenta.» E le mie carezze la fecero arrivare varie volte al parossismo. Poco dopo mi si mise a cavalcioni sul torace, il corpo eretto, i riccioli dell'inguine soffici contro il mio viso, affinché la mihrab fosse a portata della lingua, e bisbigliò: «La lingua non può lacerare la membrana sangar. Sei autorizzato a fare tutto quello che puoi con la lingua.» Sebbene la Principessa non adoperasse alcun profumo, quella sua parte emanava una fresca fragranza, come felci o lattuga appena colte. Piacevolissima. E non aveva esagerato parlando della propria zambur; era come se la punta di un'altra lingua incontrasse la mia, là sotto, e leccasse e leccasse e sondasse reagendo alla mia. E questo causava a Falena un parossismo incessante, che a tratti diminuiva soltanto lievemente in intensità, come il canto senza parole o lamento con il quale ella lo accompagnava. Delirio, aveva detto Falena, e delirio divenne. Credetti seriamente, quando eiaculai la prima volta, di averlo fatto in qualche modo entro la mihrab di lei, sebbene fosse ancora chiusa e calda e umida contro la mia bocca. Soltanto quando ricominciai a connettere con la mente mi resi conto che un'altra femmina doveva cavalcare la metà inferiore del mio corpo e che doveva trattarsi, ovviamente, della reclusa sorella Shams. Non potevo vederla e non volevo guardarla né ci provavo; ma, a giudicare dal lieve peso su di me, potevo dedurre che l'altra principessa doveva essere piccola e fragile. Staccai la bocca dalla mihrab di Falena, che avidamente incalzava, per domandare: «Tua sorella è molto più giovane di te?» Quasi tornando indietro con riluttanza da distanze remote, ella aprì una parentesi nell'estasi appena quanto bastava per dire, con una voce esile, ansimando: «Non... molto...» E poi si dissolse di nuovo nelle lontananze ed io ricominciai a fare del mio meglio per mandarla sempre più lontano e più in alto, e ripetutamente mi unii a lei in quella sublime esultanza e, per conseguenza, varie volte eiaculai spruzzi nella mihrab estranea, senza curarmi in realtà di sapere a chi appartenesse, ma conservando quel minimo di consapevolezza per sperare vagamente che la più giovane e laida Principessa Sole si stesse godendo l'impiego che faceva di me quanto lo godevo io. Lo zina tripartito continuò a lungo. In fin dei conti, la Principessa Falena ed io eravamo nel fiore dell'adolescenza e potevamo continuare ad eccitarci fino a ripetute fioriture, e la Principessa Shams coglieva con esultanza (o così supponevo) ogni mio bouquet. Ma infine anche l'apparentemente insaziabile Falena parve sazia, e i suoi fremiti cessarono e anche il mio zab si ridusse e si afflosciò stanco, per riposare. Quel mio membro era ormai molto infiammato e irritato; la lingua mi doleva alla radice e mi sentivo svuotato e spossato in tutto il corpo. Falena ed io giacemmo immobili per qualche tempo, ricuperando le forze, lei abbandonata sul mio petto, i capelli che mi coprivano il viso. Le tre ciliege ornamentali si erano staccate da un pezzo, finendo chissà dove. Mentre giacevamo inerti, sentii un bacio umido posarmisi sulla pelle del ventre, quindi seguì un breve suono frusciante mentre Shams sgattaiolava invisibile fuori della stanza.
Mi alzai, mi vestii e la Principessa Falena si infilò in una corta tunica che non copriva in alcun modo, a dire il vero, le sue nudità, poi mi ricondusse lungo i corridoi dell'anderun e fuori nei giardini. Da un manaret in qualche punto, il primo muezzin della giornata stava gorgheggiando l'invito alla preghiera che precede di un'ora l'aurora. Sempre senza essere fermato da alcuna delle guardie del palazzo, ripercorsi nei giardini il cammino fino all'ala del palazzo ove si trovava la mia stanza. Il servo Karim mi aspettava coscienziosamente desto. Mi aiutò a spogliarmi affinché potessi coricarmi e si lasciò sfuggire alcune intimorite esclamazioni quando constatò in quale stato di estrema spossatezza mi trovavo. «Sicché la lancia del giovane Mirza ha trovato il bersaglio» disse, ma non pose domande audaci. Si limitò a tirare un po' su con il naso, afflitto, a quanto parve, perché non avevo più bisogno dei suoi modesti servigi, poi se ne andò nel proprio letto. Mio padre e zio Maffeo rimasero lontani da Bagdad per tre settimane o più. Durante questo periodo, io trascorsi quasi ogni giorno accompagnato a vedere cose interessanti dalla Shahzrad Magas, con la nonna a rimorchio, e quasi ogni notte la trascorsi indulgendo allo zina con entrambe le regali sorelle, Falena e la Principessa Sole. Una volta, la Principessa ed io andammo a visitare la Casa dell'Illusione, quell'edificio che era al contempo un ospedale e una prigione. Vi andammo un venerdì, il giorno del riposo, quando vi si recano molti cittadini in ozio, ed anche numerosi visitatori stranieri, poiché è considerata uno dei maggiori divertimenti di Bagdad. Vi entravano intere famiglie o gruppi di persone condotti da guide e, all'ingresso, a tutti veniva consegnato, dal portiere, un ampio grembiule che riparasse gli abiti. Poi i visitatori si aggiravano nell'edificio e le guide spiegavano i vari tipi di pazzie degli uomini e delle donne lì ricoverati; tutti ridevano dei loro lazzi o li commentavano. Alcuni di questi lazzi erano davvero comici, altri suscitavano pietà, altri ancora erano lascivi in modo divertente, ma qualcuno dei ricoverati faceva cose semplicemente ributtanti. Ad esempio, alcuni dei malati di mente, uomini e donne, sembravano non sopportare la presenza di noi visitatori e ci bersagliarono con qualsiasi cosa avessero sottomano. Ma poiché tutti questi ricoverati venivano, a ragione, tenuti nudi e a mani vuote, i soli proiettili di cui disponessero erano le loro feci. Per questo motivo il portiere distribuiva i grembiuli, e noi fummo lieti di averli indossati. A volte, la notte, mi sentivo io stesso una sorta di ricoverato, soggetto a sorveglianza ed esortazioni. Forse la terza o la quarta di tali occasioni, all'inizio della cosa, prima che la sorella invisibile strisciasse sul giaciglio, quando la Principessa Falena ed io ci eravamo appena svestiti e ci stavamo godendo i trastulli preliminari, ella smise di accarezzarmi, per trattenere le mie mani, che a loro volta accarezzavano, e per dirmi: «Mia sorella Shams vorrebbe chiederti un favore, Marco.» «Lo temevo» dissi. «Vuole fare a meno di te come intermediaria e prendere il tuo posto qui davanti.» «No. No. Non lo farebbe mai. Lei ed io siamo entrambe soddisfatte della cosa com'è organizzata adesso. Tranne un piccolo particolare, Marco...» Mi limitai a grugnire, poiché diffidavo. «Ti ho detto, Marco, che Sole ha avuto lo zina molte e molte volte. Tanto spesso e tanto energicamente che... be'... l'apertura mihrab della povera ragazza ha finito con l'essere ampliata di molto da questi abbandoni. Per parlare francamente, ella è aperta, là sotto, quanto una donna che abbia partorito molti figli. Il piacere che ricava dal nostro zina verrebbe accresciuto di molto se il tuo zab venisse, in un certo qual modo, ingrossato da...» «No!» esclamai, deciso, e cominciai a dimenarmi cercando di strisciar fuori del giaciglio, come un granchio, di sotto a Falena. «Aspetta!» protestò lei. «Sta fermo. Non ti propongo niente del genere, Marco...» «Non so che cosa tu abbia in mente, né perché» dissi, sempre contorcendomi. «Ho veduto lo zab di numerosi uomini dell'Oriente e il mio è già più grosso del loro. Rifiuto qualsiasi...»
«Ti ho detto di stare fermo! Hai uno zab ammirevole, Marco. Mi riempie completamente la mano. E sono certa che, sia come lunghezza, sia come grossezza, soddisfi Shams. Ella propone soltanto una raffinatezza nella prestazione.» Ebbene, questo era esasperante. «Nessun'altra donna si è mai lamentata delle mie prestazioni!» urlai. «Se tua sorella è brutta come tu dici, ti faccio osservare che non può certo criticare quello che ottiene!» «Ma senti chi parla di criticare!» mi schernì Falena. «Hai per caso un'idea di quanti uomini sognano, e sognano invano, di giacersi con una Principessa di sangue reale? O anche soltanto di poter vedere una Principessa con il "viso" non velato? E tu qui ne hai "due" che giacciono con te completamente nude e accondiscendenti ogni notte! Vorresti avere la presunzione di negare a una di loro il soddisfacimento di un piccolo capriccio?» «Be'...» dissi io, più calmo, «quale sarebbe il capriccio?» «Esiste un modo per acuire il piacere di una donna che ha l'orifizio troppo largo. Accresce non già lo zab vero e proprio, ma... com'è che chiami la sua estremità arrotondata?» «In veneziano si chiama fava. Credo che in "farsi" si chiami lubya.» «Benissimo. Dunque, ho notato, naturalmente, che tu non sei circonciso, e questa è una buona cosa perché la raffinatezza di cui parlo non è possibile con uno zab circonciso. Basta fare soltanto questo.» E lo fece, stringendo la mano intorno al mio zab e tirando indietro la pelle del prepuzio sin dove poteva arrivare, e poi ancora un pochino più in giù. «Vedi? Fa rigonfiare ancora di più la fava.» «Ma causa una sensazione sgradevole, quasi dolorosa.» «Soltanto per un attimo, Marco, e si tratta di una sensazione sopportabile. Limitati a fare così soltanto al momento di inserirlo. Shams dice che fa provare alle labbra della sua mihrab quella prima e bellissima sensazione di essere divaricate. Una sorta di gradito stupro, dice. Alle donne piace questo, credo, anche se, naturalmente, non potrò saperlo finché non mi sarò sposata.» «Dio me varda» mormorai. «E naturalmente non dovrai farlo "tu" stesso, correndo il rischio di toccare il laido corpo della Principessa Sole. Provvederà lei stessa a quel piccolo stiramento. Voleva soltanto avere il tuo consenso.» «Non desidera per caso qualcos'altro, tua sorella Shams?» domandai, sarcasticamente. «Per essere un mostro, sembra insolitamente esigente.» «Ma sentilo!» tornò a schernirmi Falena. «Ti trovi qui, in una compagnia che ogni altro uomo al mondo ti invidierebbe. E' una Principessa a insegnarti un espediente sessuale che quasi tutti gli altri uomini non imparano mai. Mi sarai grato, Marco, un giorno, quando vorrai far godere una donna dalla mihrab troppo larga o flaccida, sarai contento di avere imparato come si fa. E anche quella donna ti sarà grata. E ora, prima che arrivi la Principessa Sole, rendi grata me, una volta o due, Marco, in altri modi...»
5. A volte, per divertirci e per imparare, Falena ed io assistevamo alle sedute della corte di giustizia reale. Veniva denominata semplicemente Diwan, a causa del gran numero di cuscini diwan sui quali sedevano lo Scià Zaman e il wazir Jamshid e numerosi e anziani mufti della legge musulmana, nonché, talora, emissari dell'Ilkhan Abaga. Dinanzi a loro venivano portati i criminali da processare, nonché i cittadini che dovevano presentare lagnanze o chiedere concessioni; lo Scià, il suo wazir e gli altri funzionari ascoltavano le accuse o le petizioni o le suppliche, poi conferivano tra loro e infine pronunciavano la sentenza o annunciavano le decisioni. Come semplice spettatore, trovavo il Diwan istruttivo. Ma, se fossi stato un criminale, mi sarei sentito in preda al terrore venendo trascinato lì. E, qualora fossi stato un cittadino che avesse avuto una lagnanza da esporre, si sarebbe dovuto trattare di una lagnanza enorme perché potessi osare
esporla al Diwan. Infatti, sull'aperta terrazza subito al di là della sala ardeva un braciere dalle dimensioni immense e su di esso si trovava un gigantesco calderone d'olio bollente, e accanto ad esso aspettavano numerose robuste guardie del palazzo nonché il giustiziere ufficiale dello Scià, pronto a servirsene. La Principessa Falena mi confidò che il calderone era destinato non soltanto ai malfattori riconosciuti colpevoli, ma anche a quei cittadini che muovevano false accuse, o presentavano lagnanze ingiustificate o testimoniavano il falso. Le guardie accanto al calderone avevano un aspetto alquanto minaccioso, ma il carnefice era un uomo che sembrava scelto apposta per incutere terrore. Incappucciato e mascherato, vestiva di rosso, lo stesso rosso delle fiamme infernali. Una sola volta vidi un malfattore condannato al calderone. Io lo avrei giudicato con minore severità, ma, d'altro canto, non sono musulmano. Trattavasi di un ricco mercante persiano, il cui anderun accoglieva le quattro mogli consentite, oltre alle solite numerose concubine. Il reato del quale l'uomo era accusato venne letto a voce alta: «Khalwat». Questa parola significa soltanto «vicinanza compromettente», ma i particolari dell'incriminazione risultarono più illuminanti. Il mercante era accusato di avere fatto zina con due delle sue concubine contemporaneamente, mentre le quattro mogli di lui e una terza concubina erano costrette a guardare; e tali circostanze tutte insieme erano haram secondo la legge musulmana. Ascoltando le accuse, mi sentii senz'altro comprensivo nei confronti dell'imputato, ma anche, senza alcun dubbio, personalmente a disagio in quanto, quasi ogni notte, facevo lo zina con due donne che non erano le mie mogli. Ma sbirciai furtivamente la mia compagna, la Principessa Falena, e sul viso di lei non scorsi né rimorso né apprensione. Poi, seguendo il processo, capii a poco a poco che anche il peggiore dei reati haram non è punibile dalla legge musulmana se almeno quattro testimoni oculari non dichiarano che è stato commesso. Il mercante, volutamente, o forse orgogliosamente, o stupidamente, aveva mostrato le sue prodezze a ben cinque donne, e in seguito, o per ripicca, o per gelosia, o per qualche altro motivo femminile, esse lo avevano accusato di khalwat. E così le cinque donne poterono inoltre stare a guardare mentre egli veniva trascinato, scalciante e urlante, sulla terrazza e gettato vivo nell'olio bollente. Non starò a indugiare sui pochi minuti che seguirono. Non tutte le condanne inflitte dal Diwan erano così straordinarie. Alcune venivano abilmente escogitate in modo che si adattassero ai vari reati. Un giorno venne portato dinanzi al tribunale un fornaio colpevole di aver frodato i suoi clienti sul peso del pane; fu condannato ad essere conficcato nel suo stesso forno e cotto fino alla morte. Un'altra volta il tribunale giudicò un uomo accusato del singolare reato di essere passato sopra un pezzo di carta mentre camminava per la strada. Ad accusarlo era stato un ragazzo che, camminando dietro di lui, aveva raccattato il pezzo di carta e scoperto come, tra le parole scritte su di esso, figurasse il nome di Allah. L'imputato sostenne di avere soltanto involontariamente arrecato offesa all'onnipotente Allah, ma altri testimoni dichiararono che si trattava di un blasfemo incorreggibile. Dissero di averlo veduto spesso mettere altri libri sopra la sua copia del Corano; a volte egli aveva addirittura tenuto il sacro libro sotto l'altezza della vita, e una volta lo aveva afferrato "con la mano sinistra". Pertanto l'uomo venne condannato ad essere calpestato, come un pezzo di carta, dal carnefice e dalle guardie, fino alla morte. Ma soltanto durante le sedute del Diwan il palazzo dello Scià era un luogo di terrore religioso. In più frequenti occasioni religiose, si svolgevano in esso festeggiamenti e vi regnava l'allegria. I Persiani riconoscono circa settemila antichi profeti dell'Islam e accordano a ognuno di essi un giorno di festeggiamenti. Nelle ricorrenze dei profeti più importanti, lo Scià offriva feste, invitando di solito tutti i personaggi di sangue reale e tutti i nobili di Bagdad, ma talora apriva i giardini del palazzo a chiunque volesse intervenire. Sebbene io non fossi un personaggio di sangue reale o nobile, e neppure musulmano, risiedevo nel palazzo e pertanto presi parte a numerose di quelle feste. Rammento una notte in cui si festeggiava un profeta morto da lungo tempo e il ricevimento aveva luogo all'aperto, nei giardini. Ad ogni invitato non venne assegnata la solita pila di cuscini diwan sulla quale sedere o adagiarsi, bensì un alto mucchio di freschi e fragranti petali di rose. Ogni ramo di ogni albero era delineato da candele
applicate alla corteccia, e la luce splendeva tra il fogliame con ogni possibile sfumatura di verde. Su ogni aiuola fiorita si trovavano in gran numero candelabri, la luce delle cui candele splendeva tra la moltitudine di fiori diversi con ogni gradazione ed ogni sfumatura di tutti i colori possibili. Tutte quelle candele bastavano a rendere il giardino luminoso e colorato quasi come durante il giorno. Ma, per giunta, i servi dello Scià avevano in precedenza acquistato tutte le tartarughe e tartarughine in vendita nel bazar, o catturate da ragazzi in campagna, e applicato una candela al carapace di ognuna di esse, lasciando poi libere tutte quelle migliaia di creature di strisciare qua e là nei giardini come mobili luci. Come sempre, v'erano cibi e bevande in più grande abbondanza di quanto ne avessi mai veduto offrire a qualsiasi festa in occidente. Inoltre, intrattenevano gli ospiti suonatori di strumenti, molti dei quali non avevo mai veduto né udito prima di allora; e, accompagnati dalla loro musica, danzatori danzavano e cantori cantavano. I danzatori rievocavano, con lance e sciabole e un gran battere dei piedi, battaglie famose di famosi guerrieri persiani del passato, come Rustan e Sohrab. Le danzatrici quasi non muovevano affatto i piedi, ma agitavano convulsamente i seni e il ventre, in modo tale da fare sbarrare gli occhi a chi le guardava. I cantori non intonavano inni di carattere religioso (l'Islam disapprova questo genere musicale) ma tutto l'opposto; intendo dire, cioè, canzoni straordinariamente ribalde. V'erano inoltre addestratori di orsi, con animali agili e acrobatici, incantatori di serpenti che facevano danzare nelle loro ceste i rettili incappucciati detti najhaja, e fardarbab che divinavano il futuro mediante i loro vassoi di sabbia, nonché pagliacci shaukhran che, vestiti in modo buffo, si esibivano con capriole e lazzi e gesti impudichi. Quando fui molto brillo a furia di bere araq di datteri, rinunciai ai miei scrupoli cristiani contro la divinazione e mi rivolsi a uno dei fardarbab, un anziano arabo o ebreo la cui barba sembrava escrescenze fungoidi, e gli domandai che cosa riuscisse a scorgere nel mio futuro. Ma dovette riconoscere in me un buon cristiano che non credeva alla sua arte divinatoria, poiché si limitò a scrutare una sola volta la sabbia, dopo averla scossa, e a grugnire: «Guardati dalla sete di sangue della bellezza», parole che non mi dicevano un bel niente del mio avvenire, sebbene ricordassi di avere già udito qualcosa di simile in passato. Pertanto risi con scherno del vecchio impostore, mi rimisi in piedi, mi allontanai da lui barcollando e piroettando e infine caddi e Karim venne e mi sorresse fino alla camera da letto. Questa fu una delle notti nelle quali la Principessa Falena, Sole ed io non ci riunimmo. Un'altra volta, Falena mi disse di trovare qualche altra cosa da fare per alcune notti, in quanto stava avendo la «maledizione della luna». «La maledizione della luna?» le feci eco. Lei disse, spazientita: «La perdita di sangue delle donne.» «E che cos'è?» domandai, poiché, davvero, non ne avevo mai sentito parlare prima di allora. Gli occhi verdi mi sbirciarono in tralice con divertita esasperazione, ed ella disse, teneramente: «Sciocco. Come tutti i giovani, vedi in ogni bella donna una creatura pura e perfetta, simile alla razza dei piccoli esseri alati chiamati "peri". I delicati "peri" non si cibano neppure, ma sopravvivono grazie alla fragranza che aspirano dai fiori, e, per conseguenza, non devono mai urinare né defecare. Allo stesso modo, tu credi che una bella donna non debba avere alcuna delle imperfezioni e delle brutture normali per il resto del genere umano.» Alzai le spalle. «E' un male pensarla così?» «Oh, non direi, poiché noi belle donne il più delle volte approfittiamo di questa illusione maschile. Ma si tratta pur sempre di un'illusione, Marco, e ora io tradirò il mio sesso e ti disilluderò. Ascoltami.» Spiegò quello che accade a una bambina che, intorno all'età di dieci anni diventa donna; la cosa che continua ad accaderle, in seguito, ad ogni luna dell'anno. «Davvero?» dissi io. «Non lo avevo mai saputo. Succede proprio a tutte le donne?» «Sì, e devono sopportare la maledizione della luna finché invecchiano e si inaridiscono sotto ogni aspetto. La maledizione è accompagnata, inoltre, da crampi e mal di schiena e malumore. La donna diventa irritabile e insopportabile, in questo periodo, e se è saggia si tiene lontana dagli altri, oppure si stordisce fino al torpore con teryak o con banj, finché la maledizione non è passata.»
«Sembra spaventoso.» Falena rise, ma non divertita. «Per la donna è di gran lunga peggio se viene una luna senza la maledizione. Questo significa, infatti, che è incinta. E degli umidori, delle perdite, delle cose disgustose e imbarazzanti che seguono allora non comincerò nemmeno a parlarti. In questo momento sono imbronciata, irritabile e insopportabile e me ne starò per mio conto. Tu vattene, Marco, e spassatela e goditi la libertà del tuo corpo, come tutti i maledetti uomini senza fastidi, e lascia a me la mia infelicità di donna.» Sebbene la Principessa Falena mi avesse descritto le debolezze del suo sesso, io non potei, né allora, né in seguito, pensare a una bella donna come a una creatura inerentemente imperfetta o perfida: o almeno non finché ella non dimostrava di esserlo, come aveva fatto Donna Ilaria, perdendo così tutta la mia stima. Lì in Oriente stavo ancora imparando modi nuovi di apprezzare le belle donne, stavo ancora facendo nuove scoperte per quanto le concerneva, e pertanto non ero affatto propenso a disprezzarle. Per dare un esempio: quando ero più giovane, avevo creduto che la bellezza fisica di una donna consistesse in aspetti facilmente osservabili come il viso, i seni, le gambe, le natiche, e in altri meno facilmente osservabili, come il grazioso e invitante (e accessibile) monte di Venere con la mihrab. Ma ormai avevo avuto un numero sufficiente di donne per rendermi conto che esistevano aspetti più sottili della bellezza fisica. Per menzionarne soltanto uno, mi piacciono in modo particolare i tendini delicati che, dall'inguine di una donna, si estendono sul lato interno delle cosce, quando le apre. Avevo finito inoltre con il rendermi conto che, anche nelle caratteristiche comuni a tutte le belle donne, esistono differenze sostanziali, percettibili ed eccitanti in quanto tali. Ogni bella donna ha bellissimi seni e capezzoli, ma esistono innumerevoli varianti nelle dimensioni, nella forma, nelle proporzioni e nel colore, tutte splendide. Ogni bella donna ha una bella mihrab, ma, oh, quanto dilettevolmente l'una è diversa dall'altra: nella posizione, più avanti o più sotto, nel colore e nella pelosità delle grandi labbra, nella sua somiglianza a una conchiglia e nel suo rimanere strettamente chiusa come una borsa, nella posizione, nelle dimensioni e nella solennità della zambur... Potrò forse sembrare più lussurioso che galante. Ma voglio soltanto sottolineare il fatto che mai ho potuto disprezzare le belle donne di questo mondo, che mai le ho disprezzate e mai le disprezzerò... nemmeno allora, a Bagdad, quando la Principessa Falena, sebbene appartenesse alla categoria delle belle donne, fece del suo meglio per mostrarmene gli aspetti peggiori. Ad esempio, un giorno ella fece in modo da introdurmi di nascosto nell'anderun del palazzo, non per i nostri spassi notturni, ma nel pomeriggio, perché le avevo detto: «Falena, ricordi il mercante che vedemmo giustiziare per il suo modo haram di fare zina? E' questo il genere di cose che accade di solito in un anderun?» Ella mi rivolse uno dei suoi verdi sguardi e disse: «Vieni a vedere tu stesso.» In quell'occasione, senza alcun dubbio, dovette corrompere le guardie e gli eunuchi affinché guardassero dall'altra parte, poiché non solo riuscì a farmi entrare non veduto in quell'ala del palazzo, ma mi condusse, inoltre, nel ripostiglio di un corridoio, ove due spioncini consentivano di guardare nell'una o nell'altra di due stanze vaste e voluttuosamente arredate. Sbirciai attraverso uno di essi e poi attraverso l'altro; entrambe le stanze erano deserte, per il momento. Falena disse: «Quelle sono sale comuni ove le donne possono riunirsi quando sono stanche di restare sole nei propri alloggi. E questo ripostiglio è uno dei tanti punti di osservazione, in tutto l'anderun, nei quali si apposta a intervalli un eunuco. Egli osserva litigi o zuffe tra le donne, o altri casi di pessimo comportamento, e li riferisce a mia madre, la Prima Moglie Regale, che è responsabile del mantenimento dell'ordine. L'eunuco oggi non verrà qui e ora io andrò a dirlo alle donne. In seguito guarderemo insieme e vedremo come potranno approfittare della sua assenza.» Si allontanò, poi tornò indietro ed entrambi restammo in piedi, schiena contro schiena nell'angusto spazio, con un occhio accostato a uno degli spioncini. Per molto tempo non accadde nulla. Poi
quattro donne entrarono nella stanza che stavo osservando io, e si distesero qua e là sui cuscini diwan. Avevano tutte all'incirca la stessa età della Shahryar Zahd ed erano ugualmente belle. Una di loro sembrava essere persiana, poiché aveva la pelle color dell'avorio, i capelli neri come la notte, ma gli occhi azzurri come lapislazzuli. Un'altra ritenni che fosse armena, in quanto ognuno dei suoi seni aveva esattamente le stesse dimensioni della testa. La terza era negra, etiope o nubiana, e naturalmente aveva i piedi piatti, i polpacci lunghi e sottili, un di dietro che sembrava un balcone, pur essendo, sotto ogni altro aspetto, molto ben fatta: un viso grazioso, con le labbra non troppo tumide, il seno ben formato e belle e lunghe mani. La quarta era talmente bruna di pelle e aveva gli occhi talmente scuri che doveva essere araba. Ma le donne, pur sapendo di non essere osservate, e pur essendo libere di fare quel che volevano, non rinunciavano in alcun modo libertino al ritegno o al pudore. A parte il fatto che nessuna di loro portava il chador, erano tutte completamente vestite e così rimasero, né le raggiunsero amanti fatti entrare di nascosto. La negra e l'araba avevano portato una sorta di lavoro di cucito e si dedicarono a quel letargico passatempo. La persiana sedeva circondata da vasetti, pennelli e altri piccoli strumenti, e minuziosamente si occupò delle unghie delle mani e dei piedi dell'armena, dopodiché entrambe le donne colorarono con l'henné il palmo delle mani e le piante dei piedi. Ben presto mi annoiai fino all'apatia, come le quattro donne (le vedevo sbadigliare, le udivo ruttare, percepivo l'odore dei lori peti) e mi domandai come avessi potuto sospettare eccitanti orge babilonesi in una casa piena di donne soltanto perché tutte quelle femmine appartenevano a un unico uomo. Ovviamente, quando un così gran numero di donne doveva soltanto aspettare la convocazione del padrone, ad esse non restava letteralmente altro da fare. Potevano soltanto ciondolare qua e là, non più intraprendenti né vivaci di un vegetale, in attesa dei rari inviti a esercitare le loro parti animalesche. Tanto sarebbe valso spiare una fila di cavoli sul punto di andare in seme, ragion per cui mi voltai nel ripostiglio, deciso a dire qualcosa del genere alla Principessa Falena. Ma ella stava sorridendo lasciva; portò un dito alle labbra per ammonirmi, poi indicò il suo spioncino. Mi sporsi, guardai e soltanto a stento riuscii a reprimere un'esclamazione di stupore. In quell'altra stanza si trovavano due creature, una delle quali femmina, una ragazza notevolmente più giovane delle altre quattro, ed anche molto più graziosa, forse perché una maggior superficie di lei era visibile. Si era tolta il pi-jamah e tutti gli altri indumenti che indossava sotto ad esso e rimaneva nuda dalla vita in giù. Si trattava di un'altra araba dalla carnagione scura, ma il bel viso di lei era, in quel momento, acceso dalla fatica. L'occupante maschio della stanza era una di quelle «simiasse» grosse come un bambino, talmente peloso dappertutto che non avrei potuto vederne il sesso, se la ragazza non lo avesse energicamente lavorato con una mano per incoraggiare la maschilità dell'animale. In ultimo vi riuscì, ma lo scimmiotto si limitò a guardare stupidamente la piccola sporgenza eretta, e la ragazza dovette faticare altrettanto strenuamente per mostrargli che cosa farne, e dove. Ma, in ultimo, anche l'accoppiamento ebbe luogo, mentre Falena ed io guardavamo a turno attraverso lo spioncino. Una volta conclusosi il ridicolo atto, la ragazza araba si asciugò con una pezzuola, poi disinfettò alcuni graffi che il compagno le aveva inflitto. Infine si rimise il pi-jamah e condusse la scimmia saltellante fuori dalla stanza. Falena ed io, dal ripostiglio, che era diventato molto caldo e umido, uscimmo nel corridoio, ove potevamo parlare senza essere uditi dalle quattro donne tuttora nell'altra stanza. Dissi: «Ora non mi stupisce più quanto disse il wazir, che quell'animale viene denominato 'indicibilmente sozzo'.» «Oh, Jamshid è soltanto invidioso» disse la Principessa Falena in tono noncurante. «La scimmia può fare quello che talvolta un uomo non può.» «Ma non molto bene. Aveva lo zab ancora più piccolo di quello di un arabo. In ogni modo, secondo me una donna decente dovrebbe preferire il dito di un eunuco allo zab di una scimmia.»
«Infatti alcune si regolano così. E inoltre ora sai perché la mia zambur è tanto richiesta. Vi sono molte donne, qui, che devono aspettare per lunghi e avidi periodi prima di essere chiamate dallo Scià. Ecco perché il Profeta (pace e benedizioni scendano su di Lui) volle prescrivere molto tempo fa il tabzir. Affinché le donne oneste non dovessero essere indotte dai desideri ad espedienti che non si addicono a una moglie.» «Io credo, qualora fossi lo Scià, che preferirei di gran lunga se le mie donne ricorressero alla zambur delle altre anziché a uno zab qualsiasi. Pensa un po', se quella giovane araba venisse messa incinta dalla scimmia! Che razza di mostro rivoltante partorirebbe?» L'idea spaventosa ne fece nascere una ancor più orribile nella mia mente. «Dio santo, e se la tua mostruosa sorella Shams rimanesse incinta a causa mia? Dovrei sposarla?» «Non ti allarmare, Marco. Ogni donna, qui, di qualsiasi nazione, conosce un suo antidoto specifico contro la gravidanza.» Spalancai gli occhi. «Sanno come impedire il concepimento?» «In modo più o meno sicuro, ma è pur sempre meglio che affidarsi al caso. Un'araba, ad esempio, prima di fare zina, conficca in se stessa un tampone di lana imbevuta di succo di salice piangente. Una persiana riveste la propria vagina con la delicata e bianca membrana che si trova sotto la scorza delle melagrane.» «E' un peccato abominevole» dissi, come era tenuto a dire un cristiano. «Quale espediente è più efficace?» «Senza dubbio quello persiano è preferibile, se non altro perché è più comodo per la coppia. Shams ricorre ad esso, e scommetto che tu non te ne sei mai accorto.» «No.» «Ma immagina di martellare, con il tuo tenero lubya, il duro tampone di lana entro un'araba! E, in ogni modo, io diffiderei dell'efficacia di questo metodo. Che cosa può sapere un'araba del modo di impedire il concepimento? A meno che non "vogliano" avere un figlio, gli arabi non fanno mai zina con le loro donne se non servendosi dell'orifizio posteriore, così come sono abituati a servirsi di altri uomini e di ragazzi, e viceversa.» Provai un grande sollievo venendo a sapere che la Principessa Shams non sarebbe stata feconda e non avrebbe moltiplicato la propria mostruosità grazie all'antifecondativo ricavato da una melagrana, anche se sarei stato giustificato inquietandomi, in quanto ero, di conseguenza, corresponsabile nel commettere uno dei più aborriti peccati mortali dei quali possa macchiarsi un cristiano. A un certo momento, nel corso dei miei viaggi, o una volta tornato a Venezia, avrei avuto a portata di mano qualche sacerdote cattolico e sarei stato obbligato a confessarmi. Naturalmente il prete mi avrebbe sovraccaricato di penitenze per la fornicazione con due donne nubili contemporaneamente, ma questo era soltanto un peccato veniale in confronto all'altro. Mi riusciva facile prevedere l'orrore di lui quando gli avessi confessato che, grazie alle perfide arti dell'Oriente, ero riuscito a copulare per il puro godimento dell'atto, senza alcuna cristiana intenzione o aspettativa che ne risultasse una progenie. Inutile dirlo, continuai peccaminosamente a godermi l'atto. E, se una piccola cosa mi impediva di giungere al godimento totale e completo, essa non consisteva affatto in un tormentoso senso di colpa, bensì nel naturale desiderio da parte mia che ogni consumazione dello zina avesse luogo entro la Principessa Falena, con la quale stavo facendo l'amore, e non entro la non amata, e non amabile, Principessa Shams. Tuttavia, quando Falena ignorò o respinse severamente ogni mia esitante allusione al riguardo, ebbi il buon senso di rinunciare a quei tentativi. Non volevo correre il rischio di perdere una situazione piacevole per l'avidità di una situazione ancor più piacevole e inconseguibile. Mi limitai, invece, a inventare una favola per mio uso e consumo, una favola che sarebbe potuta essere stata narrata dalla Shahryar Zahd. In essa facevo di Sole non già quello che era, la creatura più brutta della Persia, ma "la fanciulla più radiosamente bella" del paese. La rendevo talmente "splendida" che lo stesso Allah, nella sua saggezza, decretava: «E' impensabile che la divina bellezza e il sublime amore della Principessa Shams debbano essere riservati al godimento di un solo uomo.» Ed era "questa" la ragione per cui
Shams non aveva un marito e mai lo avrebbe avuto. Ubbidendo all'onnipotente Allah, ella era costretta a prodigare i propri favori ad ogni corteggiatore buono e meritevole; e per questo io venivo attualmente preferito da lei. Per qualche tempo, mi rifugiai in questa fantasticheria soltanto quando era necessario. Quasi sempre, nel corso dello zina di ogni notte, non mi occorreva nulla di più della bellezza reale e della vicinanza della Principessa Falena per alimentare e sostenere il mio ardore. Ma poi, quando i reciproci trastulli amorosi avevano fatto salire entro di me la pressione deliziosa fino al punto in cui non poteva più essere trattenuta, ed io ero costretto a darle sfogo, allora accoglievo nei miei pensieri l'inventata, surrogata, immaginaria, irrealmente sublime Principessa Sole, e facevo di lei il ricettacolo del prorompere del mio avido e insensato amore. Come ho detto, questo mi bastò per qualche tempo. Ma poi, a poco a poco, divenni preda di una sorta di blanda follia; cominciai a domandarmi se quella favola non potesse essere, in qualche modo, vicina "alla verità". Divenendo sempre più demente, presi a sospettare l'esistenza di un profondo segreto, e a ritenere inoltre che, grazie ai ragionamenti della mia sottile intelligenza, ero stato il primo e l'unico a scoprire tale segreto. In ultimo, la mia mente si alterò al punto che cominciai a permettermi nuove allusioni con la Principessa Falena: le feci capire che mi sarebbe realmente piaciuto vedere la sua non contemplabile sorella. Ogni qual volta alludevo a questo, Falena sembrava turbata e agitata, e lo divenne ancor più quando, audacemente, cominciai a menzionare il nome di sua sorella mentre ci trovavamo alla presenza dei genitori e della nonna di lei. «Ho avuto l'onore di conoscere quasi tutti gli appartenenti alla vostra regale famiglia, Maestà» dicevo allo Scià Zaman o alla Shahryar Zahd, soggiungendo poi, in tono disinvolto: «Tranne, credo, la stimata Principessa Shams.» «Shams?» mormoravano guardinghi lui o lei, e volgevano altrove lo sguardo in un certo qual modo sfuggente, e Falena cominciava a parlare garrula per distrarci tutti mentre, quasi alla lettera, con brusche gomitate mi spingeva fuori della stanza nella quale ci trovavamo. Dio solo sa dove avrebbe potuto farmi finire, in ultimo, questo comportamento (forse rinchiuso nella Casa dell'Illusione) ma poi mio padre e lo zio tornarono a Bagdad, e giunse per me il momento di dire addio a tutte e tre le partecipanti allo zina: Falena e Shams e l'altra Shams, quella della mia immaginazione.
6. Mio padre e zio Maffeo tornarono insieme, in quanto si erano incontrati in qualche punto sulle strade al nord, venendo dal Golfo. Non appena posti gli occhi su di me, ancor prima che ci fossimo scambiati un saluto, lo zio tuonò giovialmente: «Ecco Marco! Miracolosamente ancora vivo, ancora verticale e ancora libero! Sicché non ti sei cacciato in alcun guaio, scagaròn?» Risposi: «Non ancora, credo» e andai subito ad accertarmi che così non fosse. Cercai la Principessa Falena alla quale dissi che la nostra relazione era giunta al termine. «Non posso più restar fuori la notte senza destare sospetti.» «E' un vero guaio» disse lei, facendo il broncio. «Mia sorella non si è affatto stancata del nostro zina.» «Nemmeno io, Shahzrad Magas Mirza. Ma, a dire il vero, ne sono stato molto fiaccato. E adesso devo ricuperare le forze per affrontare il resto del nostro viaggio.» «Sì, hai davvero un aspetto alquanto teso e smunto. Benissimo, ti consento di desistere. Ci diremo addio ufficialmente prima della tua partenza.» Così mio padre, zio Maffeo ed io parlammo con lo Scià e gli dicemmo che avevamo scartato l'idea di proseguire per mare allo scopo di rendere più breve il nostro viaggio verso l'Oriente. «Vi ringraziamo sinceramente, Shah Zaman, per il suggerimento» disse mio padre. «Ma v'è un antico proverbio veneziano. Loda el mar e tiente a tera.»
«Che significa?» domandò affabilmente lo Scià. «Loda il mare e tienti alla terra. Tradotto in termini più generici, vuoi dire: loda ciò che è formidabile e pericoloso, ma avvinghiati a ciò che è piccolo e sicuro. Il fatto è che Maffeo ed io abbiamo navigato a lungo su mari tempestosi, mai però a bordo di navi come quelle dei trafficanti arabi. Nessun itinerario per via di terra potrebbe essere meno sicuro o più pericoloso.» «Gli Arabi» disse zio Maffeo «costruiscono le loro navi oceaniche esattamente nello stesso modo trasandato e negligente con il quale costruiscono le sgangherate imbarcazioni fluviali che Vostra Maestà può vedere qui a Bagdad. Tenute insieme esclusivamente da cordami e colla di pesce, senza un solo pezzo di metallo. E sul ponte cavalli e capre che lasciano cadere la loro merda nelle sottostanti cabine dei passeggeri. Forse gli Arabi sono abbastanza ignoranti per avventurarsi in mare con squallide e sgangherate imbarcazioni a fondo piatto come queste, ma noi non lo siamo.» «Siete forse assennati, evitandole» disse la Shahryar Zahd, entrando nella sala in quel momento, sebbene si trattasse di una riunione tra soli uomini. «Vi narrerò un racconto...» Ne narrò parecchi, e concernevano tutti un certo Sindbad il Marinaio, che era passato per tutta una serie di improbabili avventure: con un gigantesco uccello rukh, e con un Vecchio Sceicco del Mare, e con un pesce grande quanto un'isola, e non rammento più con che altro ancora. Ma l'intera e lunga narrazione di lei stava a dimostrare che ogni avventura di Sindbad il Marinaio era stata la conseguenza dell'essersi egli ripetutamente imbarcato su navi arabe, ognuna delle quali aveva fatto naufragio, per cui i superstiti erano finiti su qualche costa non indicata dalle carte. «Grazie, mia cara» disse lo Scià, quando ella ebbe terminato il sesto o il settimo dei racconti di Sindbad. Poi, prima che potesse cominciarne un altro, si rivolse a mio padre e allo zio: «Il vostro viaggio fino al Golfo è stato allora del tutto inutile?» «Oh, no» rispose mio padre. «V'erano molte cose interessanti da vedere, da imparare e da procurarsi. Ad esempio, ho acquistato a Neyriz questa bella e affilata sciabola shimshir, e colui dal quale è stata forgiata mi spiegò che è fatta con l'acciaio delle vicine miniere di ferro di Vostra Maestà. Le parole di lui mi lasciarono allibito. Gli dissi: 'Senza dubbio vorrai riferirti alle miniere di acciaio.' 'No' rispose 'ricaviamo il ferro dalle miniere, lo mettiamo in una specie di ingegnosa fornace, e il ferro diventa acciaio.' E io osservai: 'Cosa? Vorresti farmi credere che, mettendo un somaro nella fornace, ne esce un cavallo?' E l'artigiano dovette farmi lunghe spiegazioni per convincermi. Sono solennemente sincero, Maestà: io e suppongo tutti in Europa abbiamo sempre creduto che l'acciaio fosse un metallo completamente diverso dal ferro, più resistente, di gran lunga superiore ad esso.» «No» disse lo Scià, sorridendo. «L'acciaio è soltanto ferro molto raffinato mediante un processo che forse nella vostra Europa non è stato ancora scoperto.» «Per conseguenza ho accresciuto le mie nozioni, là a Neyriz» disse il babbo. «Inoltre il viaggio mi ha fatto passare per Shiraz, naturalmente, e per i suoi vasti vigneti, e ho assaggiato tutti i famosi vini nelle stesse cantine ove vengono prodotti. Ho gustato inoltre...» Il babbo si interruppe e sbirciò la Shahryar Zahd. «A Shiraz, inoltre, vi sono femmine più belle, e più numerose, che in qualsiasi altra città da me visitata.» «Sì» disse la consorte dello Scià. «Io stessa sono nata là. Lo dice un proverbio persiano che chi cerca una bella donna deve cercarla a Shiraz; mentre invece, se cercate un bel ragazzo, dovete cercarlo a Kashan. Passerete per Kashan recandovi all'est.» «Ah» fece lo zio Maffeo. «E, dal canto mio, ho trovato una cosa nuova a Bassora. L'olio chiamato naft, che non proviene dalle olive o dalle noci o dal pesce o dal grasso, ma filtra attraverso il terreno stesso. Brucia con una fiamma più vivida degli altri oli, e più a lungo, e senza emanare alcun odore soffocante. Ne ho riempito numerose fiasche, per illuminare le notti durante il nostro viaggio, e forse anche per stupire altri come me, i quali non abbiano mai veduto una simile sostanza.» «A proposito del viaggio» disse lo Scià. «Ora che avete deciso di proseguire per via di terra, rammentate il mio avvertimento riguardo al Dasht-e-Kavir, il Grande Deserto di Sale, a est. Questa stagione, il tardo autunno, è il periodo migliore dell'anno per attraversarlo, ma in verità non esiste
alcun periodo buono. Vi ho suggerito i cammelli, per la vostra karwan, e ve ne consiglio cinque. Uno per ognuno di voi e le vostre ceste personali, uno per il cammelliere, e uno per il carico. Il wazir Jamshid verrà con voi domani al bazar per aiutarvi a scegliere le bestie e le pagherà, ed io accetterò i vostri cavalli in cambio del pagamento.» «Questo è davvero gentile da parte di Vostra Maestà» disse mio padre. «Ma c'è una cosa che forse non sapete ancora... non abbiamo il cammelliere.» «A meno che non siate molto abili nell'accudire quelle bestie, ne avrete bisogno. Probabilmente potrò aiutarvi anche in questo. Ma anzitutto acquistate i cammelli.» E così, il giorno dopo, noi tre tornammo di nuovo al bazar in compagnia di Jamshid. Il mercato dei cammelli era un isolato e vasto recinto quadrato, delimitato da un muretto di pietre. I cammelli posti in vendita si trovavano tutti in piedi e allineati con le zampe anteriori appoggiate a quel muretto, per far sì che sembrassero più alti e più imponenti. Il mercato stesso era di gran lunga più rumoroso di ogni altra parte del bazar, poiché alle consuete urla e ai litigi tra acquirenti e venditori si aggiungevano gli irosi bramiti e i luttuosi grugniti dei cammelli, mentre i loro musi venivano ripetutamente afferrati e contorti per costringerli a dimostrare quanto fossero agili nell'inginocchiarsi e nel rialzarsi. Jamshid procedette a questa prova e a molte altre, da vero esperto. Egli pizzicò le gobbe dei cammelli, ne tastò le gambe in alto e in basso e guardò entro le loro narici. Dopo avere esaminato quasi ogni bestia adulta in vendita quel giorno, ne fece mettere da parte cinque, un maschio e quattro femmine. A mio padre disse: «Vedete se siete d'accordo con la mia scelta, Mirza Polo. Rileverete che hanno tutti i piedi anteriori molto più larghi di quelli posteriori, ed è questo un indizio sicuro di grande resistenza. Inoltre, sono tutti esenti dai vermi nel naso. Fate sempre attenzione che non siano così infestati, e se per caso vedete vermi, spargete abbondantemente pepe nelle narici.» Mio padre e mio zio, poiché non si intendevano affatto di cammelli, approvarono senz'altro le scelte del wazir. Il mercante incaricò un suo aiuto di portare i cammelli, legati uno dietro l'altro, nelle stalle del palazzo, e noi lo seguimmo con nostro comodo. Nel palazzo, lo Scià Zaman e la Shahryar Zahd ci stavano aspettando in una stanza ove erano ammonticchiati i numerosi doni che essi volevano portassimo a nome loro al Khakhan Qubilai. V'erano qali della migliore qualità, strettamente arrotolati, cofanetti di gioielli, vassoi e anfore d'oro squisitamente lavorato, shimshir di acciaio di Neyriz dalle impugnature tempestate di gemme, e, per le donne del Khakhan, specchi levigati, anch'essi di acciaio di Neyriz, e cosmetici fatti di al-kohl e henné, fiaschette di cuoio contenenti vino Shiraz, margotte accuratamente avvolte delle rose più pregiate esistenti nei giardini del palazzo, e inoltre margotte delle piante banj che non fanno semi e dei papaveri dai quali si ricava il teryak. Il più impressionante di tutti quei doni era una tavola sulla quale qualche artista della corte aveva dipinto il ritratto di un uomo, un uomo torvo, dalle sembianze di un asceta, ma cieco, in quanto i globi oculari di lui erano completamente bianchi. Si trattava dell'unica rappresentazione pittorica di un essere animato che avessi mai veduta in un paese musulmano. Lo Scià disse: «Sono le sembianze del Profeta Maometto (pace e benedizioni scendano su di Lui). Nei regni del Khakhan risiedono molti Musulmani, e molti di loro non hanno idea dell'aspetto che aveva in vita il Profeta (benedizioni e pace scendano su di Lui). Porterete questo ritratto per mostrarlo a tutti.» «Scusatemi» disse zio Maffeo, con una certa esitazione. «Credevo che le immagini simili alla vita fossero proibite dall'Islam. E un'immagine dello stesso Profeta...?» La Shahryar Zahd spiegò: «Non è simile alla vita fino a quando non siano stati dipinti gli occhi. Assumerete un artista affinché faccia questo prima di offrire l'immagine al Khan. Basteranno due macchioline marrone sui globi oculari.» Lo Scià soggiunse: «E l'immagine stessa è dipinta con colori magici che tra pochi mesi cominceranno a sbiadire, per scomparire, in ultimo, del tutto. Per conseguenza questa non potrà diventare un'immagine di culto, come quelle che voi cristiani adorate, e che qui sono proibite in quanto inutili per la nostra religione così tanto civilizzata.»
«Il ritratto» disse mio padre «sarà un dono unico tra tutti quelli, innumerevoli, che il Khan riceve continuamente. Le Vostre Maestà sono state più che generose con il tributo.» «Mi sarebbe piaciuto mandargli inoltre alcune fanciulle vergini di Shiraz» cogitò a voce alta lo Scià. «Ma ci ho già provato altre volte e, in qualche modo, non arrivano mai alla sua corte. Le vergini devono essere difficili da trasportare.» «Spero solo che possiamo trasportare tutti "questi" doni» disse zio Maffeo, facendo un gesto circolare. «Oh, sì, senza alcuna difficoltà» intervenne il wazir Jamshid. «Ognuno dei vostri nuovi cammelli può reggere facilmente tutto questo carico, e trasportarlo percorrendo otto farsakh al giorno, nonché per tre giorni tra un'abbeverata e l'altra, se necessario. Presumendo, naturalmente, che disponiate di un abile cammelliere.» «Che avete già» disse lo Scià. «E' un altro mio dono, e questo per voi, signori.» Fece cenno alla guardia sulla porta e l'uomo uscì. «Uno schiavo che è divenuto mio di recente, acquistato da uno degli eunuchi di corte.» Mio padre mormorò: «La generosità di Vostra Maestà continua ad abbondare, e a stupire.» «Oh, be'» disse lo Scià, modestamente. «Che cos'è mai uno schiavo, tra amici? Sia pure uno schiavo che mi è costato ben cinquecento dinar?» La guardia tornò con lo schiavo in questione, che immediatamente si prosternò fino al pavimento con un salam, e gridò, stridulo: «Allah sia lodato! Ci incontriamo di nuovo, buoni padroni!» Zio Maffeo esclamò: «Costui è il rettile che ci siamo guardati bene dall'acquistare!» «L'essere abietto chiamato Narice!» esclamò il wazir. «Davvero, mio Signore Scià, come avete potuto acquistare questa escrescenza?» «Credo che l'eunuco si sia innamorato di lui» disse lo Scià, stizzosamente. «Ma non me ne sono innamorato io. Pertanto ora è vostro, signori.» «Be'...» dissero mio padre e zio Maffeo, a disagio, non volendo arrecare offesa. «Non ho mai conosciuto uno schiavo più ribelle e più odioso» continuò lo Scià, rinunciando ad ogni pretesa di lodare il suo dono. «Bestemmia e mi insulta in una mezza dozzina di lingue che non capisco, a parte il fatto che la parola porco è presente in tutte.» «E' stato insolente anche con me» disse la Shahryar. «Pensate, uno schiavo che osa criticare la soavità della voce della sua padrona.» «Il Profeta (sul quale scendano la pace e ogni benedizione)» disse la creatura chiamata Narice, quasi stesse ruminando in modo udibile tra sé e sé, «il Profeta definì maledetta la casa ove la voce di una donna può essere udita fuori delle porte.» La Shahryar gli scoccò un'occhiata velenosa e lo Scià disse: «Avete udito? Bene, l'eunuco che lo ha acquistato senza il mio ordine è stato squartato da quattro cavalli selvaggi. L'eunuco poteva essere sacrificato, in quanto era nato sotto questo tetto da una delle mie schiave, e non mi costava nulla. Ma questo shaqàl figlio di puttana mi è costato cinquecento dinar e deve essere tolto di mezzo in un modo più utile. Voi gentiluomini avete bisogno di un cammelliere, e cammelliere lui asserisce di essere.» «In verità!» gridò lo shaqàl figlio di puttana. «Buoni padroni, sono cresciuto tra i cammelli, e li amo come se fossero le mie sorelle...» «Questo» disse zio Maffeo «lo credo.» «Rispondi a questa domanda, schiavo!» gli latrò contro Jamshid. «Un cammello si inginocchia per essere caricato. Grugnisce e si lamenta formidabilmente ad ogni nuovo peso del carico. Come sai quando non deve essere caricato oltre?» «E' facile, wazir Mirza. Quando smette di grugnire, significa che lo avete caricato con l'ultima pagliuzza sopportabile.» Jamshid fece una spallucciata. «Conosce i cammelli.» «Be'...» mormorarono mio padre e mio zio. Lo Scià disse, in tono reciso: «O lo prendete con voi, signori, o dovrete assistere mentre finirà nel calderone.»
«Nel calderone?» domandò mio padre, non sapendo di che cosa si trattava. «Prendiamolo con noi, padre mio» dissi, intervenendo per la prima volta. Non lo dissi con entusiasmo, ma non avrei potuto assistere a una nuova esecuzione nell'olio bollente, nemmeno trattandosi di un così disgustoso parassita. «Allah vi ricompenserà, giovane Padrone Mirza!» gridò il parassita. «Oh, ornamento su perfezione, voi siete compassionevole come il darwish Bayazid dei tempi antichi, che, mentre viaggiava, trovò una formica impigliata tra la sporcizia nel suo ombelico e tornò indietro per centinaia di farsakh, fino al punto di partenza, per riportarla nel suo formicaio e...» «Taci!» sbraitò zio Maffeo. «Ti prenderemo con noi perché vogliamo liberare il nostro amico lo Scià Zaman dalla tua fetida presenza. Ma ti avverto, putridume, che avrai ben poca compassione da parte nostra.» «Sono soddisfatto!» gridò il putridume. «Le parole di vituperio e le percosse di un uomo savio devono essere apprezzate più delle lusinghe e dei fiori di un ignorante. E per giunta...» «Gesù» disse stancamente zio Maffeo. «Sarai percosso non sulle natiche, ma su quella tua linguaccia sempre in moto. Maestà, noi partiremo domattina all'alba e vi toglieremo al più presto dai piedi questo fetente.» La mattina dopo, di buon'ora, Karim e i nostri altri due servi ci aiutarono a indossare buone e resistenti tenute da viaggio nello stile persiano, prepararono i bagagli con i nostri oggetti personali e ci portarono una grande cesta colma di buoni cibi e vini e altre leccornie, il tutto preparato dai cuochi del palazzo affinché le vivande ci nutrissero bene per buona parte del viaggio. Poi tutti e tre i servi si abbandonarono a un'esibizione di sconfinata sofferenza, come se noi fossimo stati per tutta la vita i loro diletti padroni e ora li stessimo abbandonando per sempre. Si prostrarono nei salam, si strapparono le sciarpe avvolte a turbante intorno al capo, quindi batterono la nuda testa sul pavimento e non desistettero finché mio padre non ebbe distribuito loro i bakhshish, dopodiché si congedarono da noi con ampi sorrisi e con raccomandazioni rivolte ad Allah affinché ci proteggesse. Nelle stalle del palazzo constatammo che Narice, senza averne avuto l'ordine, senza percosse e senza sorveglianza, aveva sellato i cammelli per noi e per lui e caricato l'altro. Aveva persino avvolto e disposto con somma cura tutti i doni inviati dallo Scià, in modo che non dovessero cadere o cozzare gli uni contro gli altri o essere imbrattati dalla polvere lungo il cammino, e, a quanto potemmo accertare, non si era permesso di rubarne uno solo. Invece di complimentarlo, mio zio disse, severamente: «Briccone, pensi di accontentarci adesso, inducendoci alla clemenza, affinché siamo tolleranti con te quando tornerai alla tua innata pigrizia. Ma ti avverto, Narice, continueremo a "pretendere" questa efficienza, e...» Lo schiavo lo interruppe, ma ossequiosamente: «Un buon padrone fa un buon servo e ottiene da lui servigi e ubbidienza pari al rispetto e alla fiducia accordatigli.» «A detta di tutti» osservò mio padre «tu non hai servito molto bene i tuoi recenti padroni... lo Scià, il mercante di schiavi...» «Ah, buon padrone Mirza Polo, per troppo tempo sono stato rinchiuso in città o in case e questo deprime il mio spirito. Io sono stato creato da Allah per essere un vagabondo. Non appena seppi che voi gentiluomini eravate viaggiatori, feci tutto il possibile per essere scacciato dal palazzo e per entrare a far parte del vostro karwan.» «Hmmm» fecero mio padre e mio zio, scettici. «Regolandomi in questo modo sapevo di correre il pericolo di una liberazione ancor più immediata... come un'immersione nell'olio bollente. Ma questo giovane Mirza Marco mi ha salvato da tale sorte, e non se ne pentirà mai. Con voi, padroni più anziani, io sarò il servo ubbidiente, ma per lui sarò il devoto mentore. Mi frapporrò tra Mirza Marco e il male, come egli ha fatto con me, e diligentemente gli insegnerò la saggezza necessaria a chi viaggia.» Così, questo era il secondo degli inconsueti maestri che trovavo a Bagdad. Avrei desiderato con tutto il cuore che egli fosse stato avvenente, e socievole, e desiderabile come la Principessa Falena. Non mi sembrava troppo piacevole la prospettiva di essere il pupillo di quel sudicio schiavo, il
quale avrebbe anche potuto contagiarmi con alcuni dei suoi schifosi vizi. Tuttavia non volli ferirlo dicendo ad alta voce quel che pensavo di lui e mi limitai a fare una smorfia di tollerante rassegnazione. «Badate, non sostengo di essere un brav'uomo» disse Narice, come se avesse udito i miei pensieri. «Sono un uomo di mondo, e non tutti i miei gusti e le mie abitudini riescono accettabili alle persone raffinate. Senza dubbio vi accadrà spesso di dovermi rimproverare o percuotere. Sono però, senz'altro, un esperto viaggiatore. E ora che mi troverò di nuovo in viaggio, voi avrete modo di apprezzare la mia utilità. Vedrete!» Così, noi tre andammo a congedarci definitivamente e ufficialmente dallo Scià, dalla Shahryar, dalla vecchia madre di lei e dalla Shahzrad Magas. Si erano alzati tutti di buon'ora per salutarci e ci dissero addio con commozione, come se fossimo stati veri ospiti anziché semplici latori del ferman del Khakhan, cui era giocoforza offrire ospitalità. «Ecco i documenti che attestano la proprietà di quello schiavo» disse lo Scià Zaman, consegnandoli a mio padre. «Da qui al lontano Oriente attraverserete molti confini e le guardie potranno voler accertare l'identità di tutti i componenti della carovana. Arrivederci, ora, buoni amici, e possiate sempre camminare all'ombra di Allah.» La Principessa Falena disse a tutti noi, ma con un sorriso particolare rivolto a me: «Possiate non imbattervi mai in un afrit o in un maligno jinn durante il viaggio, ma soltanto nella soave e perfetta peri.» La nonna si limitò a un silenzioso cenno di saluto, ma la Shahryar Zahd pronunciò una formula di commiato lunga quasi quanto una delle sue fiabe, concludendo stucchevolmente: «La vostra partenza lascia noi tutti, qui, orbati.» Dopodiché trovai l'audacia di dirle: «V'è una persona, qui nel palazzo, alla quale vorrei che venissero comunicati i miei personali omaggi.» Confesso, continuavo ad essere lievemente influenzato dalla storia che avevo inventato io stesso per quanto concerneva la Principessa Luce del Sole, e dall'illusione di avere scoperto un qualche suo segreto a lungo custodito. In ogni modo, fosse ella o meno di una bellezza sublime come l'avevo creata nella mia immaginazione, la Principessa "era stata" la mia instancabile amante e la cortesia mi imponeva di rivolgerle un saluto particolare. «Vi spiacerebbe, Maestà, riferirle che la saluto con tenerezza? Non credo che la Principessa Shams sia vostra figlia, ma...» «Oh bella» disse la Shahryar, ridacchiando. «Mia figlia, figuriamoci. Voi scherzate, giovane Mirza Marco, per lasciarci tutti ridenti e di buon umore. Dovete sapere, ne sono certa, che la Shahrpiryar è la sola Principessa persiana a nome Shams.» Dissi, confuso: «E' la prima volta che odo menzionare questo titolo.» Ero interdetto, avendo notato che la Principessa Falena si era rifugiata in un angolo della sala per nascondere il viso dietro gli arazzi qali; soltanto i verdi occhi di lei erano visibili e sfavillavano maliziosi mentre ella si sforzava di reprimere l'ilarità che la stava facendo quasi piegare in due. «Il titolo Shahrpiryar» disse sua madre «significa Principessa Madre Shams, la Venerabile matriarca Regale.» Indicò con un gesto. «Mia madre, qui.» Ammutolito dallo stupore, dall'orrore e dalla ripugnanza, fissai la Shahrpiryar Shams, la rugosa, calva, maculata, avvizzita, muffita, decrepita, indicibilmente vecchia nonna. Ella reagì allo sguardo dei miei occhi sbarrati con un sorriso lascivo e gongolante che le scoprì le gengive rinsecchite e grigie. Poi, quasi per accertarsi che non mancassi di rendermi conto della verità, fece scorrere adagio la punta della lingua muschiosa sul granuloso labbro superiore. Dovetti barcollare, credo, ma, in qualche modo, riuscii a seguire mio padre e mio zio fuori della sala senza cadere privo di sensi o senza vomitare sul pavimento di alabastro. Soltanto vagamente udii gli allegri, ridenti e beffardi addii che Falena mi gridava, poiché nella mia mente stavo udendo altri suoni beffardi (la fatua domanda che avevo posta: «Tua sorella è molto più giovane di te?» e il decreto di Allah, da me immaginato, a proposito della «divina bellezza della Principessa Shams», e la divinazione del fardarbab nella sabbia: «Guardati dalla sete di sangue della bellezza...»).
Bene, quell'ultimo incontro con la bellezza non mi era costato sangue, e credo che nessuno sia mai morto a causa del disgusto o dell'umiliazione. Semmai, l'esperienza valse a far sì, per lungo tempo, in seguito, che il mio sangue fosse tumultuoso e rosso e vigoroso, poiché ogni qual volta ricordavo le notti trascorse nell'anderun del palazzo di Bagdad, esso mi affluiva al viso imporporandolo di un rossore come di fiamme.
7. Il wazir, a cavallo, accompagnò la nostra piccola carovana di cammelli per l'isteqbal (la metà di una giornata di viaggio) come tradizionalmente fanno i Persiani per scortare, a titolo di cortesia, gli ospiti in partenza. Nel corso di quella mattinata, Jamshid commentò varie volte con premurosa sollecitudine i miei occhi vitrei e il pallore della mia faccia. Anche il babbo, lo zio e lo schiavo Narice mi domandarono ripetutamente se soffrissi a causa dell'andatura dondolante del cammello. Ogni volta risposi evasivamente; non potevo confessare di sentirmi semplicemente stordito dalla consapevolezza di essermi beatamente accoppiato, per tre settimane, con una sbavante vecchia megera che aveva una sessantina d'anni più di me. Tuttavia, essendo io giovane, possedevo altresì una grande capacità di ricupero. Dopo qualche tempo, mi persuasi che in realtà non era accaduto niente di grave, se non forse per la mia stima in me stesso, e che, con ogni probabilità, nessuna delle due Principesse avrebbe spifferato la verità, facendo di me lo zimbello di tutti. Quando Jamshid ci rivolse l'ultimo «salam aleikum», e voltò il cavallo nella direzione di Bagdad, io ero di nuovo in grado di guardarmi attorno e di vedere i luoghi che stavamo attraversando. Ci trovavamo allora, e vi saremmo rimasti ancora per qualche tempo, in una regione di piacevoli e verdeggianti vallate che si insinuavano tortuose tra freddi e azzurri monti. Questo era un bene, poiché ci consentiva di abituarci ai cammelli prima di giungere nel tratto più difficoltoso sul deserto. Dirò qui che cavalcare un cammello non è più difficile che cavalcare un cavallo, una volta fatta l'abitudine all'altezza notevolmente maggiore alla quale si è appollaiati. Il cammello cammina con un'andatura affettata ed ha sul muso una smorfia sprezzante, esattamente come certi uomini che so io. E' facile anche per un novellino adattarsi a tale andatura, ed è più comodo cavalcare con entrambe le gambe dallo stesso lato, come sta in sella una donna quando va a cavallo, una gamba tenuta in avanti intorno all'arco della sella. Il cammello viene guidato non con le redini, ma mediante una cordicella legata a un piuolo di legno permanentemente confitto nel muso dell'animale. La smorfia del cammello gli dà un'aria di altezzosa intelligenza, ma trattasi di un'impressione assolutamente falsa. Bisogna essere costantemente consapevoli del fatto che i cammelli sono tra le più stupide delle bestie. A un cavallo intelligente può saltare il ticchio di imbizzarrirsi, per irritare o per far cadere di sella il suo cavaliere. Un cammello, invece, non sarebbe mai capace di un'idea simile; però esso non possiede nemmeno il buon senso che ha il cavallo di guardare dove va e di evitare gli ostacoli evitabili. Per conseguenza, chi cavalca un cammello deve stare sempre all'erta e guidarlo anche intorno alle rocce e alle buche più visibili, per evitare che cada e si fratturi una gamba. Com'era accaduto da Acri in poi, continuavamo a viaggiare in una regione nuova per mio padre e mio zio quanto lo era per me, poiché, sebbene essi avessero già attraversato l'Asia, erano passati sia andando verso Oriente, sia tornando indietro, lungo un itinerario situato molto più a nord. Per conseguenza, quali che potessero essere le loro apprensioni, si affidarono, per l'orientamento, allo schiavo Narice, il quale asseriva di essere passato già molte altre volte da questa parte nella sua esistenza di vagabondaggi. E doveva essere vero, poiché ci guidò fiduciosamente, senza mai fermarsi ai frequenti bivi della pista, ma sempre con l'aria di sapere quale delle due possibili direzioni seguire. Proprio al tramonto di quel primo giorno, ci condusse in un karwansarai che offriva comode sistemazioni. E noi, per premiarlo di quel buon comportamento, non lo facemmo
alloggiare nella stalla insieme ai cammelli, ma pagammo affinché mangiasse e dormisse nell'edificio principale. Mentre sedevamo intorno alla tovaglia della cena, quella sera, mio padre esaminò i documenti consegnatigli dallo Scià, e osservò: «Ci dicesti, rammento, Narice, che hai avuto anche altri nomi. E da questi documenti risulta che hai servito ognuno dei tuoi padroni precedenti con un nome diverso. Sindbad, Ali Babar, Ali-ad-Din. Sono tutti nomi dal suono più gradevole di Narice. Con quale di essi preferisci che ti chiamiamo?» «Con nessuno di essi, se non vi dispiace, Padron Niccolò. Appartengono tutti a fasi trascorse e dimenticate della mia vita. Sindbad, ad esempio, si riferisce soltanto alla terra del Sind, ove nacqui. Già da un pezzo mi sono lasciato indietro questo nome.» Osservai: «La Shahryar Zahd ci ha narrato alcune fiabe sulle avventure di un altro viaggiatore abituale che si faceva chiamare Sindbad il Marinaio. Può mai darsi che fossi tu?» «Qualcuno che mi somigliava molto, forse, poiché quell'uomo era manifestamente un bugiardo.» Narice ridacchiò della propria autocritica. «Voi gentiluomini vi trovate lontani dalla Repubblica marinara di Venezia, e pertanto dovete sapere che nessun navigatore definisce mai se stesso un marinaio. Dice invariabilmente di essere un uomo di mare o un navigatore, poiché marinaio è il termine adoperato dalla gente ignorante della terraferma. Se quel Sindbad non sapeva nemmeno definire nel giusto modo se stesso, allora non si può non sospettare dei suoi racconti.» Mio padre insistette: «Devo segnare su questi documenti un qualche tuo nome finché apparterrai a noi...» «Scrivete Narice, buon padrone» disse lui, allegramente. «E' il nome che ho sempre portato dopo il contrattempo che me lo procurò. Voi potrete non crederlo, ma ero un uomo insuperabilmente bello prima che la mutilazione del naso guastasse il mio aspetto.» Continuò a descrivere a lungo quanto era stato bello quando possedeva ancora due narici, e quanto lo avessero ricercato le donne, innamorate della sua avvenenza virile. In gioventù, quando si chiamava Sindbad, disse, aveva affascinato a tal punto una adorabile fanciulla da indurla a mettere a repentaglio la vita pur di trarlo in salvo da un'isola popolata da uomini alati e perfidi. In seguito, quando portava il nome di Ali Babar, era stato catturato da una banda di ladri e conficcato entro una giara colma di olio di sesamo, e la testa gli sarebbe stata staccata dal collo, divenuto molle e floscio, se un'altra adorabile fanciulla, sedotta dai suoi fascini, non lo avesse tratto in salvo dalla giara e dai ladri. Quando poi portava il nome di Ali-ad-Din, il suo splendido aspetto aveva dato il coraggio a un'altra affascinante fanciulla di strapparlo alle grinfie di un afrit comandato da un perfido stregone... Bene, i racconti erano poco plausibili quanto tutti quelli narratici della Shahryar Zahd, ma non più implausibili dell'asserzione di lui di essere stato un tempo un bell'uomo. Nessuno sarebbe riuscito a crederlo. Anche il possedere le normali due narici, o tre, o nessuna, non avrebbe potuto evitare che somigliasse a un cammello-uccello shutumurq, dal grosso becco, senza mento e panciuto, una somiglianza resa ancora più comica dalla stoppia della barba sotto il mento. Egli continuò in modo sempre più incredibile e abbellì le sue asserzioni di un fisico fascinoso asserendo di aver compiuto imprese che richiedevano ingegnosità, coraggio e forza d'animo. Lo ascoltammo educatamente, ma sapevamo che le sue rodomontate erano, come ebbe ad esprimersi in seguito mio padre: «Tutto vino e niente uva». Alcuni giorni dopo, zio Maffeo, controllando il cammino da noi percorso verso est sulle carte del Kitab di Al-Idrisi, annunciò che eravamo giunti in una località storica. Stando ai suoi calcoli, ci trovavamo molto vicini al punto, descritto nel "Libro di Alessandro", ove, durante la marcia del conquistatore nella Persia, la regina delle amazzoni Thalestris era venuta con lo stuolo delle sue donne guerriere a salutarlo e a rendergli omaggio. Non potemmo fare altro che credere a zio Maffeo sulla parola, poiché lì attorno non esisteva alcun monumento che commemorasse l'incontro.
Negli anni successivi mi è stato domandato molte volte se, durante i miei viaggi, avessi mai trovato la nazione dell'Amazzonia, o, come la chiamano taluni, la Terra di Femynye. No, lì in Persia non la trovai. In seguito, nei domini mongoli, conobbi molte donne guerriere, ma erano tutte sottomesse ai loro uomini. E, molto tempo dopo, venni a trovarmi in una comunità formata esclusivamente da donne, che però erano dolci e per nulla bellicose e lodevolmente femminee. Ma di questo dirò al momento opportuno. Mi è stato domandato frequentemente, inoltre, se laggiù, in quei paesi remoti, abbia mai incontrato il Prete Zuàne, denominato in altre lingue Presbyter Johannes e Prester John, quell'uomo reverendo e formidabile, così avvolto nel mito e nella fiaba, nella leggenda e nell'enigma. Per più di cent'anni, il mondo occidentale ha udito dicerie e notizie che lo concernono: egli è un diretto discendente dei regali Magi che per primi adorarono il Cristo bambino, e, per conseguenza, è a sua volta regale e devotamente cristiano, nonché inoltre ricco e potente e savio. Come monarca di un regno cristiano che si ritiene sia immenso, è sempre stato un personaggio tale da sedurre l'immaginazione dell'Occidente. Tenuto conto delle nostre regioni così suddivise, con numerose piccole nazioni, governate da re e duchi e via dicendo, relativamente modesti, sempre in guerra gli uni contro gli altri, e di una cristianità che continuamente genera nuove sette scismatiche e antagonistiche... non possiamo non guardare con malinconica ammirazione una vasta congerie di popoli tutti pacificamente uniti sotto un solo governante e un supremo pontefice, entrambe le cariche essendo personificate da un singolo e maestoso uomo. Inoltre, quando l'Occidente è stato assediato da selvaggi pagani sciamanti dall'Oriente (Unni, Tartari, Mongoli, e i Saraceni Musulmani) noi abbiamo sperato fervidamente che il Prete Zuàne giungesse dal suo ancor più lontano Oriente e attaccasse "alle spalle" gli invasori con le sue legioni di guerrieri cristiani, affinché quei pagani potessero essere presi e stritolati nella morsa tra i suoi eserciti e i nostri. Ma il Prete Zuàne non si è mai avventurato fuori del suo misterioso paese fortificato, né per aiutare l'Occidente cristiano nei più volte ripetutisi momenti del bisogno, né per dimostrare che realmente esisteva. Esiste, dunque, e, in tal caso, chi è? Governa davvero un remoto impero cristiano e, in tal caso, dove si trova questo impero? Ho già supposto, nella cronaca dei miei viaggi pubblicata prima di questa, che il Prete Zuàne, o Prete Gianni, esista, "in un certo senso", e in tale senso potrebbe esistere tuttora, ma non è, e non fu mai, un monarca cristiano. Nei tempi lontani in cui i Mongoli erano soltanto tribù isolate e disorganizzate, essi denominavano Khan ogni capo tribale. Quando le tante tribù si unirono sotto il paventato Gengis, questi divenne l'unico monarca dell'Oriente che dominasse un impero simile a quello attribuito dalle dicerie a Prete Zuàne. Dopo Gengis, quel Khanato mongolo venne governato, in parte o completamente, da numerosi suoi discendenti, prima che il nipote di lui Qubilai divenisse Khakhan e ampliasse ulteriormente e più saldamente consolidasse l'impero. Tutti quei governanti mongoli susseguitisi nel corso degli anni ebbero nomi diversi, ma a tutti spettò il titolo di Khan o Khakhan. Ebbene, io vi invito a notare quanto facilmente le parole, pronunciate o scritte, Khan o Khakhan potrebbero essere male interpretate o male udite come Zuàne, o Giovanni, o Johannes. Supponiamo che un cristiano di molto tempo fa, in Oriente, le avesse così fraintese. Logicamente, egli avrebbe ricordato il Santo Apostolo che portava tale nome. Non ci si potrebbe pertanto stupire se si fosse persuaso di aver udito menzionare un prete o un vescovo avente il nome di quell'Apostolo. Gli sarebbe bastato unire l'equivoco e la realtà (la vastità e la potenza e la ricchezza del Khanato mongolo) e, una volta tornato in patria in Occidente, sarebbe stato impaziente di parlare di un immaginario Prete Zuàne che governava un immaginario impero cristiano. Bene, se non mi sbaglio, furono probabilmente i Khan a ispirare la leggenda, anche se non volontariamente, ma i Khan non sono cristiani. E non hanno mai posseduto alcuna delle favolose cose attribuite a Prete Zuàne: lo specchio incantato nel quale egli vedrebbe le remote azioni dei suoi nemici, i magici medicamenti grazie ai quali sarebbe in grado di guarire ogni malattia mortale, i suoi guerrieri divoratori di uomini, invincibili perché possono sopravvivere soltanto cibandosi dei
nemici sconfitti, e tutte le altre fantasiose meraviglie che tanto ricordano le fiabe della Shahryar Zahd. Con questo non voglio dire che non vi siano cristiani in Oriente. Esistono e sono molti, isolati, o a gruppi, o tanti da formare intere comunità cristiane, e si trovano ovunque, dal Levante mediterraneo alle remote coste del Catai, e sono di tutti i colori, dal bianco al giallo, dal bruno al nero. Sfortunatamente, appartengono tutti alla Chiesa Orientale, sono cioè i seguaci delle dottrine di quello scismatico del quinto secolo, l'Abate Nestorio, e questo equivale a dire che sono eretici agli occhi di noi cristiani della Santa Romana Chiesa. I nestoriani, infatti, negano alla Vergine Maria il titolo di Madre di Dio, non ammettono il crocifisso nelle loro chiese e adorano come santo il disprezzato Nestorio. Oltre a queste, praticano molte altre eresie. I loro sacerdoti non sono celibi, molti di essi prendono moglie, e tutti praticano la simonìa, in quanto non somministrano alcuno dei Sacramenti senza percepire un compenso in denaro. I nestoriani si ricollegano a noi veri cristiani soltanto perché adorano lo stesso Signore Iddio e riconoscono il Cristo come Figliol Suo. Questo almeno li faceva sembrare più simili a me, a mio padre e a mio zio di quanto lo fossero gli assai più numerosi adoratori di Allah o di Buddha o di altre divinità a noi ancor più estranee. Pertanto cercavamo di non aborrire troppo i nestoriani, sebbene ne contestassimo le dottrine, ed essi, a loro volta, erano di solito ospitali con noi e disposti ad aiutarci. Se il Prete Zuàne esisteva realmente, e non soltanto nell'immaginazione degli occidentali - e se, come correva voce, era il discendente di uno dei Re Magi - allora avremmo dovuto trovarlo attraversando la Persia, poiché lì erano esistiti i Magi e dalla Persia avevano seguito la Stella Cometa fino a Betlemme. Tuttavia, ciò avrebbe fatto di Prete Zuàne un nestoriano, in quanto i nestoriani sono i soli cristiani che esistano da queste parti. E, in effetti, trovammo tra i Persiani un anziano cristiano che così si chiamava, ma difficilmente sarebbe potuto essere il Prete Zuàne della leggenda. Il suo nome era Vizan, la versione persiana del nome che altrove è Zuàne o Giovanni, o Johannes o John. Aveva per nascita sangue reale persiano (era nato, in effetti, Shahzadé, cioè Principe) ma in gioventù aveva abbracciato la fede della Chiesa Orientale, la qual cosa significa rinunciare non soltanto all'Islam, ma anche al proprio titolo, al retaggio, alla ricchezza, ai privilegi e al diritto di successione nello Shahnato. A tutto questo egli aveva rinunciato per unirsi a una tribù girovaga di bedawin nestoriani. Ormai vecchissimo, egli era adesso il più anziano e il capo e il prete riconosciuto di quella tribù. Constatammo che si trattava di un brav'uomo e di un uomo savio nonché, in complesso, di un uomo ammirevole. Sotto questi aspetti, corrispondeva alla personalità del favoleggiato Prete Zuàne. Ma non regnava su un impero vasto e ricco e popoloso, bensì su una misera tribù formata da una ventina di famiglie di pastori impoverite e senza terra. Incontrammo questo gruppo di pecorai girovaghi una sera, quando non esisteva nei pressi alcun karwansarai, ed essi ci invitarono a condividere il loro accampamento nel bel mezzo del gregge, e così trascorremmo la serata in compagnia del loro prete Vizan. Mentre lui e noi consumavamo il semplice pasto intorno a un fuocherello, mio padre e lo zio lo impegnarono in una discussione teologica, e abilmente screditarono e demolirono molte delle eresie più care all'anziano bedawin. Ma egli non parve minimamente sgomento né disposto a rinunciare ai residui brandelli delle sue credenze. Cambiò invece allegramente discorso, portando la conversazione sulla corte di Bagdad che ci aveva ospitati di recente, informandosi su tutti coloro che vi risiedevano e che, naturalmente, erano i suoi regali parenti. Gli dicemmo che godevano di buona salute oltre ad essere prosperi e felici sebbene, com'era comprensibile, mordessero il freno sotto l'imperio del Khanato. Il vecchio Vizan parve soddisfatto delle notizie, pur non provando la benché minima nostalgia per gli agi della corte ai quali aveva rinunciato da lungo tempo. Soltanto quando lo zio Maffeo accennò per caso alla Shahrpiryar Shams (facendomi trasalire interiormente) l'anziano pastore-vescovo emise un sospiro che poteva esprimere rimpianto. «La Principessa Madre vive ancora, dunque?» disse. «Perdinci, deve avere ottant'anni, ormai, come me.» E di nuovo io trasalii.
Egli tacque a lungo, poi prese un bastone, attizzò il fuoco, fissò cogitabondo le fiamme e infine disse: «Senza dubbio la Shahrpiryar Shams non può più avere l'aspetto di un tempo, ma Sole, in gioventù, era la donna più bella della Persia, forse la più bella donna che sia mai esistita.» Mio padre e lo zio mormorarono distrattamente qualche parola di commento. Io continuavo a trasalire, assalito dagli anche troppo vividi ricordi della vecchia megera devastata dagli anni. «Ah, quando lei ed io e il mondo eravamo giovani!» disse in tono sognante l'anziano Vizan. «Io ero ancora, allora, lo Shahzadé di Tebriz e lei era la Shahzrad, la primogenita dello Scià di Kerman. Quanto si diceva della sua bellezza mi indusse a partire da Tebriz e attrasse innumerevoli altri Principi da località remote come la Sabea e il Kashmir; nessuno, mai, rimase deluso quando la vide.» Sommessamente, mi lasciai sfuggire un suono scortese di beffarda incredulità; sommesso abbastanza perché egli non lo udisse. «Potrei descrivervi gli occhi radiosi e le rosee labbra e la snellezza da giunco di quella fanciulla, ma questo non potrebbe nemmeno cominciare a darvene un'idea. Figuratevi, il solo guardarla bastava a incendiare un uomo fino a renderlo febbricitante, ma al contempo lo rasserenava. Ella era come... come un campo di trifoglio che sia stato riscaldato dal sole e poi lavato da una dolce pioggia. Sì quello del trifoglio è il profumo più soave che Dio abbia posto sulla Terra e, ogni qual volta io percepisco tale fragranza, ricordo la giovane e splendida Principessa Shams.» Paragonare una donna al trifoglio! Che pastore bifolco e privo di immaginazione! pensai. Senza dubbio l'intelletto del vecchio era stato offuscato, se non distrutto, dai decenni trascorsi senza altra compagnia all'infuori di quella delle sudicie pecore e degli ancor più sudici nestoriani. «Non esisteva un solo uomo, in tutta la Persia, che non fosse disposto a correre il rischio di essere percosso dalle guardie del palazzo di Kerman soltanto per avvicinarsi furtivamente e per intravvedere la Principessa Sole mentre passeggiava nel giardino. Per vederla senza il velo del chador, un uomo avrebbe dato la vita stessa. E, in cambio della remota speranza di un sorriso di lei, ogni uomo avrebbe rinunciato alla propria anima immortale. Quanto ad ogni ulteriore intimità, questa sarebbe stata un'idea impensabile anche per gli innumerevoli Principi già innamorati di lei senza speranze.» Immobile, fissai il Vizan, stupito e incredulo. La vecchia megera con la quale avevo trascorso, nudo, tante notti... una visione inconseguibile e inviolabile? Era impossibile! Era ridicolo! «I corteggiatori erano così numerosi, e tutti talmente tormentati dal desiderio, che Shams dal tenero cuore non poteva, o non voleva scegliere tra essi, rendendo in tal modo tormentosa l'esistenza agli sfortunati. Né suo padre lo Scià, per lungo tempo, riuscì a scegliere in nome della fanciulla, tanto era assediato da tutti quei giovani, ognuno dei quali implorava più eloquentemente degli altri, ognuno dei quali lo copriva di doni sempre più preziosi. Questo tumulto di corteggiamento continuò letteralmente per anni. Ogni altra fanciulla si sarebbe tormentata vedendo trascorrere il fiore dell'età senza avere ancora concluso un matrimonio. Shams invece, con il passare del tempo, diventava sempre più bella, bella come una rosa, sempre più aggraziata e snella e olezzante come il trifoglio.» Sempre immobile, lo fissavo, ma, adagio, lo scetticismo andava cedendo il posto, in me, allo stupore. La mia amante era stata davvero tutto "questo"? Così squisitamente desiderabile, per Vizan e per molti altri uomini in quei tempi lontani, da non essere ancora dimenticata, per lo meno da costui, nemmeno adesso, al termine della vita? Zio Maffeo cominciò a parlare, poi gli venne la tosse, ma infine si schiarì la gola e domandò: «E come si concluse tutto quell'accanito corteggiamento?» «Oh, doveva pure concludersi, in ultimo. Il padre della fanciulla, lo Scià - con l'approvazione di lei, confido - scelse infine come suo sposo lo Shahzadè di Shiraz. Lui e Shams vennero uniti in matrimonio e l'intero Impero Persiano, eccezion fatta per i corteggiatori respinti, festeggiò l'evento con esultanza. Tuttavia, per molto tempo l'unione non diede frutti. Nutro il forte sospetto che lo sposo fosse talmente sopraffatto dalla sua grande fortuna e dalla pura bellezza della sposa da riuscire a consumare il matrimonio solo parecchi anni dopo. Soltanto dopo la morte di suo padre e dopo che gli era succeduto come Scià a Shiraz, quando Shams aveva più di trent'anni, venne alla
luce la loro unica creatura, e per giunta una femmina. Anch'ella era bellissima, così ho saputo, ma non certo come la madre. Venne chiamata Zahd. Ella è ora la Shahryar di Bagdad, e credo che abbia, a sua volta, una figlia quasi adulta.» «Sì» dissi, fiocamente. Vizan continuò. «Se non fosse stato per gli eventi che ho riferito - se la Principessa Shams avesse scelto altrimenti - potrei trovarmi ancora...» Di nuovo attizzò il fuoco, ma ormai rimanevano soltanto le braci e rapidamente andavano oscurandosi. «Ah, be', ebbi l'ispirazione di andarmene nella solitudine e di cercare. E ho cercato, e ho trovato la vera religione, nonché questi miei fratelli girovaghi, e insieme a loro una vita nuova. Credo di averla vissuta bene e di essere stato un buon cristiano. Nutro una qualche piccola speranza nel Paradiso... e in Paradiso, chissà...?» La voce parve mancargli. Non disse altro, non ci augurò nemmeno la buonanotte. Si alzò e si allontanò da noi, lasciandosi dietro una scia del suo odore di lana di pecore, di orina e di escrementi di pecore, e scomparve entro la sua piccola tenda, molto logora e molto rappezzata. No, non lo scambiai mai, nemmeno per un momento, per il Prete Zuàne delle leggende. Quando anche mio padre e mio zio furono andati ad arrotolarsi nelle coperte, rimasi seduto accanto alle sempre più scure braci del fuoco, riflettendo, sforzandomi di conciliare, nei miei pensieri, la derelitta, decrepita nonna e colei che era stata la Principessa Sole, insuperata per la sua bellezza. Ero confuso. Se Vizan l'avesse veduta adesso, avrebbe visto in lei la vecchia e laida megera o la fanciulla meravigliosa che ella era stata un tempo? Ed io, dovevo continuare a sentirmi in preda al disgusto perché ella, nella vecchiaia, quasi neppur più riconoscibile come una donna, sentiva ancora brame femminili? Oppure dovevo compassionarla a causa degli inganni cui doveva ormai ricorrere per placare quelle brame, mentre un tempo, con un cenno del mignolo, avrebbe potuto avere qualsiasi Principe? O, per prospettare la situazione sotto un altro aspetto, avrei dovuto congratularmi con me stesso ed esultare in quanto mi ero goduto la Principessa Sole alla quale invano aveva anelato un'intera generazione di uomini? Ma, mentre cercavo di pensare in questo modo, mi sorpresi a trasferire il presente nel passato, e il passato nel presente, e a trovarmi di fronte a interrogativi ancor più inafferrabili. Fui indotto a domandarmi: l'immortalità risiede forse nel ricordo? Ma la mia mente era incapace di venire alle prese con una metafisica così profonda. La mia mente continua ad esserne incapace, come ne sono incapaci quasi tutte le menti. Tuttavia, so adesso una cosa che allora ignoravo. La so grazie alle tante esperienze e alla conoscenza di me stesso. In qualche punto, nell'intimo, l'uomo continua ad avere sempre la stessa età. Soltanto l'aspetto esteriore di lui invecchia... l'involucro del corpo, e ciò che avvolge il corpo, vale a dire il mondo intero. Interiormente, l'uomo arriva a una certa età e continua ad avere quell'età per tutto il resto della sua esistenza. Questa perpetua età inferiore può variare, presumo, a seconda degli individui. Ma sospetto che, in genere, rimanga bloccata nella prima maturità, quando la mente ha raggiunto la consapevolezza e l'acutezza adulte, ma non è stata ancora incallita dall'abitudine e dalle delusioni; quando il corpo ha appena raggiunto la completezza dello sviluppo e sente il fuoco della vita, ma non conosce la cenere della vita. Il calendario e lo specchio e i riguardi dei più giovani possono dire a un uomo che è vecchio, ormai, ed egli può vedere per proprio conto che ogni cosa è invecchiata intorno a lui, ma segretamente, in cuor suo, "sa" di essere ancora un giovane di diciotto o vent'anni. E quello che ho detto a proposito dell'uomo l'ho detto perché si dà il caso che io sia un uomo. Ma deve essere ancor più vero per quanto concerne la donna, che deve tesoreggiare molto di più la gioventù e la bellezza e la vitalità. Sono certo che non esista in alcun luogo una donna di età avanzata la quale non abbia, entro di sé, una fanciulla nel fiore degli anni. Credo che la Principessa Shams potesse vedere nello specchio, anche quando la conobbi io, gli occhi radiosi, le labbra rosse e la snellezza da giunco che il suo corteggiatore Vizan riusciva ancora a vedere, più di mezzo secolo dopo la separazione da lei, così come ancora percepiva la fragranza simile a quella del trifoglio dopo la pioggia, il profumo più soave che Dio abbia posto su questa Terra.
IL GRANDE SALE.
1. Kashan fu l'ultima città che raggiungemmo nella regione abitata e fertile della Persia; a est, al di là di essa, si estendeva la vuota solitudine denominata Dasht-e-Kavir, o Grande Deserto di Sale. Il giorno prima che arrivassimo in quella città, lo schiavo Narice disse: «Osservate, padroni miei, il cammello con il carico ha cominciato a zoppicare. Credo che sia stato ferito da un sasso. A meno che non guarisca, ciò potrebbe essere causa di guai seri quando arriveremo nel deserto.» «Sei tu il cammelliere» disse mio zio. «Qual è il tuo consiglio professionale?» «La cura è abbastanza semplice, Padron Maffeo. L'animale ha bisogno di alcuni giorni di riposo. Tre giorni dovrebbero bastare.» «Benissimo» disse mio padre. «Sosteremo a Kashan e potremo approfittare dell'indugio, rifornendoci di viveri per il viaggio, facendoci pulire gli indumenti e così via.» Da Bagdad fino a quel punto, Narice si era dimostrato così capace e sottomesso che noi avevamo completamente dimenticato la sua tendenza alla perfidia. Ma ben presto io, per lo meno, ebbi motivo di sospettare che lo schiavo avesse deliberatamente inflitto quella piccola lesione al cammello per assicurare a se stesso una vacanza. L'industria più importante di Kashan (e quella che ha dato il nome alla città) è stata per secoli la produzione dei kashi, o di quelli che noi denomineremmo mosaici, le tessere vetrificate con arte e impiegate in tutto l'Islam per decorare i templi masjid, i palazzi e altri begli edifici. La lavorazione dei kashi ha luogo entro laboratori chiusi, ma la merce seconda per preziosità in quella cittadina si presentò immediatamente ai nostri occhi non appena fummo entrati nell'abitato: splendidi fanciulli e giovani. Mentre le ragazze e le donne che si vedevano per le vie - il poco visibile attraverso i veli del chador - formavano la consueta gamma, andando dalle bruttine alle graziose, con qualche bellezza davvero degna di essere notata, qua e là, tutti i maschi giovani avevano un volto sorprendentemente bello, così come ne erano splendidi il fisico e il portamento. Non saprei dire per quale motivo. Il clima e il cibo e l'acqua a Kashan non differivano da quelli che avevamo trovato in ogni altra località della Persia, né potei notare alcunché di straordinario nelle persone del posto abbastanza avanti negli anni per essere madri e padri. Di conseguenza non ho la più pallida idea riguardo alla ragione per cui la loro progenie di sesso maschile superava di gran lunga i ragazzi e i giovani di altre località... ma in ogni modo accadeva innegabilmente proprio questo. Naturalmente, essendo io stesso un giovane rappresentante del sesso maschile, avrei preferito trovarmi nella città che è il complemento di Kashan, vale a dire Shiraz, la quale, si dice, è altrettanto traboccante di bellissime femmine. Ciò nonostante, anche i miei occhi indifferenti non poterono non ammirare quel che vedevano a Kashan. I ragazzi e i giovani non erano sudici, né foruncolosi, né coperti di chiazze sospette; erano tutti di una pulizia immacolata, con i capelli lustri, gli occhi vividi e una carnagione chiara e quasi translucida. Non sembravano avere l'aria imbronciata né camminare con un portamento dinoccolato; si tenevano tutti fieramente eretti e sostenevano apertamente gli sguardi. Non farfugliavano e non erano sciatti nell'esprimersi; parlavano con chiarezza e intelligenza. Dal primo all'ultimo, a qualsiasi classe appartenessero, erano belli e incantevoli come fanciulle, e come fanciulle di nobile nascita, ben curate, bene allevate e dai modi compiti. I ragazzetti sembravano gli squisiti, piccoli cupidi disegnati dagli artisti alessandrini. I ragazzi più avanti negli anni erano come gli Angeli dipinti sui pannelli della basilica di San Marco. Sebbene io fossi davvero colpito, e persino un po' invidioso di loro, non lo ammisi esplicitamente. In fin dei
conti, mi lusingavo di essere un esemplare non inferiore ad essi del mio sesso e della mia età. I miei tre compagni, invece, si abbandonarono alle esclamazioni. «Non Persiani, ma preziosi» disse zio Maffeo, in tono ammirato. «Davvero perfetti a vedersi, sì» disse mio padre. «Veri e propri gioielli» commentò Narice, guardandosi attorno con cupidigia. «Sono tutti giovani eunuchi?» domandò zio Maffeo. «O destinati ad esserlo?» «Oh, no, Padron Maffeo» rispose Narice. «Possono dare tanto validamente quanto ricevono, se intendete il senso delle mie parole. Lungi dall'essere menomati nelle loro parti virili, sono "migliorati" nelle altre parti basse. Resi più accessibili e più ospitali, non so se mi spiego. Conoscete il significato delle parole fa'il e mafa'ul? Be', al-fa'il significa 'colui che fa' e al-mafa'ul 'colui al quale viene fatto'. Questi ragazzi di Kashan vengono cresciuti in modo che siano bellissimi e addestrati ad essere ubbidienti; inoltre li si... ehm... li si modifica fisicamente... affinché possano agire in modo ugualmente delizioso sia come fa'il, sia come mafa'ul.» «Li fai sembrare di gran lunga meno angelici del loro aspetto» disse mio padre, con disgusto. «Ma lo Scià Zaman disse che proprio a Kashan egli si procurava ragazzi vergini da offrire in dono ad altri monarchi.» «Ah, be', quelli vergini sono un altro paio di maniche. Non li vedrete per le strade, i ragazzi vergini, Padron Niccolò. Vengono tenuti rinchiusi in un pardah severo quanto quello delle giovani Principesse. Infatti sono destinati a diventare i concubini di quei Principi o di quei ricconi che dispongono non già di un solo anderun, ma di due: un anderun di donne e uno di ragazzi. Fino al momento in cui i ragazzetti vergini divengono maturi per poter essere offerti, i loro genitori lasciano che si abbandonino a una perpetua indolenza. Non fanno altro, infatti, che oziare sui cuscini e nel frattempo li si nutre con castagne lessate.» «Castagne lessate! Per quale motivo?» «Questa dieta li rende immensamente grassi e di carnagione chiara, tanto che appoggiando un dito sulla loro pelle rimane una fossetta. I ragazzi con questo aspetto da larve vengono particolarmente apprezzati dai mezzani degli anderun. I gusti degli uomini sono inspiegabili. Per quanto mi concerne, io preferisco un ragazzo che sia muscoloso e sinuoso e atletico nell'atto, e non un imbronciato e molliccio fagotto di grasso che...» «Qui di manifesta libidine ce n'è già anche troppa» disse mio padre. «Risparmiaci la tua.» «Come voi comandate, padrone. Mi limiterò a osservare, soltanto, che il prezzo dei ragazzi vergini è altissimo, e che non si può noleggiarli. D'altro canto, osservate! Persino i monelli di strada, qui, sono bellissimi. Si può acquistarli per poco, o noleggiarli ancor più a buon mercato per una sveltina...» «Ti ho detto di tacere!» scattò mio padre. «E ora, dove andremo a cercare un alloggio?» «Esistono karwansarai ebrei?» domandò zio Maffeo. «Mi piacerebbe mangiare come si deve, tanto per cambiare.» Farò bene a chiarire il significato di questa frase. Nel corso delle settimane precedenti avevamo trovato quasi tutti i luoghi di sosta, lungo il cammino, diretti da Musulmani, naturalmente; ma alcuni di essi appartenevano a Cristiani nestoriani. E la degenerata Chiesa Orientale rispetta stupidamente tanti di quei giorni destinati al digiuno e tante di quelle festività, che "ogni" giorno è l'una o l'altra cosa. Per conseguenza, in quei karwansarai, o avevamo dovuto piamente soffrire la fame, oppure ci avevano piamente ingozzati. Inoltre, ci trovavamo adesso nel mese che i Musulmani della Persia chiamano Ramazan. Questa parola significa «il mese caldo», ma, siccome il calendario musulmano si attiene ai cicli lunari, il Mese Caldo viene in vari momenti dell'anno e può cadere in agosto o in gennaio o in qualsiasi altro periodo, e quell'anno era caduto nel tardo autunno. Comunque, in qualsiasi stagione si presenti, è il mese durante il quale i Musulmani devono digiunare. In ognuno dei trenta giorni del Ramazan, partendo dall'ora mattutina durante la quale è possibile distinguere tra un filo bianco e un filo nero, un musulmano non può cibarsi né bere, né avere rapporti sessuali con le donne, fino al cader della notte. Né può servire alcunché di commestibile ai suoi ospiti, quale che ne sia la religione. Per cui, durante il giorno, noi viaggiatori
non avevamo potuto ottenere nemmeno un mestolo d'acqua di pozzo in ogni luogo di sosta musulmano, mentre ogni notte, dopo il tramonto, eravamo stati ingozzati fino allo stordimento. E così, per qualche tempo, avevamo sofferto dei disturbi causati dall'indigestione; pertanto la domanda di zio Maffeo non era stata affatto suggerita da un ozioso capriccio. E' quasi superfluo da parte mia far rilevare che gli Ebrei, in Oriente, di rado si dedicano al mestiere di fornire un giaciglio e il vitto ai forestieri di passaggio. Non più di quanto facciano in Occidente: senza dubbio perché questo lavoro è meno redditizio e più faticoso del dare denaro in prestito e di altre forme di usura. In ogni modo, il nostro schiavo Narice era un uomo ricco di risorse. Dopo essersi informato per breve tempo, rivolgendo domande ai passanti, venne a sapere di un'anziana vedova ebrea la cui casa era adiacente a una stalla non più impiegata. Narice ci condusse là, si fece ricevere dalla vedova e dimostrò di essere, per giunta, un messo quanto mai persuasivo. Uscì dalla casa della donna e ci riferì che ella ci consentiva di mettere al riparo i cammelli nella stalla e di sistemare noi stessi nel fienile sovrastante. «Per giunta» egli disse, mentre conducevamo le bestie là dentro e cominciavamo a scaricarle, «dato che tutti i servi della casa sono Persiani di Kashan e tenuti pertanto a rispettare i divieti del Ramazan, l'Almauna Esther ha accettato di cucinare e servire con le sue stesse mani i pasti per voi gentiluomini. Di conseguenza mangerete di nuovo nelle ore per voi consuete, ed ella mi ha assicurato di essere un'abile cuoca. Anche il compenso che chiede mi sembra ragionevolissimo.» Zio Maffeo fissò a bocca aperta lo schiavo, poi disse, in un tono di voce reverenziale: «Tu sei un musulmano, la creatura più disprezzata dagli Ebrei, e noi siamo Cristiani, gli esseri più disprezzati subito dopo. E, come se questo non bastasse per indurre la vedova Esther a scacciarci da casa sua, tu devi essere senz'altro la creatura più repellente sulla quale ella abbia mai posto gli occhi. Come hai fatto, in nome di Dio, a ottenere tutto questo?» «Sono soltanto un Sindi e uno schiavo, padrone, ma non ignorante e non privo di spirito di iniziativa. Inoltre, so leggere e osservare.» «Mi congratulo con te. Ma questo non risponde alla mia domanda né attenua la tua bruttezza.» Narice si grattò, cogitabondo, sotto la rada barba. «Padron Maffeo, nei sacri libri della vostra religione e della mia, nonché di quella dell'Almauna Esther, troverete menzionata spesso la parola bellezza, mai però la parola bruttezza, eh no, non la troverete in alcuna di quelle Scritture. Forse i nostri vari dei non si sentono offesi dalla bruttezza fisica dei meri mortali, e forse l'Almauna Esther è una donna pia. In ogni modo, prima che venissero scritti quei sacri testi, avevamo tutti la stessa religione, i miei antenati, quelli dell'Almauna e forse anche i vostri... l'antica religione babilonese ora aborrita perché considerata pagana e demoniaca.» «Impertinente venuto su dal nulla! Come osi sostenere una cosa simile?» esclamò, accalorato, mio zio. «Il nome dell'Almauna è Esther» disse Narice «e vi sono anche dame cristiane con tale nome, ma esso deriva da quello della dea demone Ishtar. Il defunto marito dell'Almauna, ella mi ha detto, si chiama Mordecai, nome che, a sua volta, deriva da quello del dio demone Marduk. Ma, molto tempo prima che questi dei esistessero a Babilonia, esistettero Noè e suo figlio Sem, e l'Almauna ed io siamo i discendenti di Sem. Soltanto la successiva differenza delle religioni divide noi semiti, anche se non avrebbe dovuto portare a una così grande differenziazione. Musulmani ed Ebrei, entrambi i popoli evitano certi cibi, suggellano nella fede i loro figli mediante la circoncisione, credono negli angeli celestiali e odiano lo stesso avversario, lo chiamino Satana o Shaitàn. Entrambi venerano la città santa di Gerusalemme. Forse ignoravate che il Profeta (possano benedizioni e pace scendere su di Lui) in origine ordinò a noi Musulmani di prosternarci verso Gerusalemme, non verso la Mecca, recitando le preghiere. La lingua parlata un tempo dagli Ebrei e quella parlata dal Profeta (gli tocchi ogni benedizione insieme alla pace) non erano molto dissimili, e...» «E sia i Musulmani sia gli Ebrei» disse mio padre, asciutto, «hanno la lingua incernierata nel mezzo, in modo che possano farla andare da tutte e due le parti. Venite, Maffeo, Marco, andiamo a rendere omaggio a colei che ci ospita. Narice, tu finisci di scaricare i cammelli e poi procura il foraggio.»
La vedova Esther era una donnetta dai capelli bianchi e dal viso soave, e ci accolse con gentilezza, come se non fossimo stati Cristiani. Volle a tutti i costi che ci accomodassimo e bevessimo quello che ella chiamava «il ristoro dei viaggiatori», e che risultò essere latte caldo insaporito con cardamomo. Lei lo preparò con le sue stesse mani, in quanto non era ancora il tramonto e nessuno dei suoi servi musulmani poteva anche soltanto riscaldare il latte o ridurre in polvere i semi. Parve che quella signora ebrea possedesse davvero, come aveva supposto mio padre, la lingua incernierata nel mezzo, poiché ci degnò a lungo della sua conversazione. O meglio, intrattenne il babbo e lo zio. Io mi guardai attorno. La casa era stata ovviamente bella un tempo, e riccamente arredata, ma dopo la morte del padrone - Mordecai, supposi - era andata alquanto in sfacelo e adesso i mobili sembravano logori. Esisteva ancora un buon numero di servi, ma ebbi l'impressione che rimanessero non per la paga, bensì per lealtà nei confronti della signora Esther, e che, all'insaputa di lei, accettassero biancheria da lavare alla porta di servizio, o, mediante qualche altro generoso espediente mantenessero se stessi nonché lei. Due o tre di quei servi erano anziani e insignificanti come la signora, ma notai come altri tre o quattro fossero ragazzi o giovani, superlativamente belli, di Kashan. E della servitù, fui lieto di constatarlo, faceva parte una femmina graziosa quanto i maschi, una giovinetta dai capelli rossoscuri e dal corpo voluttuoso. Per ingannare il tempo mentre la vedova Esther continuava a cicalare, feci il cascamorto con quella cameriera, rivolgendole sguardi languidi e strizzandole l'occhio significativamente. E lei, quando la padrona non la osservava, continuò a sorridermi in modo incoraggiante. Il giorno dopo, mentre il cammello azzoppato si riposava, e altrettanto facevano gli altri quattro, noi viaggiatori ci recammo tutti, ognuno per suo conto, in città. Mio padre andò in cerca di un laboratorio ove si producessero i kashi, esprimendo il desiderio di imparare qualcosa sulla lavorazione di quelle tessere per mosaici, in quanto riteneva si trattasse di una industria utile che avrebbe potuto far conoscere agli artigiani del Catai. Il nostro cammelliere Narice andò ad acquistare una qualche scorta di pomata per il piede ferito del cammello, e zio Maffeo andò a procurarsi una nuova provvista del depilatorio mumum. Come poi risultò, nessuno di loro riuscì a trovare quel che cercava, in quanto a Kashan nessuno lavorava durante il Ramazan. Quanto a me, non avendo commissioni da fare, mi limitai ad aggirarmi qua e là, osservando ogni cosa. Come dovevo vedere in ogni altra città da quel punto in poi, nel cielo sopra Kashan turbinavano continuamente i grandi e scuri nibbi divoratori di carogne, dalla coda biforcuta, librandosi e ruotando nell'aria. E, come in ogni altra città da lì all'oriente, altri uccelli, più numerosi, sembravano impiegare tutto il loro tempo andando in cerca di rifiuti al suolo. Si trattava dei mynah, che si aggiravano, pavoneggiandosi aggressivi, qua e là, con la parte inferiore del becco protesa in avanti, come la mascella pugnace di un ometto in cerca di litigi. E, naturalmente, gli altri abitatori più visibili di Kashan erano i graziosi ragazzi intenti a giocare per le strade. Cantilenavano le tiritere del giuoco della palla o del nascondino, oppure intonavano motivi di danze turbinose, proprio come i monelli veneziani, solo che quelle canzoni erano del tipo miagolio di gatti. E altrettanto si poteva dire delle musiche dei suonatori ambulanti che sollecitavano bakhshish. Sembrava che non conoscessero altro strumento all'infuori del changal, che è semplicemente uno scacciapensieri, o arpa degli Ebrei, e della chimta, la quale altro non è che molle da cucina; per conseguenza, la loro musica si limitava ad essere un'orrida cacofonia di strepiti e strimpellii metallici. I passanti che lanciavano loro una moneta o due lo facevano, credo, non per ringraziarli del concerto, ma per far sì che cessasse, sia pure momentaneamente. Non mi spinsi lontano, quel mattino, poiché la passeggiata mi fece percorrere un circolo lungo le strade e ben presto constatai che mi avvicinavo di nuovo alla casa della vedova. Da una finestra, la graziosa cameriera mi fece cenno, come se fosse rimasta lì in attesa di vedermi passare. Poi mi fece entrare e mi condusse in una stanza arredata con qali un po' frusti e con diwan; mi confidò che la sua padrona era occupata altrove e mi disse di chiamarsi Sitare, che significa Stella. Sedemmo insieme su un mucchio di cuscini. Non essendo più un imberbe e inesperto adolescente, non l'aggredii con goffa e giovanile avidità. Incominciai, invece, rivolgendole parole tenere,
facendole complimenti soavi e soltanto a poco a poco mi avvicinai fino a solleticarle, con i miei bisbigli, l'orecchio piccolo e grazioso, facendola ridacchiare e contorcersi; soltanto allora sollevai il velo del chador, accostai le labbra alle sue e teneramente la baciai. «Questo è piacevole, Mirza Marco» disse lei «ma non dovete perdere tempo.» «Non la considero una perdita di tempo» dissi io. «I preliminari li godo come il soddisfacimento. Possiamo impiegare anche tutto il giorno, se...» «Voglio dire che non dovete fare niente con me.» «Sei una ragazza riguardosa, Sitare, e gentile. Ma devo dirti che non sono musulmano. E che non mi astengo durante il Ramazan.» «Oh, il fatto che voi siate un infedele non ha alcuna importanza.» «Esulto, sentendotelo dire. Procediamo, allora.» «Benissimo. Smettete di abbracciarmi e andrò a chiamarlo.» «Cosa?» «Ve l'ho detto. Non è affatto necessario che continuiate a fingere con me. Lui sta già aspettando di entrare.» «"Chi" sta aspettando?» «Mio fratello Aziz.» «Perché diavolo dovremmo volere tuo fratello qui con noi?» «Non con noi. Con voi. Io me ne andrò.» Allentai la presa su di lei, mi raddrizzai e la fissai. «Scusami, Sitare» dissi circospetto, non sapendo come dirglielo se non domandandolo: «Sei forse, ehm, divané?» Divané significa pazza. Ella parve sinceramente interdetta. «Credevo che aveste notato quanto ci somigliamo quando siete venuto qui ieri sera. Aziz è il ragazzo che mi somiglia e ha i capelli rossi come i miei, ma è molto più bello di me. Il suo nome significa Diletto. Senza dubbio per questo mi avete strizzato l'occhio, guardandomi con desiderio, no?» Toccò a me, a questo punto, rimanere interdetto. «Anche se lui fosse bello come un angelo, perché avrei dovuto strizzare l'occhio a "te"... se non perché eri tu quella che io...?» «Vi dico che non è necessaria alcuna finzione. Anche Aziz vi ha veduto e, a sua volta, è rimasto affascinato all'istante; ora sta già aspettando ed è impaziente.» «Me ne infischio se Aziz rimarrà in eterno al Purgatorio!» esclamai, esasperato. «Consentimi di dirtelo con tutta la chiarezza di cui sono capace. In questo momento sto cercando di sedurre te, affinché tu mi consenta di goderti.» «Me? Volete fare la zina con me? Non con mio fratello Aziz?» Per qualche momento tempestai di pugni un incolpevole cuscino, poi dissi: «Spiegami una cosa, Sitare. Ogni ragazza persiana sciupa forse le sue energie facendo da mezzana per qualcun altro?» Lei rifletté su queste parole. «Ogni ragazza persiana? Non lo so. Ma qui a Kashan, sì, succede spesso. E' la conseguenza di una radicata costumanza. Un uomo vede un altro uomo, o un ragazzo, e ne rimane colpito. Ma non può fargli apertamente la corte, perché questo sarebbe contro la legge imposta dal Profeta.» «Pace e benedizioni scendano su di lui» mormorai io. «Sì. E allora l'uomo corteggia la donna più strettamente imparentata con quell'altro. Arriva addirittura al punto di sposarla, se necessario. Ha così un pretesto per essere vicino a colui che il suo cuore desidera realmente - il fratello della donna, forse, o magari suo figlio, se è vedova, o anche suo padre - e ha ogni possibilità di fare zina con lui. In questo modo non si trasgredisce proprio apertamente la legge.» «Gesù.» «Ecco perché ho supposto che mi faceste la corte. Ma, naturalmente, se non volete mio fratello non potete avere me.» «E perché mai non posso? Venendo a sapere che voglio te e non lui mi sei sembrata compiaciuta.» «Lo sono, è vero. Sorpresa e compiaciuta al contempo. E' una preferenza inconsueta; un'eccentricità cristiana, direi. Ma io sono vergine e tale devo rimanere nell'interesse di mio fratello. Ormai avete attraversato molti paesi musulmani e, senza dubbio, vi siete reso conto di come stanno le cose. Per
questo una famiglia mantiene severamente in pardah le fanciulle e gelosamente ne custodisce la virtù. Soltanto una vergine che rimane intatta o una vedova che si conserva pura possono sperare di concludere un buon matrimonio. O almeno è così nel Kashan.» «Be', le cose stanno esattamente nello stesso modo anche là da dove vengo io...» dovetti ammettere. «Sì, cercherò di concludere un buon matrimonio con un brav'uomo che sappia provvedere bene alla famiglia ed essere un abile amante di entrambi, poiché non ho altri al mondo che mio fratello Aziz.» «Aspetta un momento» dissi io, scandalizzato. «La castità di una donna veneta viene fatta spesso oggetto di baratto, sì, e non di rado serve a concludere un buon matrimonio, è vero. Ma soltanto nell'interesse venale o sociale dell'intera famiglia di lei. Vuoi forse dire che le donne, qui, approvano e spontaneamente favoriscono la concupiscenza di un uomo per un altro uomo? Diventeresti volutamente la moglie di un uomo soltanto per poterlo dividere con tuo fratello?» «Oh, ma non del primo uomo che si presenti» disse lei, allegramente. «Dovreste sentirvi lusingato perché sia Aziz, sia io, vi abbiamo trovato di nostro gusto.» «Gesù.» «Accoppiarvi con Aziz non vi impegna a niente, vedete, in quanto i maschi non hanno la membrana sangar. Ma, se volete lacerare la mia, dovete sposarmi e mantenerci entrambi.» «Gesù.» Mi alzai. «Dove state andando? Allora non mi volete? Ma Aziz? Non volete averlo nemmeno una volta?» «Credo di no, grazie, Sitare.» Mi diressi verso la porta. «Ignoravo, semplicemente, la costumanza locale.» «Egli ne sarà desolato. Specie se dovrò dirgli che desideravate me e non lui.» «Allora non dirglielo» farfugliai. «Limitati a dirgli che ignoravo la costumanza locale.» E uscii.
2. Tra la casa e la stalla v'era un campicello nel quale crescevano ortaggi, e la vedova Esther si trovava lì fuori. Calzava una sola pantofola, aveva l'altro piede nudo, e stava percuotendo il terreno con la pantofola che si era tolta. Incuriosito mi avvicinai e vidi che stava spiaccicando un grosso scorpione nero. Quando lo ebbe ridotto in polpa, fece un passo avanti e voltò un sasso; un altro scorpione cominciò pigramente a strisciare e lei spiaccicò anche quello. «E' il solo modo per liberarsi di queste creature schifose» mi disse. «Vanno in giro di notte, quando è impossibile vederle. Bisogna stanarle durante il giorno. L'intera città ne è infestata. Non so perché. Il mio defunto e caro marito Mordecai (alav ha-sholom) soleva borbottare dicendo che Dio aveva miseramente sbagliato limitandosi a mandare all'Egitto il flagello delle cavallette, mentre avrebbe potuto mandare questi velenosi scorpioni di Kashan.» «Vostro marito doveva essere un uomo coraggioso, Mirza Esther, per criticare Dio stesso.» Ella rise. «Leggete le Scritture, giovanotto. Gli Ebrei hanno rivolto critiche e consigli a Dio sin dai tempi di Abramo. Leggerete nel libro della Genesi come Abramo abbia per primo discusso con il Signore, mercanteggiando poi con Lui fino a pervenire a un accordo. Il mio Mordecai non era più esitante di Abramo nel cavillare per quanto concerneva l'operato di Dio.» Dissi: «Un tempo avevo un amico... un ebreo a nome Mordecai.» «Un ebreo era vostro amico?» Ella parve scettica, ma non riuscii a capire se dubitasse del fatto che un cristiano poteva scegliere come amico un ebreo, o viceversa. «Be'» dissi «era ebreo quando lo conobbi, quando si faceva chiamare Mordecai. Ma sembra che continui a incontrarlo con altri nomi o altre sembianze. Una volta l'ho veduto in uno dei miei sogni.» E le parlai di questi vari incontri e di queste manifestazioni, sempre allo scopo, evidentemente, di persuadermi della «sete di sangue della bellezza.» La vedova mi fissò, mentre parlavo, e spalancò gli occhi e, quando ebbi terminato, disse:
«Bar mazel, e voi siete un Gentile! Qualsiasi cosa stia cercando di dirvi, vi consiglierei di prenderla sul serio. Sapete chi è colui che continuate a incontrare? Deve essere uno dei Lamed-waw. I trentasei.» «I trentasei cosa?» «Tzaddikim. Vediamo... sì, credo che un cristiano li chiamerebbe santi. Si tratta di un'antica credenza ebrea. Che sempre esistano al mondo trentasei uomini assolutamente virtuosi. Nessuno sa mai chi essi siano e loro stessi non si rendono conto di essere tzaddikim: altrimenti, capite, tale consapevolezza sminuirebbe la loro perfezione. Ma viaggiano costantemente per il mondo, compiendo buone azioni, senza mai chiedere né ricompense né riconoscimenti. Taluni dicono che gli tzaddikim non muoiono mai. Altri affermano che ogni qual volta uno tzaddikim muore, un altro uomo buono viene inviato da Dio a prenderne il posto, senza la consapevolezza da parte sua di essere stato così onorato. Secondo altri ancora, esiste in realtà un solo tzaddik, il quale, se vuole, può venirsi a trovare in trentasei luoghi contemporaneamente. Ma tutti coloro i quali credono nella leggenda sono d'accordo nell'asserire che Dio porrebbe termine a questo mondo se i Lamed-waw dovessero cessare di compiere le loro buone azioni. Devo dire, però, di non aver mai saputo che qualcuno di loro facesse opere buone con un Gentile.» Osservai: «Quello che ho incontrato a Bagdad forse non era nemmeno ebreo. Si trattava di un fardarbab che prediceva il futuro. Avrebbe potuto essere arabo.» Lei fece una spallucciata. «Gli Arabi hanno una leggenda identica. Chiamano l'uomo giusto abdal. La vera identità di ognuno di questi uomini è nota soltanto ad Allah, e soltanto grazie a loro Allah consente che il mondo continui ad esistere. Io non so se gli Arabi abbiano preso in prestito la leggenda dei nostri Lamed-waw, o se si tratta di una credenza che essi e noi abbiamo condiviso sin dai tempi remoti in cui eravamo i figli di Sem. Ma, chiunque possa essere il vostro, giovanotto - un abdal che prodiga favori a un infedele o uno tzaddik che prodiga favori a un Gentile - siete grandemente favorito e dovreste prestare ascolto.» Dissi: «Sembra che non mi parlino mai d'altro se non della bellezza e della sete di sangue. Sto già cercando l'una ed evitando l'altra, per quanto mi è possibile. Sotto entrambi gli aspetti, difficilmente mi occorrono altri consigli.» «A me sembrano le due facce di una stessa moneta» disse la vedova, schiacciando con la pantofola un altro scorpione. «Se v'è pericolo nella bellezza, non esiste forse anche bellezza nel pericolo? Altrimenti perché un uomo affronterebbe tanto volentieri i lunghi viaggi?» «Oh, io viaggio soltanto per curiosità, Mirza Esther.» «"Soltanto" per curiosità! Ma sentitelo! Giovanotto, non biasimate mai la passione denominata curiosità. Dove sarebbe mai il pericolo senza di essa, o dove sarebbe anche la bellezza?» Non riuscivo a scorgere molti rapporti fra le tre cose, e, una volta di più, cominciai a domandarmi se stessi parlando con una persona lievemente divané. Sapevo che i vecchi possono essere a volte straordinariamente sconnessi nelle loro conversazioni, e tale parve essere costei quando disse, subito dopo: «Devo riferirvi le parole più tristi che abbia mai udite?» Come sono soliti fare tutti i vecchi, non aspettò che io avessi detto sì o no, ma continuò senz'altro: «Furono le ultime parole rivoltemi da mio marito Mordecai (alav ha-sholom). Le pronunciò mentre giaceva morente. Erano presenti il darshan e altri appartenenti alla nostra piccola congregazione, e, naturalmente, mi trovavo lì anch'io, piangendo e sforzandomi di piangere sommessamente, con dignità. Mordecai aveva già detto addio a tutti e recitato lo Shemà Yisrael; si preparava ormai alla morte. Teneva gli occhi chiusi, le mani intrecciate e noi tutti pensavamo che stesse andandosene serenamente. Ma poi, senza aprire gli occhi né rivolgersi a qualcuno in particolare, egli parlò di nuovo, udibilmente e con molta chiarezza. Ed ecco quel che disse...» La vedova mimò il marito moribondo. Chiuse gli occhi e incrociò le mani sul petto, sempre stringendo con una di esse la sudicia pantofola; quindi reclinò un poco il capo all'indietro e disse, con una voce sepolcrale: «Ho sempre voluto andare là... e fare quello... ma non l'ho mai fatto.»
Quindi conservò lo stesso atteggiamento; evidentemente si aspettava ch'io dicessi qualcosa. Ripetei le parole del defunto: «Ho sempre voluto andare là... e fare quello...» Poi domandai: «Che cosa intendeva dire? Andare dove? Fare che cosa?» La vedova riaprì gli occhi e agitò la pantofola nella mia direzione. «La stessa cosa disse il darshan, dopo che, per alcuni momenti, avevamo aspettato di udire qualcosa di più. Il darshan si chinò sul letto e domandò: 'Andare dove, Mordecai? A fare che cosa?' Ma Mordecai non disse altro. Era morto.» «Mi dispiace, Mirza Esther.» «Dispiace anche a me. Ma andò così. Egli era un uomo che aveva un ultimo barlume di vita, e si lagnava a causa di qualcosa che una volta aveva destato la sua curiosità, un luogo ove non si era potuto recare per vederlo, o qualcosa che non aveva potuto fare, o avere... e che ora gli sarebbe stata negata per sempre.» «Era un viaggiatore, Mordecai?» «No, era un mercante di tessuti, e molto abile. Nel corso dei suoi viaggi non era mai andato più lontano di Bagdad e di Bassora. Ma chi può sapere dove gli sarebbe piaciuto andare o che cosa gli sarebbe piaciuto fare?» «Pensate, allora, che sia morto infelice?» «Inappagato, per lo meno. Non so di che cosa parlasse, ma, oh, come vorrei che fosse andato, mentre era in vita, dove voleva, di qualsiasi luogo potesse trattarsi, e che avesse fatto quel che desiderava, qualsiasi cosa fosse!» Tentai con tatto di farle capire che la cosa non poteva più rivestire alcuna importanza per lui, ormai. Ella disse, con fermezza: «Contò per lui nel momento più terribile. Quando si rese conto che la possibilità era svanita per sempre.» Sperando di rasserenarla, dissi: «Ma, se avesse fatto quel che desiderava, forse voi potreste dolervene, adesso. Si sarebbe potuto trattare di qualcosa... di qualcosa di non lecito. Ho avuto modo di notare che le tentazioni peccaminose abbondano in questi paesi. In tutti i paesi, presumo. Io stesso, una volta, dovetti andare a confessarmi da un sacerdote per essermi troppo impulsivamente recato là ove mi conduceva la curiosità, e...» «Confessatevi, se non potete farne a meno, ma non abiurate, né ignorate mai. E' questo che sto cercando di dirvi. Se un uomo deve avere un difetto, è bene che si tratti di qualcosa di irresistibile, come l'insaziabile curiosità. Sarebbe un peccato essere dannati per qualcosa di meschino!» «Spero di non essere dannato, Mirza Esther» dissi piamente «così come confido che non lo sia stato Mirza Mordecai. Può darsi benissimo che sia stata la virtù a indurlo a lasciar passare l'occasione, di qualsiasi cosa potesse trattarsi. E siccome voi non potete saperlo, non dovete pianger per...» «Non sto piangendo. Non ho certo parlato della cosa per piagnucolarci su.» Mi domandai perché, allora, si fosse data la pena di parlarne. E, come se avesse risposto alla mia non formulata domanda, continuò: «Volevo che sapeste questo: quando in ultimo verrà per voi il momento di morire, potrete essere privato di ogni altro impulso e non essere più in possesso dei vostri sensi e delle vostre facoltà, ma continuerete ad essere dominato dalla passione della curiosità. E' un qualcosa che posseggono anche i mercanti di tessuti, forse persino i commessi e altri uomini altrettanto insignificanti. Senza dubbio, un viaggiatore è dominato dalla curiosità. E, negli ultimi momenti di vita, essa vi tormenterà, come tormentò Mordecai, non a causa di qualcosa che possiate aver fatto nel corso della vostra esistenza, ma a causa di tutte le cose che non vi sarà mai stato possibile fare.» «Mirza Esther» protestai «un uomo non può vivere continuamente con il terrore di lasciarsi sfuggire qualcosa. Sono assolutamente convinto che non sarò mai Papa, ad esempio, o Scià della Persia, ma voglio sperare che questo non mi rovinerà l'esistenza. E che non mi tormenterà sul letto di morte.» «Non mi riferivo a cose inconseguibili. Mordecai morì lamentandosi di non aver fatto qualcosa che era stato nell'ambito delle sue possibilità, delle sue capacità, qualcosa che avrebbe potuto fare, e che si lasciò sfuggire. Immaginate di struggervi per gli spettacoli e i piaceri e le esperienze che avreste
potuto avere e non aveste, o anche soltanto per una sola e modesta di tali esperienze... ma di struggervi troppo tardi, quando tutto sarà per sempre inconseguibile.» Remissivo, cercai di immaginarlo. E, per quanto fossi giovane, e per quanto remota potessi ritenere tale prospettiva, mi sentii percorrere da un lieve e gelido brivido. «Immaginate di morire» continuò lei, implacabile, «senza avere gustato tutto di questo mondo. Il bene e il male, e persino la via di mezzo. E di sapere, in quel momento ultimo, che foste soltanto voi a privare voi stesso, per prudente cautela, o per una scelta sbadata, o per non essere andato là ove voleva condurvi la curiosità. Ditemi, giovanotto, può mai esistere un supplizio peggiore nell'"aldilà"? Compresa la stessa dannazione eterna?» Dopo il momento che mi occorse per scrollarmi di dosso un nuovo gelido brivido, dissi, nel tono più allegro possibile: «Be', con l'aiuto dei trentasei di cui parlavate, potrò forse evitare sia la privazione nella vita, sia la condanna dopo la vita.» «Aleichem sholem» disse lei. Ma, poiché in quel momento stava spiaccicando con la pantofola un altro scorpione, non potei sapere con certezza se stesse augurando pace a me o all'insetto. Ella si portò avanti nell'orto, capovolgendo i sassi, ed io mi recai oziosamente nella stalla per vedere se qualcuno degli altri fosse tornato dai vagabondaggi in città. Uno di loro era tornato, ma non solo, e quel che vidi mi indusse a fermarmi di colpo e a trattenere il respiro. Il nostro schiavo Narice si trovava lì con uno sconosciuto, uno degli splendidi giovani di Kashan. Forse la conversazione con la cameriera Sitare mi aveva reso temporaneamente impervio al disgusto, in quanto non protestai con violenza e neppure indietreggiai. Continuai a guardare, con la stessa indifferenza dei cammelli, che si limitavano a spostare i piedi, a bramire e a ruminare. Entrambi gli uomini erano nudi; lo sconosciuto si trovava carponi sulla paglia e il nostro schiavo si teneva ingobbito contro la schiena di lui, sgroppando come un cammello infoiato. I due sodomiti libidinosamente accoppiati voltarono la testa quando entrai, ma si limitarono a sorridermi e a continuare con le loro indecenze. Il giovane aveva un corpo splendido a contemplarsi quanto il viso. Ma Narice, anche vestito di tutto punto, era repellente, come ho già descritto. Posso soltanto aggiungere che la gran pancia di lui e le natiche foruncolose e le gambette esili, se completamente in mostra, costituivano uno spettacolo totale da far vomitare, quasi a chiunque lo vedesse, il pasto ingerito più di recente. Mi sbalordì il fatto che una creatura così repellente potesse essere riuscita a persuaderne un'altra graziosa o comunque meno repellente a fare da al-mafa'ul con un al-fa'il. L'aggeggio fa'il di Narice mi restava invisibile, essendo inserito là ove si trovava, ma l'organo del giovane era visibilissimo sotto il ventre di lui ed era rigido così da avere assunto l'aspetto «candeloto». La cosa mi parve alquanto strana, in quanto né lui né Narice lo stavano manipolando in qualsiasi modo. E mi parve ancor più strana allorché, nel momento in cui, finalmente, egli e Narice gemettero e si contorsero insieme, il «candeloto» - sempre senza il beneficio di carezze o toccamenti - eiaculò spruzzi sulla paglia. Dopo che i due si erano riposati per qualche momento, ansimando, Narice sollevò la propria mole luccicante di sudore dalla schiena del giovane. Senza andare a prendere un po' d'acqua nel truogolo dei cammelli, senza nemmeno asciugarsi l'organo, piccolo all'estremo, con un po' di paglia, lo schiavo cominciò a rivestirsi e nel frattempo canticchiò un allegro motivetto. Il giovane sconosciuto si rivestì a sua volta, più indolente e più lento, quasi godesse apertamente nell'esibire il proprio corpo nudo anche in circostanze così vergognose. Appoggiato a un tramezzo della stalla, dissi al nostro schiavo, come se in precedenza avessimo conversato tutti amichevolmente: «Vuoi sapere una cosa, Narice? Sono molti i bricconi e i furfanti descritti nelle canzoni e nella storia: tipi come Encolpio e come Renart la Volpe. Condussero un'esistenza vagabonda, grazie alla loro astuzia volpina, e in qualche modo riuscirono a non rendersi mai colpevoli di reati o peccati gravi. Si limitarono a burle o scherzi. Derubavano soltanto i ladri, le loro imprese amorose non erano mai sordide, bevevano e facevano baldoria senza mai ubriacarsi o comportarsi da stolti e la loro abilità con la spada non causava mai più di una ferita superficiale. Avevano modi seducenti, occhi ammiccanti e la risata pronta anche sul patibolo,
poiché non venivano mai impiccati. Quali che potessero essere le loro avventure, quegli avventurosi bricconi erano sempre incantevoli e audaci, intelligenti e divertenti. Racconti come questi fanno sì che uno desideri conoscere un furfante così coraggioso, audace e amabile.» «E ora voi lo avete conosciuto» disse Narice. Ammiccò con gli occhi porcini, sorrise per mettere in mostra i denti marci e assunse una posa che, secondo lui, probabilmente, era ardita. «Ora l'ho conosciuto» dissi io. «E non v'è nulla di amabile o di ammirevole in te. Se tu sei il tipico furfante, allora tutti i racconti sono menzogne e furfante significa porco. Sei un individuo sudicio nella persona e nelle abitudini, odioso per l'aspetto e per il carattere, con tendenze cloacali. Meriti, in tutto e per tutto, il calderone d'olio bollente, per salvarti dal quale ragionai con eccessiva indulgenza.» Il bellissimo sconosciuto rise sguaiatamente di queste parole. Narice sbuffò e borbottò: «Padron Marco, come devoto musulmano devo protestare contro l'essere paragonato a un porco.» «Spero che eviteresti di accoppiarti con una troia, ma ne dubito» dissi io. «Vi prego, giovane padrone, sto osservando devotamente il Ramazan, che vieta i rapporti sessuali tra uomini e donne di religione musulmana. Devo ammettere che, anche nei mesi in cui sono consentiti, è talora difficile per me farmela con una donna, da quando il mio bel viso venne sfigurato dalla disgrazia toccata al naso.» «Oh, non esagerare» dissi io. «C'è sempre qualche donna abbastanza disperata per essere disposta a tutto. Nel corso della mia vita ho veduto una slava accoppiarsi con un negro e un'araba accoppiarsi con una scimmia.» Narice disse, maestosamente: «Non supporrete, spero, che io sia disposto a soddisfare una donna brutta come me. Ah, ma Jafar... Jafar è avvenente quanto la più bella delle donne.» Ringhiai: «Di' al tuo bel miserabile di vestirsi in fretta e di andarsene, altrimenti lo darò in pasto ai cammelli.» Il bel miserabile mi fissò irosamente, poi rivolse uno sguardo tenero e supplichevole a Narice, che immediatamente mi insultò con una domanda impertinente: «Non vorreste provarlo anche voi, Padron Marco? L'esperienza potrebbe ampliare le vostre conoscenze.» «Amplierò io la tua unica narice!» ringhiai, mettendo una mano sul pugnale che portavo alla cintola. «L'allargherò dappertutto sulla tua laida faccia! Come osi parlare in questo modo con un padrone? Per chi mi hai preso?» «Per un giovane che ha ancora molto da imparare» disse lui. «Siete un viaggiatore, adesso, Padron Marco; e, prima che torniate di nuovo in patria, sarete andato molto più lontano ancora e avrete fatto di gran lunga più esperienze. Quando infine tornerete a Venezia, potrete schernire a buon diritto gli uomini che parlano di montagne alte e di paludi profonde senza aver mai né scalato una montagna né sondato una palude... uomini che non si sono mai avventurati al di là delle loro strette viuzze e delle loro banali abitudini, dei loro cauti passatempi e delle loro miserabili, insignificanti esistenze.» «Sarà forse vero. Ma che c'entra questo con il tuo puttanello?» «Esistono altri viaggi che possono condurre un uomo al di là di tutto ciò che è banale, non in fatto di distanza percorsa, ma in fatto di vastità di comprensione. Riflettete. Avete insultato questo giovane, dandogli del puttanello, mentre egli è soltanto quello che è stato cresciuto e addestrato per essere e quello che ci si aspettava diventasse.» «Un sodomita, allora, se preferisci. Per un cristiano questo è peccaminoso... si tratta di un peccatore e di un peccato da aborrire.» «Io vi chiedo, Padron Marco, di limitarvi a compiere un breve viaggio nel mondo di questo giovane.» Prima che avessi potuto protestare, soggiunse: «Jafar, di' allo straniero come sei stato cresciuto.» Sempre tenendo in mano l'indumento che avrebbe dovuto coprirgli la parte inferiore del corpo e sbirciandomi a disagio, Jafar cominciò: «Oh, giovane Mirza, riflesso della luce di Allah...» «Lascia perdere le adulazioni» intervenne Narice. «Limitati a dire come è stato preparato il tuo corpo al commercio sessuale.»
«Oh, benedizione del mondo» riprovò Jafar «sin dai primi anni che riesco a ricordare, sempre, mentre dormivo, portai, inserito nel mio orifizio inferiore, un golulè, che è un aggeggio fatto di ceramica kashi, una sorta di piccolo cono affusolato. Ogni volta, dopo che avevo completato la toletta prima di andare a letto, il golulè veniva messo entro di me, abbondantemente lubrificato con una sorta di droga per stimolare lo sviluppo del mio badàm. Mia madre o la nutrice, a intervalli lo spingevano sempre più avanti entro di me, e, quando riuscii a contenerlo tutto, esso venne sostituito con un golulè più grosso. Così l'orifizio divenne a poco a poco ampio, ma senza ledere il muscolo della chiusura che lo circonda.» «Grazie per le informazioni» gli dissi, ma con freddezza, e poi, rivolto a Narice, soggiunsi: «Nato o reso tale, un sodomita è pur sempre un abominio.» «Credo che la sua storia non sia ancora finita» disse Narice. «Sopportate di viaggiare ancora un po' più oltre.» «Quando avevo forse cinque o sei anni» continuò Jafar «venni esonerato dall'obbligo di portare il golulè, e il mio fratello maggiore fu invece incoraggiato ad abusare di me ogni qual volta ne aveva voglia e gli si erigeva l'organo.» «Drio de ti!» esclamai, mentre la compassione prevaleva sulla ripugnanza. «Quale orribile infanzia!» «Sarebbe potuta essere peggiore» disse Narice. «Quando un bandito o un mercante di schiavi catturano un fanciullo, e quel fanciullo non è stato così prudentemente preparato, essi lo impalano brutalmente con un picchetto di tenda, per far sì che l'orifizio si adegui all'impiego successivo. Ma ciò lacera il muscolo detto sfintere, e in seguito il fanciullo non riesce più a contenersi e defeca incontrollabilmente. Inoltre, non può più, in seguito, impiegare quel muscolo per causare contrazioni piacevoli durante l'atto. Continua, Jafar.» «Quando mi fui abituato a come si serviva di me quel fratello, un altro fratello maggiore e meglio equipaggiato facilitò il mio ulteriore sviluppo. E quando il badàm fu maturo abbastanza per consentirmi di cominciare a "godere" l'atto, allora mio padre...» «Drio de ti!» tornai ad esclamare. Ma ormai la curiosità aveva prevalso sia sulla ripugnanza, sia sulla compassione. «Che cosa intendi con badàm?» Non ero riuscito a capire quel particolare, poiché la parola badàm significa mandorla. «Non lo sapevate?» mi domandò Narice, sorpreso. «Figurarsi, l'avete anche voi. Ogni maschio ce l'ha. Lo chiamiamo mandorla a causa della forma e delle dimensioni, ma i medici a volte lo chiamano terzo testicolo. E' situato dietro agli altri due, non nello scroto, ma nascosto entro l'inguine. Un dito, o, ehm, qualsiasi altro oggetto inserito abbastanza in profondità nell'ano, strofina questa mandorla e la stimola fino ad una piacevole eccitazione.» «Ah» feci io, illuminato. «Per questo, poco fa, Jafar ha eiaculato, apparentemente senza alcuna carezza né alcuna stimolazione.» «Noi chiamiamo quello spruzzo latte di mandorla» disse Narice, in tono saccente. Poi soggiunse: «Alcune donne ricche di talento e di esperienza sanno dell'esistenza di quest'organo maschile invisibile. In un modo o nell'altro lo solleticano mentre si stanno accoppiando con un uomo, per cui, quando egli eiacula il latte di mandorla, il suo godimento viene beatamente acuito.» Scossi la testa meravigliato e dissi: «Avevi ragione, Narice. Un uomo può imparare cose nuove, viaggiando.» Poi rimisi il pugnale nel fodero. «Per questa volta, almeno, ti perdono il modo impudente con il quale ti sei rivolto a me.» Egli rispose, con affettazione: «Un buono schiavo antepone l'utilità all'umiltà. E ora, Padron Marco, forse vi piacerebbe infilare l'altra vostra arma in un altro fodero? Osservate, vi prego, lo splendido fodero di Jafar...» «Scagaròn!» scattai. «Posso tollerare le costumanze altrui finché mi trovo da queste parti, ma non le condividerò. Anche se la sodomia non fosse un sozzo peccato, preferirei l'amore delle donne.» «L'amore, padrone?» mi fece eco Narice, e Jafar rise nel suo modo sguaiato, e uno dei cammelli ruttò. «Nessuno ha parlato d'amore. L'amore tra uomo e uomo è tutta un'altra cosa, ed io credo che soltanto noi guerrieri musulmani dal cuore ardente possiamo sapere che si tratta della più sublime
tra le emozioni. Dubito che un qualsiasi cristiano predicatore della pace e dal sangue freddo possa essere capace di tale amore. No, padrone, mi limitavo a proporvi un opportuno sfogo, sollievo e soddisfacimento. Da questo punto di vista, che differenza fa un sesso o l'altro?» Sbuffai come un cammello altezzoso. «E' facile dirlo per te, schiavo, in quanto tu non fai alcuna differenza tra un "animale" e un altro. Quanto a me, sono lieto di poter dire che, finché esisteranno donne a questo mondo, non desidererò assolutamente uomini con i quali accoppiarmi. Sono un uomo io stesso, e mi è troppo familiare il mio corpo perché quello di qualsiasi altro maschio possa destare in me il benché minimo interesse. Ma le donne... ah, le donne! Sono così magnificamente diverse da me, e ognuna di loro è così squisitamente diversa dall'altra! Non potrò mai apprezzarle abbastanza!» «Apprezzarle, padrone?» Egli sembrava divertito. «Sì.» Mi interruppi, poi soggiunsi, con la debita solennità: «Una volta ho ucciso un uomo, Narice, ma non saprei mai indurmi a uccidere una donna.» «Siete ancora giovane.» «Sicché, Jafar» dissi, rivolto al giovane, «indossa il resto dei tuoi indumenti e vattene, prima che mio padre e mio zio tornino qui.» «Li ho veduti arrivare un momento fa, Padron Marco» disse Narice. «Sono entrati in casa con l'Almauna Esther.» Così rientrai anch'io e di nuovo mi tese un'imboscata la cameriera Sitare, aprendomi la porta. Sarei andato oltre senza darle ascolto, ma lei mi afferrò per il braccio e bisbigliò: «Non parlate forte.» Dissi, senza bisbigliare: «Non ho niente da dirti.» «Piano. La padrona è qui dentro, e vostro padre e vostro zio si trovano con lei. Quindi non fatevi sentire da loro e rispondetemi. Mio fratello Aziz ed io abbiamo parlato della faccenda, di voi, e...» «Non sono una faccenda!» esclamai, impermalito. «E non gradisco che si parli di me.» «Oh, abbassate la voce, vi prego. Lo sapete che dopodomani è l'Eir-al-Fitr?» «No. Non so nemmeno di che cosa si tratta.» «Domani al tramonto finisce il Ramazan. In quel momento comincia il mese di Shawal, e il primo giorno di quel mese è la Festa dell'Interruzione del Digiuno, quando noi Musulmani siamo liberati dall'astinenza e da ogni restrizione. In qualsiasi momento, dopo il tramonto di domani, voi ed io possiamo lecitamente fare zina.» «Solo che tu sei vergine» le rammentai. «E tale devi conservarti nell'interesse di tuo fratello.» «Proprio di questo abbiamo discusso Aziz ed io. Vorremmo chiedervi un piccolo favore, Mirza Marco. Se acconsentirete, io acconsentirò - ed ho il permesso di mio fratello - a fare zina con voi. Naturalmente, potrete avere anche lui, se vorrete.» Dissi, sospettosamente: «La tua offerta sembra essere un modo considerevole di contraccambiare un piccolo favore. E il tuo diletto fratello sembra davvero fraterno. Non vedo l'ora di conoscere questo piagnucolante e stupido villano.» «Lo avete già veduto. E' lo sguattero di cucina, ha i capelli rosso-scuri come i miei e...» «Non me lo ricordo.» Ma riuscivo a immaginarlo: il gemello del compagno di stalla di Narice, Jafar, un giovane muscoloso e bello, con l'orifizio di una donna, l'intelligenza di un cammello e la stessa moralità di un arnese. «Accennando a un piccolo favore» continuò Sitare «mi riferivo a un piccolo favore reso a me e ad Aziz. Per voi si tratterà di un favore più grande, in quanto ci guadagnerete. Ne ricaverete, in effetti, del denaro.» Ecco una bella fanciulla dai capelli rosso-scuri che mi offriva se stessa e la propria verginità, nonché un compenso in moneta, e per giunta, se lo avessi voluto, suo fratello, considerato ancor più bello di lei. Naturalmente, questo mi ricordò la frase che avevo già udito varie volte, «la sete di sangue della bellezza.» E, naturalmente, ciò mi rese cauto, ma non al punto da rifiutare recisamente la proposta senza aver prima saputo qualcosa di più. «Continua» dissi. «Non adesso. Ecco che viene vostro zio. Zitto.»
«Bene, bene!» tuonò zio Maffeo, avvicinandosi dall'interno più buio della casa. «Stiamo facendo collezione di fiamme, eh?» E la sua nera barba venne suddivisa da un luminoso e bianco sorriso mentre egli si insinuava tra noi e usciva, diretto verso la stalla. La frase di lui conteneva un doppio senso, in quanto che io sapessi la parola «fiamme» può significare, oltre che il fuoco, sia le persone dai capelli rossi, sia le amanti segrete. Supposi pertanto che mio zio avesse scherzato a proposito di quello che doveva avere scambiato per l'amoruccio tra un ragazzo e una ragazza. Non appena egli non poté più udirci, Sitare mi disse: «Domani. Alla porta della cucina, dove vi ho già fatto entrare l'altra volta. A questa stessa ora.» Poi se ne andò a sua volta in qualche stanza in fondo alla casa. Mi feci avanti nel corridoio, verso il salotto nel quale udivo le voci di mio padre e della vedova Esther. Mentre stavo per entrare, il babbo disse, in un tono di voce sommesso e serio: «So che lo avete proposto per buon cuore. Vorrei soltanto che vi foste rivolta prima a me, e a me solo.» «Non avrei mai potuto sospettare una cosa simile» disse lei, a sua volta sommessamente. «E se, come dite, egli si è nobilmente sforzato di ravvedersi, non vorrei aver causato una ricaduta.» «No, no» disse mio padre «voi non potete essere incolpata in alcun modo, anche se la buona azione dovesse avere conseguenze negative. Ne parleremo, ed io domanderò chiaro e tondo se si tratta di una tentazione irresistibile, dopodiché decideremo.» Poi si accorsero della mia presenza e bruscamente accantonarono ciò di cui stavano parlando in privato. Mio padre disse: «Sì, abbiamo fatto bene a sostare per alcuni giorni. Vi sono varie cose che ci occorrono e che non possiamo procurarci nel bazar in questo santo mese. Non appena il Ramazan finirà, domani, riusciremo ad acquistarle, e nel frattempo il cammello azzoppato sarà guarito e il giorno successivo potremo ripartire. Non riuscirei mai a ringraziarvi abbastanza per la vostra ospitalità durante questo soggiorno.» «Oh, a proposito» disse lei «ho quasi finito di cucinare il pasto serale per voi. Non appena sarà pronto ve lo porterò.» Mio padre ed io andammo insieme nel fienile e vi trovammo lo zio Maffeo intento a esaminare i fogli del Kitab. Egli alzò gli occhi e disse: «La nostra prossima meta, Mashhad: non sarà facile giungervi. Non abbiamo altro che deserto davanti a noi, una vastissima distesa di deserto. Ci rinsecchiremo e ci raggrinziremo come un baccalà.» Si interruppe per grattarsi vigorosamente il lato interno del gomito sinistro. «Qualche maledetto insetto mi ha morso e ora sento un gran prurito.» «La vedova» osservai «mi ha detto che questa città è infestata dagli scorpioni.» Zio Maffeo mi scoccò un'occhiata di scherno. «Se per caso dovesse pungerti uno scorpione, asenazzo, impareresti che gli scorpioni non "mordono". No, questa era una mosca minuscola, dalla forma perfettamente triangolare. Talmente piccola da far sembrare impossibile che possa essere la causa di un prurito così tormentoso.» La vedova Esther attraversò varie volte il cortile per portarci i piatti del pasto, e noi tre mangiammo, chinandoci nel frattempo sul Kitab. Narice cenò per suo conto, nella stalla sottostante, tra i cammelli, masticando rumorosamente come quelle bestie. Cercai di ignorare i suoni che causava e di concentrarmi sulle carte geografiche. «Hai ragione, Maffeo» disse mio padre. «La parte più vasta del deserto da attraversare. Dio ci aiuti.» «Ciò nonostante, è un itinerario facile da seguire. Mashhad si trova lievemente a nord-est rispetto a qui. In questa stagione dovremo soltanto orientarci sul sorgere del sole, ogni mattina.» «Ed io» intervenni «controllerò spesso la direzione con il nostro kamàl.» «Vedo» disse mio padre «che Al-Idrisi non segna un solo pozzo, né una sola oasi, né un solo karwansarai in questo deserto.» «Eppure qualcosa dovrà esserci. E' una via di traffici, in fin dei conti. Mashhad, come Bagdad, costituisce una tappa importante lungo la Via della Seta.» «Ed è una città grande come Kashan, mi ha detto la vedova. Inoltre, grazie a Dio, è situata tra fresche montagne».
«Ma al di là di essa troveremo altre montagne davvero gelide. Probabilmente saremo costretti a sostare in qualche posto durante l'inverno.» «Be', non possiamo aspettarci di viaggiare per il mondo avendo sempre il vento in poppa.» «Per giunta non ci troveremo in un territorio noto a te e a me, Niccolò, finché non saremo arrivati a Kashgar, nello stesso Catai.» «Per il momento, non facciamo troppi progetti e non stiamo a crucciarci al di là di Mashhad» concluse.
3. L'indomani, l'ultimo giorno del Ramazan, lo trascorremmo per la massima parte limitandoci a oziare nella casa della vedova. Credo di aver dimenticato di accennare al fatto che, nei paesi musulmani, l'inizio della giornata non parte dall'alba, come ci si potrebbe aspettare, o dalla mezzanotte, come nei paesi civilizzati, bensì dal momento in cui il sole tramonta. In ogni modo sarebbe stato inutile da parte nostra recarci nel bazar, come aveva fatto rilevare mio padre, finché non fosse nuovamente rifornito di mercanzie da acquistare. Pertanto non ci rimaneva altro da fare che foraggiare e abbeverare i cammelli ed eliminare dalla stalla i loro escrementi. Naturalmente, a questo pensò Narice e, su richiesta della vedova, egli li sparpagliò nell'orto. Di tanto in tanto, io, mio padre e mio zio uscimmo e andammo a passeggiare nelle vie della città. Altrettanto fece Narice, negli intervalli tra le sue incombenze, riuscendo così, non ne dubito affatto, a godersi qualche altro dei suoi osceni accoppiamenti. Quando andai a passeggiare in città nel tardo pomeriggio vidi un gruppo di persone in piedi all'angolo, ove due strade si intersecavano. Erano quasi tutte persone giovani: maschi di bell'aspetto e femmine indefinibili. Supposi che si limitassero all'occupazione prediletta in Oriente, che consiste nel rimanere in piedi a guardarsi attorno o, nel caso degli uomini orientali, nel rimanere in piedi a guardarsi attorno e a grattarsi l'inguine; ma poi udii una voce cantilenante scaturire dal centro del capannello. Pertanto mi fermai, unendomi agli altri, e a poco a poco riuscii a insinuarmi tra la ressa finché mi fu possibile scorgere l'oggetto di tanta attenzione. Si trattava di un vecchio che sedeva a terra con le gambe incrociate: uno sha'ir, o poeta, e divertiva la gente narrando una storia. Di tanto in tanto, evidentemente quando pronunciava una frase particolarmente poetica e felice, uno degli astanti lasciava cadere una monetina nella tazza per le elemosine, posata al suolo accanto a lui. La mia conoscenza del farsi non era tale da consentirmi di apprezzare le sottigliezze poetiche, ma era sufficiente perché riuscissi a seguire il filo del racconto; e, poiché si trattava di un racconto interessante, rimasi lì ad ascoltare. Lo sha'ir stava dicendo come si determinano i sogni. Agli Inizi, disse, tra tutte le varie sorte di spiriti che esistono (i jinn e gli afrit e le peri e così via) v'era uno spirito chiamato Sonno. Incaricato, allora come adesso, di tale condizione di riposo in tutte le creature viventi. Orbene, Sonno aveva un intero sciame di figli che si chiamavano Sogni, ma, in quei tempi remoti, né Sonno né i suoi figli avevano mai pensato che i Sogni potessero entrare nella testa della gente. Un giorno, però, poiché la giornata era splendida e poiché Sonno non aveva un granché da fare nelle ore di luce, il bravo spirito decise di condurre tutti i suoi figlioli e le sue figliole a trascorrere una giornata di vacanza sulla riva del mare. E là li lasciò salire su una piccola barca che trovarono e teneramente stette a guardare mentre si allontanavano a remi sull'acqua, fino a breve distanza. Sfortunatamente, così disse il vecchio poeta, lo spirito Sonno aveva in precedenza offeso, in qualche modo, il possente spirito chiamato Tempesta, e Tempesta aspettava l'occasione per vendicarsi. Così, quando i piccoli Sogni di Sonno si avventurarono sul mare, il malevolo Tempesta sferzò l'acqua tramutandola in una furia spumeggiante, e causò un vento formidabile e spinse la fragile barca molto al largo nell'oceano, facendola fracassare sulle scogliere di un'isola deserta denominata Noia.
Da quei tempi remoti in poi, disse lo sha'ir, tutti i fanciulli e le fanciulle Sogno sono naufragati su quella squallida isola. (E voi tutti sapete, egli soggiunse, quanto diventano irrequieti i bambini quando sono assoggettati all'ozio di Noia.) Durante il giorno, i poveri Sogni devono sopportare il monotono esilio dal mondo vivente. Ma ogni notte - al-hamdo-lillah! - lo spirito Tempesta, a quanto pare, perde il proprio potere, poiché la notte è affidata al più benevolo spirito Luna. I fanciulli Sogno possono allora, con estrema facilità, sottrarsi per qualche tempo alla Noia. E così fanno. Si allontanano dall'isola, si aggirano per il mondo e passano il tempo entrando nella mente degli uomini e delle donne che stanno dormendo. Ecco perché, disse lo sha'ir, in qualsiasi notte, ogni persona addormentata può essere istruita, o divertita, o ammonita, o spaventata da un Sogno, a seconda che quel particolare Sogno, in quella particolare notte, sia una benevola bambina Sogno, o un dispettoso bambino Sogno, e a seconda dell'umore in cui si trovano i bambini. Tutti gli ascoltatori emisero suoni di soddisfazione udendo la fine del racconto, e una vera e propria pioggia di monetine cadde nella tazza del vecchio. A mia volta vi lasciai cadere uno shahi di rame, in quanto avevo trovato la storia divertente, e non incredibile come tanti altri stupidi miti dell'Oriente. Mi sembrava infatti assolutamente logica l'idea che si faceva il poeta degli innumerevoli bambini Sogno di entrambi i sessi, dall'indole irrequieta e mutevole e dai modi intriganti. Quest'idea poteva persino far pensare a una spiegazione accettabile di certi fenomeni che si determinano spesso in Occidente e che, pur essendo provati, non sono mai stati chiariti prima d'ora. Mi riferisco alle paventate visitazioni notturne dell'incubo che seduce donne altrimenti caste, e del succubo, che seduce sacerdoti altrimenti casti. Quando il tramonto segnò la fine del Ramazan, mi trovavo alla porta di cucina della casa appartenente alla vedova Esther, e Sitare mi fece entrare. Lei ed io eravamo lì soli, ed ella sembrava essere dominata da un'eccitazione a malapena repressa; gli occhi le scintillavano, le mani le tremavano. Si era messa quelli che dovevano essere i suoi vestiti più belli, truccandosi inoltre con al-kohl sulle palpebre e con succo di more sulle labbra, ma il rossore acceso che aveva sulle gote non era stato causato da un vasetto di cosmetico. «Ti sei vestita per il giorno di festa» dissi. «Sì, ma anche per far piacere a voi. Non starò a nascondervelo, Mirza Marco. Ho detto che sono lieta di essere l'oggetto del vostro ardore, ed è vero. Guardate, ho preparato un giaciglio per noi, là nell'angolo. E mi sono accertata che la padrona e gli altri servi siano tutti occupati altrove, così non ci disturberanno. Sinceramente, aspetto con impazienza il nostro...» «Aspetta un momento» dissi, ma debolmente. «Non ho accettato nessun patto. Tu sei bella abbastanza per far venire l'acquolina in bocca a qualsiasi uomo, e a me è venuta, ma prima devo sapere una cosa. Qual è questo favore in cambio del quale saresti disposta a concederti?» «Siate paziente per un momento appena, poi ve lo dirò. Vorrei che risolveste prima un indovinello.» «E' un'altra costumanza locale?» «Mettetevi soltanto a sedere su questa panca. Tenete le mani ai fianchi... tenetevi alla panca, così da non avere la tentazione di toccarmi. Ora chiudete gli occhi. Strettamente. E teneteli chiusi finché non ve lo dirò io.» Con una spallucciata, feci come lei voleva e la udii muoversi per qualche momento qua e là. Poi Sitare mi baciò sulle labbra, in un modo timido e inesperto e fanciullesco, ma quanto mai deliziosamente e a lungo. Mi eccitò al punto da farmi venire un vero e proprio capogiro. Se non mi fossi tenuto alla panca avrei potuto dondolare da un lato all'altro. Aspettai poi che ella parlasse. Invece mi baciò di nuovo, come se la pratica le facesse apprezzare la cosa molto di più, e questa volta il bacio fu assai più lungo. Seguì una nuova pausa ed io mi aspettai un terzo bacio; invece, a questo punto, ella disse: «Aprite pure gli occhi.» Li aprii e le sorrisi. Si trovava proprio di fronte a me. Il rossore delle gote si era diffuso su tutto il viso, gli occhi erano splendenti, le labbra, simili a un bocciuolo di rosa, sorridevano ed ella subito mi domandò: «Sapreste distinguere i due baci?» «Distinguerli? Oh bella, no» risposi, galante. E soggiunsi, con quello che, secondo me, poteva essere lo stile di un poeta persiano: «Come può un uomo dire, di profumi ugualmente soavi, o di
sapori ugualmente inebrianti, quale è migliore dell'altro? Si limita a desiderarne ancora. Ed io ne voglio ancora! Ancora!» «E altri ne avrete. Ma da me? Sono stata io a baciarvi per prima. Oppure li volete da Aziz, che vi ha baciato dopo?» A queste parole, dondolai sul serio sulla panca. Ella portò allora una mano dietro di sé, scostando suo fratello e mostrandomelo, ed io fui preso da un capogiro ancora più forte. «Ma è soltanto un bimbetto!» «E' il mio fratellino Aziz.» Non ci si poteva stupire se non lo avevo notato tra gli altri servi della casa. Non poteva avere più di otto o nove anni e per giunta era piccolino per la sua età. Ma, una volta che si fosse notato Aziz, sarebbe stato difficile ignorarlo ancora. Come tutti i fanciulli della città che avevo veduto, era un Cupido alessandrino, ma ancor più bello della norma a Kashan, proprio come sua sorella era la più bella fanciulla che avessi veduto in quella città. Incubo e succubo, pensai freneticamente. Poiché continuavo a rimanere seduto sulla bassa panca, i miei occhi e i suoi si trovavano alla stessa altezza. E gli azzurri occhi di lui, limpidi e solenni, sembravano, nel viso minuto, ancor più grandi e più luminosi di quelli della sorella. La bocca era un bocciuolo di rosa identico a quello di lei. Il corpo aveva forme perfette, fino alle minuscole dita affusolate. I capelli erano dello stesso rossocastano scuro di quelli della sorella e la pelle aveva lo stesso color avorio. La bellezza del bambino veniva ulteriormente accentuata da un'applicazione di al-kohl sulle palpebre e di succo di more sulle labbra. Ritenni che fossero aggiunte superflue, ma non ebbi il tempo di dirlo poiché Sitare riprese a parlare. «Ogni volta che, quando sono libera dal servizio per la padrona, posso truccarmi con i cosmetici» parlava rapidamente, come per impedirmi di dire qualsiasi cosa - «mi piace truccare nello stesso modo anche Aziz.» Di nuovo prevenendo un mio commento, disse: «Qua, lasciate che vi mostri una cosa, Mirza Marco.» Con gesti frettolosi e dita annaspanti, sciolse e tolse la blusa che indossava suo fratello. «Essendo un maschio, naturalmente non ha i seni, ma osservate come sono delicatamente formati e sporgenti i capezzoli.» Li fissai, poiché erano colorati di un rosso vivido con l'henné. Sitare soggiunse: «Non sono molto simili ai miei?» Spalancai ulteriormente gli occhi, poiché, così dicendo, ella si era strappata di dosso la parte superiore delle vesti e mi stava mostrando i seni, dai capezzoli colorati con l'henné, affinché li paragonassi. «Vedete? I suoi sono eccitati ed eretti, proprio come i miei.» Continuò ancora a cicalare, sebbene io fossi già incapace di interromperla. «Inoltre, essendo maschio, Aziz, naturalmente, ha qualcosa che io non ho.» Sciolse il cordone del pi-jamah del bambino, lasciò che l'indumento scivolasse giù e si inginocchiò accanto al fratello. «Non è un perfetto zab in miniatura? E guardate quando lo accarezzo. Proprio come un piccolo uomo. Ora osservate questo.» Fece voltare il bambino e, con le mani, gli divaricò le rosee natiche a fossette. «Nostra madre è sempre stata meticolosa nel servirsi del golulè e, dopo la sua morte, io lo sono stata altrettanto, per cui ora potete vedere il superbo risultato.» Con un altro rapido movimento, e senza alcuna timidezza verginale, lasciò cadere il proprio pi-jamah. Si voltò e si chinò il più possibile, per cui potei vedere la parte intima di lei che non era nascosta da una peluria rosso-scura. «La mia è un po' più lunga, per lo spessore di due o tre dita, ma riuscireste davvero a distinguere tra la mia mihrab e il suo...?» «Basta!» riuscii infine a dire. «Stai cercando di indurmi al peccato con questo bambino!» Ella non lo negò, ma lo negò il bambino. Aziz tornò a voltarsi verso di me e parlò per la prima volta. La sua voce sembrava quella musicale ed esile di un uccello canoro, ma era ferma. «No, Mirza Marco. Mia sorella non vi importuna, ed io nemmeno. Credete davvero che potrei mai esservi costretto?» Colto di sorpresa da una domanda così diretta, dovetti rispondere: «No.» Ma poi chiamai a raccolta i miei princìpi cristiani e dissi, in tono di accusa: «Esibirsi è reprensibile come importunare. Quando avevo la tua età, bambino, conoscevo a malapena la funzione "normale" dei miei organi. Mai, Dio
me ne scampi, li avrei esibiti in modo così consapevole e perfido e... e... vulnerabile. Soltanto rimanendo lì in piedi nudo sei peccaminoso.» Aziz parve risentito come se lo avessi schiaffeggiato, e corrugò le sopracciglia, in preda a una manifesta perplessità. «Sono ancora molto piccolo, Mirza Marco, e forse ignorante, perché nessuno mi ha ancora insegnato in qual modo si può essere peccaminosi. Mi hanno insegnato soltanto come essere al-fa'il o al-mafa'ul, a seconda delle circostanze.» Sospirai. «Ahimè, dimenticavo di nuovo le costumanze locali.» Pertanto, accantonai momentaneamente i miei princìpi a favore della franchezza e dissi: «Come colui che fa o colui cui viene fatto, probabilmente riusciresti a far dimenticare a un uomo che si tratta di un peccato. E se per te non lo è, allora mi scuso per averti accusato ingiustamente.» Aziz mi rivolse un sorriso talmente radioso che tutto il suo piccolo corpo nudo parve risplendere nella cucina man mano più buia. Soggiunsi: «Mi scuso inoltre per aver pensato altre cose ingiuste di te, Aziz, senza conoscerti. Al di là di ogni dubbio, tu sei il bambino più splendido e più seducente che abbia mai veduto, dell'uno o dell'altro sesso, e più desiderabile di tante donne adulte che ho conosciuto. Sei come uno di quei fanciulli-Sogno dei quali ho sentito narrare di recente. Saresti una tentazione anche per un cristiano, in assenza di tua sorella, qui. Ma, accanto alla desiderabilità di "lei", a te, capisci, spetta soltanto il secondo posto.» «Capisco» disse, sempre sorridendo, «e sono d'accordo.» Sitare, a sua volta una figuretta di lucente alabastro nella luce crepuscolare, mi osservò con un certo stupore. Alitò, quasi incredula: «Continuate a volere "me"?» «Moltissimo. Tanto, in effetti, da indurmi a pregare affinché il favore che tu desideri rientri nelle mie possibilità.» «Oh, vi è possibile senz'altro.» Ella prese i vestiti che si era tolta e li tenne affagottati davanti a sé, affinché non venissi distratto dalla sua nudità. «Chiediamo soltanto che conduciate Aziz con voi, nella vostra karwan, e soltanto fino a Mashhad.» Battei le palpebre. «Perché?» «Avete detto voi stesso che non vi è mai capitato di vedere un bambino più bello e più seducente. E a Mashhad convergono molte vie di traffici, è un luogo che offre grandi possibilità.» «Quanto a me, non ci tengo molto ad andare» disse Aziz. Anche la sua nudità mi turbava e pertanto raccattai i vestiti di lui e glieli diedi affinché li tenesse dinanzi a sé. «Non voglio abbandonare mia sorella, la sola parente che mi rimanga. Ma lei mi ha persuaso che è tutto per il meglio.» «Qui a Kashan» continuò Sitare «Aziz non è che uno degl'innumerevoli ragazzetti graziosi, i quali cercano tutti di farsi notare da qualche fornitore di anderun di passaggio. Nel migliore dei casi, Aziz può sperare di essere scelto da uno di quegli uomini, e di diventare il concubino di qualche nobile, il quale potrebbe risultare una persona perfida e viziosa. Ma a Mashhad potrebbe essere presentato a qualche ricco mercante che viaggia e il mercante potrebbe apprezzarlo e acquistarlo. Aziz potrebbe iniziare la carriera come concubino del mercante; ma, in questo modo, avrebbe la possibilità di viaggiare, e con il tempo potrebbe essere qualcosa di molto meglio di un semplice trastullo dell'anderun.» L'idea di trastullarmi campeggiava nella mia mente, in quel momento. Sarei stato felicissimo di concludere la conversazione e di cominciare a fare altre cose. Ciò nonostante, mi stavo inoltre rendendo conto di una verità, come, ritengo, non accade a molti viaggiatori. Noi che vagabondiamo ovunque nel mondo, sostiamo per breve tempo nell'una o nell'altra comunità, e ogni volta si tratta soltanto di un lampo di vaghe impressioni in una lunga serie di altrettanto obliabili lampi. Le persone non sono altro che fioche figure le quali emergono soltanto momentaneamente tra i nuvoloni di polvere delle piste. Noi viaggiatori abbiamo di solito una meta e uno scopo che ci induce a raggiungerla, e ogni sosta lungo il cammino non è altro che una nuova pietra miliare del viaggio. Ma in realtà, le persone che risiedono in quei luoghi vi si trovavano prima del nostro arrivo e continueranno a restarvi dopo la nostra partenza; hanno una loro vita, fatta
di speranze e crucci e ambizioni e progetti, che, essendo di grande momento per loro, meriterebbe a volte di essere notata anche da noi, sebbene siamo di passaggio. Potremmo imparare qualcosa che vale la pena sapere, o goderci una risata divertita, o conservare un dolce ricordo che vale la pena di tesoreggiare, o talora migliorare addirittura noi stessi, prendendo in considerazione queste cose. Pertanto prestai una comprensiva attenzione alle parole malinconiche e ai volti radiosi di Sitare e di Aziz, mentre parlavano dei loro progetti, delle loro ambizioni e delle loro speranze. E sempre, da allora in poi, nel corso di tutti i miei viaggi, ho invariabilmente tentato di vedere nella sua interezza ogni località, anche la più trascurabile, attraverso la quale passavo e di osservarne sia pure gli abitanti più umili con sguardi non frettolosi. «Pertanto vi chiediamo solamente» concluse la ragazza «di condurre con voi Aziz fino a Mashhad, e di cercare a Mashhad un mercante karwan che sia facoltoso e di buon carattere e che abbia altre qualità...» «Qualcuno come voi, Mirza Marco» intervenne il bambino. «... per vendergli Aziz.» «Vendere tuo fratello?» esclamai. «Non potete semplicemente condurlo laggiù e abbandonarlo, un bimbetto solo in una città sconosciuta. Vorremmo che lo affidaste al miglior padrone possibile. E, come vi ho detto, ricaverete un utile dalla vendita. Per il disturbo che vi sarete preso conducendolo con voi e cercando il giusto acquirente, potrete trattenere l'intera somma che ricaverete. Il prezzo di un così bel bambino dovrebbe essere altissimo. Non vi sembra abbastanza equa, la proposta?» «Più che equa» dissi. «Può darsi che riesca a persuadere mio padre e mio zio, ma non sono in grado di promettertelo. In fin dei conti, sono soltanto uno dei tre nel gruppo. Devo sottoporre la proposta agli altri due.» «Questo dovrebbe bastare» disse Sitare. «La nostra padrona ha già parlato con loro. Anche Mirza Esther desidera che il piccolo Aziz venga incamminato lungo una strada migliore nella vita. Mi risulta che vostro padre e vostro zio stanno già riflettendo sulla proposta. E pertanto, se voi sarete d'accordo, il vostro assenso potrebbe essere proprio decisivo.» Dissi, sinceramente: «E' probabile che il parere della vedova abbia più peso del mio. Così stando le cose, Sitare, perché eri decisa» - feci un gesto, indicando la sua nudità - «ad arrivare a questi estremi allo scopo di persuadere me?» «Be'...» fece lei, sorridendo, e scostò il fagotto dei vestiti per consentirmi di contemplare ancora il corpo senza impedimenti, «speravo che sareste stato "molto" piacevole...» Sempre sinceramente, dissi: «Lo sarei, senz'altro. Ma vi sono alcuni altri aspetti che dovresti prendere in considerazione. In primo luogo, dobbiamo attraversare un deserto pericoloso e disagevole. Si tratta di un luogo ostile per ogni essere umano, figurarsi poi per un bimbetto. Come ognuno sa, il demonio Satana si manifesta soprattutto, ed è più che mai potente, nei luoghi deserti. Per l'appunto nei deserti si recano i santi cristiani, soltanto per mettere alla prova la forza della loro fede... e mi riferisco ai Cristiani dalla devozione più sublime, come Sant'Antonio. I mortali che non sono santi si espongono, nei deserti, ai più grandi pericoli.» «Forse è così, ma ci vanno ugualmente» disse il piccolo Aziz, che non sembrava affatto turbato dalla prospettiva. «E poiché io non sono cristiano, i pericoli potrebbero essere minori per me. Potrei persino essere una sorta di protezione per voi.» «Del nostro gruppo fa già parte un altro che non è cristiano» dissi in tono aspro. «E anche questa è una cosa della quale dovreste tener conto. Il nostro cammelliere è una bestia, che suole accoppiarsi con le più sozze tra le altre bestie. Tentarne l'indole bestiale con un bambino desiderabile e accessibile...» «Ah» fece Sitare. «Deve essere stata questa l'obiezione mossa da vostro padre. Mi sono accorta che qualcosa preoccupava la padrona. Allora Aziz deve promettere di evitare la bestia, e voi dovete promettere di tenere d'occhio Aziz.» «Rimarrò sempre al vostro fianco, Mirza Marco» dichiarò il bimbetto. «Giorno e notte.»
«Aziz può non essere casto in base ai vostri criteri» continuò sua sorella. «Ma non è neppure un libertino. Finché rimarrà con voi sarà soltanto vostro e non solleverà né lo zab, né le natiche, e nemmeno gli sguardi su alcun altro uomo.» «Apparterrò soltanto a voi, Mirza Marco» asserì il bambino, con quella che sarebbe potuta essere una innocenza incantevole, se non avesse scostato il fagotto dei vestiti, come aveva fatto Sitare, per consentirmi di saziare gli occhi. «No, no, no» dissi, alquanto agitato. «Aziz, devi promettere di non tentare "alcuno" di noi. Il nostro schiavo è soltanto una bestia, ma noi tre siamo cristiani! Dovrai essere "totalmente" casto, Aziz, da qui a Mashhad.» «Se è questo che desiderate» disse il bambino, ma parve avvilito. «Allora lo giuro. Lo giuro sul nome del Profeta (pace e benedizioni scendano su di Lui).» Scettico, domandai a Sitare: «E' vincolante, questo giuramento, per un bambino imberbe?» «Certo che lo è» rispose lei, guardandomi di traverso. «Il vostro monotono viaggio nel deserto non sarà rallegrato in alcun modo. Voi Cristiani dovete ricavare un qualche piacere morboso dalla ripulsa del piacere. Ma sia come volete. Aziz, puoi rivestirti.» «Anche tu, Sitare» dissi io, e, se Aziz era sembrato avvilito, lei parve colpita dal fulmine. «Ti assicuro, cara figliola, che lo dico malvolentieri, ma con le migliori intenzioni.» «Non capisco. Se vi assumete voi la responsabilità di mio fratello, il fatto che io rimanga vergine non può più avvantaggiarlo in alcun modo. Pertanto vi offro la mia verginità, e con gratitudine.» «E io, ringraziandoti di cuore, la rifiuto. Per una ragione che, ne sono certo, tu conosci, Sitare. Infatti, quando tuo fratello partirà, che cosa sarà di te?» «Che importa? Io sono soltanto una femmina.» «Con un corpo "splendidamente" femminile. Pertanto, una volta sistemato Aziz, potrai offrire te stessa, per migliorare la tua sorte. Un buon mantenimento, o il concubinaggio, o qualsiasi altra cosa tu possa conseguire. Ma so bene che una donna non può ottenere molto se non è intatta. Pertanto ti lascerò la verginità.» Lei e Aziz mi fissarono entrambi, e il bambino mormorò: «In verità, i Cristiani sono divané.» «Alcuni sì, senza dubbio. Altri cercano di comportarsi come dovrebbero fare i Cristiani.» Lo sguardo di Sitare divenne più dolce ed ella disse, con una voce tenera: «Forse alcuni vi riescono.» Ma poi, di nuovo provocante, scostò il fagotto dei vestiti dal proprio bel corpo. «Siete sicuro di voler rifiutare? Siete fermo in questa generosa decisione?» Risi, ma ero scosso. «Non sono fermo affatto. E proprio per questo consentimi di andarmene subito. Parlerò con mio padre e mio zio della possibilità di condurre Aziz con noi.» Non occorse molto tempo per consultarli, in quanto si trovavano nella stalla e ne stavano parlando proprio in quel momento. «Sicché, come vedi» disse zio Maffeo a mio padre «anche Marco è favorevole a consentire al bambino di venire con noi. Siamo dunque in due a votare sì contro un solo voto incerto.» Il babbo si accigliò e fece scorrere le dita tra i peli della barba. «Faremo una buona azione» dissi io. «Come possiamo rifiutarci di compiere una buona azione?» domandò zio Maffeo. Mio padre citò, borbottando, un antico adagio: «Santa Carità è morta e sua figlia Clemenza è inferma.» Lo zio ribatté con un altro adagio: «Smetti di credere ai santi e loro smetteranno di compiere miracoli.» Poi si sbirciarono a vicenda nel silenzio di un punto morto, finché io mi azzardai a intervenire. «Ho già avvertito il bambino della probabilità che venga molestato.» Entrambi volsero lo sguardo su di me e parvero stupiti. «Sapete» farfugliai, a disagio, «la tendenza di Narice è proprio quella di combinarne di tutti i colori.» «Oh,» disse mio padre «c'è anche questo.»
Mi fece piacere il fatto che non sembrasse troppo preoccupato, in quanto non volevo essere io a rivelare l'indecenza più recente dello schiavo, facendo sì, con ogni probabilità, che egli venisse tardivamente percosso. «Ho fatto promettere ad Aziz» soggiunsi «di guardarsi da ogni approccio sospetto. E gli ho promesso che lo terrò d'occhio. Quanto al modo di portarlo, il cammello con il carico non è troppo appesantito, e il bambino pesa pochissimo. Sua sorella si è dichiarata disposta a lasciare a noi quella qualsiasi somma che potremo ricavare vendendolo, e dovrebbe trattarsi di una somma ingente. Però penso che dovremmo limitarci a dedurre il costo del mantenimento e consegnare il resto al bambino. Come una sorta di lascito, con il quale possa cominciare la sua nuova vita.» «Ecco, dunque» esclamò zio Maffeo, grattandosi di nuovo il gomito. «Il bambino ha un cammello da cavalcare e un tutore che lo proteggerà. Pagherà di tasca sua il viaggio fino a Mashhad, e si guadagnerà per giunta una dote ! Non può esservi alcun'altra obiezione.» Mio padre disse, con solennità: «Se lo prendiamo con noi, Marco, sarai tu ad essere responsabile. Garantisci di tenere il bambino lontano da ogni male?» «Sì, padre» risposi, e portai, significativamente, la mano sul pugnale. «Ogni male dovrà toccare a me, prima che a lui.» «Hai udito, Maffeo.» Mi resi conto che dovevo essermi assunto un impegno solenne e gravoso, in quanto il babbo invitava lo zio ad esserne testimone. «Ho udito, Nico.» Mio padre sospirò, volse lo sguardo dall'uno all'altro di noi, per qualche momento ancora si lisciò la barba, e infine disse: «Allora verrà con noi. Va, Marco, a dirglielo. Di' a sua sorella e alla vedova Esther di preparare quel che Aziz dovrà portare con sé.» Così Sitare ed io approfittammo dell'occasione per un diluvio di baci e di carezze, e l'ultima cosa che ella mi disse fu: «Non dimenticherò, Mirza Marco. Non dimenticherò voi, né la bontà della quale avete dato prova con noi due, né il fatto che avete pensato alla mia sorte, in seguito. Ci terrei moltissimo a compensarvi... e con quello cui avete così galantemente rinunciato. Se doveste passare di nuovo da questa parte...»
4. Ci era stato detto che avremmo attraversato il Dasht-e-Kavir nella stagione più favorevole dell'anno. Non sopporterei di doverlo attraversare nella stagione peggiore. Partimmo che era autunno inoltrato, con il sole non infernalmente caldo; ma, anche senza incidenti, il viaggio non sarebbe stato affatto piacevole. Fino a quel momento avevo supposto che una lunga traversata per mare fosse il più immutabile e tedioso e interminabile e monotono tra tutti i viaggi possibili, per lo meno quando non veniva reso tremendo dalle tempeste. Ma attraversare il deserto è tutto questo e per giunta si soffre la sete, si è tormentati dai pruriti, ci si gratta, si soffoca, ci si sente riarsi, l'elenco delle orrende sofferenze potrebbe continuare all'infinito. E l'elenco continua, come un'interminabile nenia di imprecazioni, nella mente istupidita di chi viaggia nel deserto, mentre interminabilmente egli arranca da un monotono orizzonte, attraverso una superficie piatta e monotona, fino ad un altro monotono orizzonte che sempre sembra indietreggiare dinanzi a lui. Quando partimmo da Kashan eravamo di nuovo vestiti in vista di un viaggio faticoso. Non portavamo più sul capo l'ordinato turbante persiano, né indossavamo abiti sfarzosamente ricamati. Eravamo una volta di più ampiamente avvolti dai copricapi kaffiyah arabi e dagli ampi mantelli aba, quella tenuta meno elegante, ma più pratica, che non aderisce al corpo, ma si gonfia liberamente, consentendo la dispersione del calore e del sudore e che non ha pieghe entro le quali possa accumularsi la sabbia portata dal vento. Quanto ai cammelli, erano festonati dappertutto con otri di cuoio contenenti buona acqua di Kashan e con sacchi pieni di carne secca di montone, di frutta secca e del friabile pane locale. (Per procurarci queste provviste avevamo dovuto aspettare che il
bazar si rifornisse dopo il Ramazan). Avevamo inoltre acquistato a Kashan alcune nuove attrezzature da portare con noi: paletti lisci e rotondi e lunghe pezze di tessuto leggero, con gli orli cuciti in modo da formare una guaina. Inserendo i paletti in queste guaine, potevamo ricavare rapidamente, da quei teli, tende ognuna delle quali grande abbastanza per ospitare comodamente una persona, o, se necessario, anche due, in una più scomoda intimità. Prima ancora della partenza da Kashan, avevo ammonito Aziz a non lasciarsi mai allettare dal nostro schiavo Narice all'interno di una tenda o in qualsiasi altro luogo non visibile da noi, e a riferirmi ogni altra eventuale forma di approccio da parte del cammelliere. Narice, infatti, vedendo per la prima volta il bambino tra noi, aveva spalancato gli occhi porcini fino a dimensioni quasi umane, e dilatato l'unica narice come se stesse fiutando una preda. Quel primo giorno, inoltre, Aziz era rimasto per qualche momento nudo in nostra compagnia, e Narice si era aggirato lì attorno, adocchiandolo cupido, mentre io aiutavo il bambino a togliersi le vesti persiane che gli aveva fatto indossare la sorella e gli insegnavo a vestirsi all'araba, con kaffiyah e aba. Pertanto ammonii severamente anche Narice e giocherellai in modo significativo con il pugnale che portavo alla cintola mentre gli facevo la predica; lui non lesinò le promesse di ubbidienza. Non mi sarei fidato di certo delle promesse dello schiavo, eppure, come poi risultò, egli non molestò mai il fanciullo. Non ci trovavamo da moltissimi giorni nel deserto quando Narice cominciò a soffrire manifestamente di qualche doloroso disturbo alle sue parti intime. Se, come sospettavo, lo schiavo aveva deliberatamente azzoppato uno dei cammelli per costringerci a sostare a Kashan, ora un altro di quegli animali si stava vendicando. Ogni qual volta il cammello di Narice faceva un passo falso, causandogli un sobbalzo, lo schiavo si lasciava sfuggire un grido acuto di sofferenza. Ben presto egli imbottì la sella con tutto ciò che riuscì a trovare di soffice nei nostri fardelli. Ma poi, ogni qual volta si allontanava dall'accampamento per fare acqua, potevamo udirlo gemere e agitarsi e lanciare veementi imprecazioni. «Uno dei ragazzi dì Kashan deve averlo contagiato con lo scolo» disse lo zio Maffeo, beffardo. «Gli sta bene. Perché, oltre a non essere virtuoso... non sa discriminare.» Fino ad allora io non ero mai stato analogamente contagiato, e per questo ringraziavo più la fortuna che la mia virtù o la capacità di discriminare. Ciò nonostante, avrei potuto dar prova di una più cameratesca comprensione con Narice, e avrei riso meno del suo guaio se non fossi stato contento perché lo zab di lui gli causava afflizioni e non la tentazione di metterlo nel mio giovane protetto. La malattia dello schiavo si attenuò a poco a poco e in ultimo egli guarì senza che, apparentemente, l'esperienza gli avesse insegnato qualcosa; ma, nel frattempo, altri eventi avevano posto Aziz al di là della minaccia della sua lussuria. Una tenda, o un qualche rifugio simile a una tenda, costituisce una necessità assoluta nel Dasht-eKavir, poiché un uomo non può, semplicemente, distendersi per dormire avvolto nelle coperte, altrimenti la sabbia lo coprirebbe prima che si destasse. La maggior parte di quel deserto può essere paragonata al gigantesco vassoio di un gigantesco fardarbab che predice l'avvenire. Trattasi di una sconfinata distesa di liscia sabbia color fulvo, una sabbia talmente fine che scorre tra le dita come acqua. Negli intervalli tra l'una e l'altra tempesta di vento, la sabbia rimane liscia e virginalmente senza impronte di sorta, come quella nel vassoio dei vecchi fardarbab. Essa è talmente fine e liscia che anche il più piccolo insetto (un millepiedi, una cavalletta, uno scorpione) lascia tracce visibili da lontano. Un uomo potrebbe, qualora il tedio del viaggio nel deserto lo annoiasse a sufficienza, distrarsi seguendo con lo sguardo le tracce davvero tortuose di una singola formica. Tuttavia, durante il giorno, accadeva di rado che il vento non imperversasse, smuovendo la sabbia, sollevandola, trascinandola e scaraventandola. Poiché i venti del Dasht-e-Kavir soffiano sempre dalla stessa parte, da sud-ovest, è facile stabilire in quale direzione sta andando uno straniero, anche se lo si incontra accampato e immobile, semplicemente osservando quale fianco della sua cavalcatura è più fittamente rivestito da uno straterello fulvo. Durante la notte il vento del deserto cade e lascia che le particelle più pesanti esistenti nell'aria si posino. Ma quelle più impalpabili rimangono sospese nell'atmosfera come polvere, e sono talmente dense da formare una sorta di
oscura nebbia. Essa cancella qualsiasi stella possa splendere nel cielo, e a volte riesce a rendere invisibile persino la luna piena. Tra il buio della notte e questa nebulosità, la visuale può essere limitata ad appena poche braccia. Narice ci disse che esistevano creature, chiamate Karauna, le quali approfittavano di questa scura foschia (stando a una leggenda popolare persiana i Karauna stessi l'avevano creata, disse Narice, mediante qualche tenebrosa magia) per commettere azioni malvage. Più normalmente, il maggior pericolo di tale foschia consiste nel fatto che la polvere sospesa in aria scende impercettibilmente dall'alto durante la calma notturna, e il viaggiatore il quale non si trovi al riparo di una tenda potrebbe essere silenziosamente e inavvertitamente seppellito e soffocato a morte nel sonno. Dovevamo ancora attraversare la maggior parte della Persia, ma si trattava delle regioni spopolate, forse le più spopolate del mondo, e durante il viaggio non incontrammo un solo persiano, né un granché d'altro, e sulla sabbia non scorgemmo le tracce di creature più grandi degli insetti. In altre regioni della Persia, ugualmente spopolate e non coltivate, noi viaggiatori avremmo dovuto stare in guardia contro branchi di feroci leoni, o torme di sciacalli divoratori di carogne, o anche gruppi di quei grandi uccelli-cammello incapaci di volare, gli shutumurq, che, così ci era stato detto, possono sventrare un uomo con una zampata. Ma nessuno di questi pericoli doveva essere paventato nel deserto, in quanto non vi dimorano animali feroci di sorta. Scorgemmo qualche avvoltoio o qualche nibbio, ma rimasero a grande altezza nel cielo e non rallentarono il loro volo. Persino le piante sembravano evitare il deserto. La sola cosa verde che vidi crescere fu un basso cespuglio dalle foglie spesse il cui aspetto era carnoso. «Euforbie» così disse che si chiamavano Narice. «E crescono qui soltanto perché ce le mise Allah, allo scopo di aiutare i viaggiatori. Nella stagione calda, i baccelli delle euforbie, contenenti i semi, maturano, si gonfiano e scoppiano, spargendo così i semi stessi. Cominciano a scoppiare quando l'aria del deserto diventa calda esattamente come il sangue umano. Poi scoppiano sempre più frequentemente, man mano che l'aria continua a riscaldarsi. E così, chi attraversa il deserto, può capire, dall'intensificarsi degli scoppietti delle euforbie, quand'è che l'aria sta diventando così pericolosamente calda da "imporgli" di fermarsi e di montare una tenda alla cui ombra ripararsi, se vuole evitare la morte.» Lo schiavo, nonostante lo squallore del suo fisico, l'eretismo sessuale e l'indole detestabile, era un viaggiatore esperto e ci descrisse o ci mostrò molte cose utili o interessanti. Ad esempio, sin dalla prima sera nella solitudine, quando sostammo per accamparci, egli smontò dal cammello e conficcò il pungolo nella sabbia, puntato nella direzione che stavamo seguendo. «Potrebbe esserci utile domattina» spiegò. «Abbiamo deciso di procedere sempre verso il punto ove sorge il sole. Ma se a quell'ora imperverserà il vento, potremo non riuscire a scorgerlo.» Le sabbie traditrici del Dasht-e-Kavir non costituiscono la sola minaccia contro l'uomo. Il nome della regione, come ho già detto, significa il Grande Deserto di Sale, e per una ragione precisa. Vaste distese di essa non consistono affatto di sabbia; trattasi di immense pianure di un impasto salato, non sufficientemente umide per poter essere denominate acquitrini o paludi, e il vento e il sole hanno prosciugato l'impasto tramutandolo in una superficie incrostata di sale solido. Non di rado il viaggiatore deve attraversare una di queste distese luccicanti, scricchiolanti, vibranti e di un bianco abbacinante, e deve farlo con cautela. I cristalli di sale sono più abrasivi della sabbia; persino i cuscinetti callosi sotto i piedi dei cammelli possono scorticarsi rapidamente fino a sanguinare e, se chi cavalca l'animale è costretto a smontare, anche le calzature di lui possono essere analogamente tagliuzzate, dopodiché tocca ai piedi. Inoltre, le superfici salate hanno uno spessore disuguale e fanno di tali distese quelle che Narice chiamava «i terreni tremolanti». A volte il peso di un cammello o il peso di un uomo possono sfondare la crosta. Se questo accade, l'animale o l'essere umano affondano nella pastosa melma sottostante. Da queste sabbie mobili di sale è impossibile venir fuori senza essere aiutati, o anche rimanere immobili in attesa che giunga un soccorso. Adagio, ma ineluttabilmente, esse risucchiano qualsiasi cosa vi cada, la fanno affondare sotto la superficie e vi si chiudono sopra. A meno che un soccorritore non si trovi nelle immediate
vicinanze, e su un terreno più solido, è la fine per lo sventurato che abbia sfondato la crosta. Stando a Narice, intere karwan di uomini e di animali sono scomparse senza lasciare traccia. E così, quando giungemmo dinanzi ad una di queste distese salate, sebbene avesse lo stesso aspetto innocuo di una brinata fuori stagione, ci fermammo e la scrutammo con rispetto. La bianca crosta scintillava davanti a noi, limpidamente visibile fino all'orizzonte, nonché a perdita d'occhio a entrambi i lati. «Potremmo tentare di aggirarla» disse mio padre. «Le carte del Kitab non indicano particolari come questo» osservò zio Maffeo, grattandosi il gomito con un'aria meditativa. «Non abbiamo modo di sapere quale ne sia l'estensione, né di supporre se sarebbe una deviazione più breve aggirarla a nord o a sud.» «E se dovessimo aggirare ognuna di queste distese di sale» disse Narice «rimarremmo in eterno nel deserto.» Io tacqui, poiché ignoravo completamente come si viaggia nei deserti, e non mi vergognavo di lasciare la decisione ai più esperti di me. Pertanto rimanemmo tutti e quattro appollaiati sui cammelli, contemplando la scintillante distesa. Ma il piccolo Aziz, dietro di noi, pungolò il suo cammello che portava il carico, lo fece inginocchiare e smontò. Non ci accorgemmo di quello che stava facendo finché, insinuandosi tra noi, non si fu portato più avanti, sulla crosta salata. Poi si voltò, alzò gli occhi verso di noi, sorrise graziosamente e disse, con la sua vocetta da uccellino: «Ora potrò ripagarvi della cortesia di cui avete dato prova portandomi con voi. Vi precederò e riuscirò a capire, dalle vibrazioni sotto i piedi, quanto è solida la superficie. Procederò sul terreno più resistente e voi non dovrete fare altro che seguirmi.» «Ti taglierai i piedi!» protestai. «No, Mirza Marco, perché peso pochissimo. Inoltre, mi sono permesso di togliere questi piatti dai carichi.» Mostrò due piatti d'oro inviati al Khakhan dallo Scià Zaman. «Me li legherò sotto le scarpe, come un'ulteriore protezione.» «E' ugualmente pericoloso» disse zio Maffeo. «Tu sei coraggioso a offrirti volontariamente, bambino, ma abbiamo giurato che non ti accadrà nulla di male. E' meglio che sia uno di noi...» «No, Mirza Maffeo» disse Aziz, sempre deciso. «Se per caso dovessi affondare, vi riuscirebbe più facile tirar fuori me che una persona più pesante.» «Ha ragione, padroni» disse Narice. «Il bambino è pieno di buon senso. Oltre ad essere, come potete constatare, coraggioso e ad avere spirito di iniziativa.» Così, lasciammo che Aziz ci precedesse e lo seguimmo a prudente distanza, mantenendo il suo stesso lento passo, ma questo rese la marcia meno dolorosa per i cammelli. E attraversammo, senza che nulla accadesse, quella distesa vibrante; prima del cader della notte eravamo giunti su una più sicura regione sabbiosa nella quale potemmo accamparci. Una sola volta, quel giorno, Aziz valutò erroneamente la solidità della crosta. Con un crepitio secco, essa si infranse come una lastra di vetro e lui affondò all'improvviso, fino alla vita, nella melma sottostante. Quando la cosa accadde non lanciò esclamazioni di terrore e non si lasciò sfuggire nemmeno un gemito durante l'intervallo di tempo che occorse perché zio Maffeo smontasse dal cammello, facesse un cappio nella corda della sella, lo lanciasse intorno al bambino e dolcemente lo trascinasse di nuovo alla superficie e in un punto più solido. Ma Aziz aveva saputo senz'altro di trovarsi sospeso, nel frattempo, sopra un abisso senza fondo, poiché era pallidissimo in viso e aveva gli occhi azzurri sbarrati quando lo circondammo con sollecitudine. Zio Maffeo lo abbracciò e lo tenne stretto contro di sé, mormorando parole consolanti, mentre mio padre ed io gli toglievamo dalle vesti il sale che rapidamente andava consolidandosi. Una volta fatto ciò, il bambino ritrovò il coraggio, e volle a tutti i costi precederci di nuovo, ammirato da noi tutti. Nei giorni che seguirono, ogni qual volta giungemmo dinanzi a una distesa di sale, non potemmo fare altro che supposizioni e votare per decidere se dovevamo avventurarci subito su di essa, o aspettare la mattina successiva prima di affrontarla. Temevamo sempre di poterci trovare nel bel mezzo di un terreno infido al cader della notte, e di essere per conseguenza costretti a scegliere tra due alternative ugualmente poco piacevoli: o tentar di proseguire, sfidando le tenebre notturne e
l'asciutta foschia, la qual cosa sarebbe stata di gran lunga più logorante per i nervi della stessa marcia durante il giorno; oppure accamparci sulla distesa salata e dover fare a meno di un fuoco, poiché temevano che l'accendere il fuoco su una superficie come quella potesse scioglierla e farci affondare tutti, compresi i cammelli e il carico, nelle sabbie mobili. Senza dubbio, soltanto per pura fortuna (o grazie alla protezione di Allah, come avrebbero detto i nostri due musulmani) e non certo perché quelle decisioni fossero suggerite dalla saggezza, riuscimmo ogni volta a fare la giusta supposizione, e ad attraversare ogni volta le distese salate, fino a un terreno più sicuro, prima del cader della notte. Così, non dovemmo mai accamparci senza accendere il fuoco sulle paventate e vibranti distese; ma anche accamparsi in un punto qualsiasi di quel deserto, sia pure su sabbia che, potevamo esserne certi, non si sarebbe spalancata sotto di noi, non era uno scherzo. La sabbia, se la si osserva attentamente, non è altro che una infinita moltitudine di minuscoli frammenti di roccia. La roccia non conserva il calore, né lo conserva la sabbia. Le giornate nel deserto erano piacevolmente tiepide, persino calde, ma, non appena il sole tramontava, le notti divenivano gelide, e la sabbia sotto di noi era ancora più gelida. Avevamo sempre bisogno del fuoco per riscaldarci prima di avvolgerci nelle coperte entro le tende. Ma il gelo di molte notti era talmente intenso che dovevamo suddividere il fuoco in cinque diversi fuocherelli, ben distanziati, e lasciarli ardere per qualche tempo per riscaldare quei vari punti del deserto, prima di distendere le coperte e di montare le tende sopra i tratti riscaldati. Ma anche così, la sabbia non tratteneva a lungo nemmeno quel po' di tepore e al mattino ci destavamo gelati e irrigiditi e in queste condizioni spiacevoli dovevamo alzarci e affrontare una nuova giornata sulla squallida distesa. Il fuoco negli accampamenti notturni serviva per riscaldarci e per darci una qualche illusione degli agi di una casa nel bel mezzo di quelle regioni desertiche, senza vita, silenziose e tenebrose, ma non serviva un granché per cucinare. La legna essendo inesistente nel Dasht-e-Kavir, ci servivamo, come combustibile, dello sterco essiccato dei cammelli. Gli animali di innumerevoli generazioni precedenti che avevano attraversato il deserto ci consentivano di trovarne in abbondanza, e i nostri cammelli alimentavano tali depositi a vantaggio dei futuri viaggiatori. Come provviste, tuttavia, disponevamo soltanto di vari tipi di carne secca e di frutta secca. Un pezzo di carne di montone essiccata e dura poteva essere reso più appetitoso immergendolo nell'acqua e facendolo poi arrostire sulla fiamma, ma "non" sopra un fuoco di sterco di cammello. Sebbene noi stessi puzzassimo già a causa del fumo di questi fuochi, non riuscivamo ad indurci a mangiare qualcosa che ne fosse ugualmente impregnato. Quando ritenevamo di poter sprecare un po' d'acqua, riscaldavamo quest'ultima e vi immergevamo la carne, ma anche questo non la tramutava in un cibo molto gustoso. L'acqua, dopo essere rimasta a lungo in un otre di cuoio, comincia ad avere lo stesso odore e lo stesso sapore dell'acqua che un uomo ha nella vescica. Eravamo costretti a berla se volevamo sopravvivere, ma sempre e sempre meno desideravamo cuocervi il cibo, e preferivamo masticare la carne secca e gelida. Ogni sera sfamavamo anche i cammelli: due manciate di piselli secchi per ciascuno, e poi una buona abbeverata, per far sì che i piselli si gonfiassero nel loro stomaco, simulando un pasto abbondante. Non dirò che le bestie fossero soddisfatte di quelle scarse razioni, ma d'altro canto non risulta che i cammelli siano mai stati soddisfatti di qualcosa. Non avrebbero brontolato e protestato di meno se li avessimo sfamati con banchetti di ghiottonerie, né, per gratitudine, avrebbero faticato più volentieri il giorno successivo. Se ho l'aria di non amare i cammelli, questo accade perché, effettivamente, non li posso soffrire. Credo di aver cavalcato o di essere stato appollaiato su ogni sorta di animale da soma esistente al mondo, e preferirei uno qualsiasi di essi al cammello. Ammetto che il cammello con due gobbe delle regioni più fredde in Oriente possiede un'intelligenza alquanto maggiore ed è meno intrattabile del cammello con una sola gobba delle regioni calde. E questo rende alquanto credibile il convincimento di taluni secondo i quali i cammelli hanno il cervello nella gobba. Il cammello la cui gobba sia stata rimpicciolita dalla sete e dall'inedia è ancor più ribelle, irritabile e intrattabile di un cammello ben nutrito, ma non molto di più.
I cammelli dovevano essere liberati dal carico ogni sera, come qualsiasi altro animale delle karwan, ma nessun altro animale sarebbe stato riottoso in modo così esasperante a farsi rimettere il carico la mattina dopo. I cammelli bramivano e indietreggiavano e saltellavano qua e là, e quando quei trucchi riuscivano soltanto ad esasperarci, ma non a dissuaderci, ci sputavano addosso. Inoltre, una volta sulla pista, nessun altro animale è così privo del senso della direzione, e dell'autoconservazione. I nostri cammelli sarebbero finiti con indifferenza, e uno dopo l'altro, entro ogni fossa di sabbie mobili su quelle pianure salate se noi o il nostro cammelliere non ci fossimo dati la pena di guidarli. I cammelli sono inoltre più privi di ogni altro animale del senso dell'equilibrio. Un cammello, come un uomo, può sollevare e trasportare circa un terzo del proprio peso per un giorno intero e per una distanza considerevole. Ma l'uomo, che pure ha due sole gambe, non è vacillante come il cammello, che ne possiede quattro. L'uno o l'altro dei nostri, scivolava frequentemente sulla sabbia, e ancor più di frequente sul sale, cadendo in modo grottesco da un lato; dopodiché risultava impossibile farlo rialzare se prima non era stato completamente liberato dal carico e incoraggiato a gran voce e validamente aiutato dalle energie messe insieme di tutti noi. Dopodiché ci ringraziava sputandoci addosso. Mi sono servito del verbo «sputare» perché, anche a Venezia, avevo udito viaggiatori, spintisi fino ai paesi remoti, dire che i cammelli facevano questo, ma in realtà non sputano. Vorrei che si limitassero a sputare. Invece espettorano, dal loro bolo più profondo, una sostanza rigurgitata e orribilmente schifosa da sputare. Nel caso dei nostri cammelli si trattava di una sostanza formata da piselli dapprima essiccati, poi mangiati, poi imbevuti di acidi e gonfiati e resi gassosi, quindi semidigeriti e semi-fermentati e infine - quando tale sostanza era al culmine della perniciosità mescolati con i succhi dello stomaco, vomitati, raccolti nella bocca del cammello, mirati attraverso le labbra, ed eiettati, con tutta la violenza possibile, contro qualcuno di noi, e preferibilmente negli occhi. Non esiste, naturalmente, in alcun punto del Dasht-e-Kavir un karwansarai, ma due volte, durante il mese o più che ci occorse per attraversarlo, avemmo la somma fortuna di giungere in un'oasi. Trattasi di una sorgente che scaturisce dalle profondità della terra, e soltanto Dio o Allah sanno perché. L'acqua è potabile, non salata e intorno ad essa si estende, per parecchie zonte [giornate di lavoro], un perimetro verdeggiante. Non sono mai riuscito a trovare qualcosa di edibile che vi crescesse, ma lo stesso verde degli stenti alberelli e dei radi cespugli ristorava ed era gradito quanto frutta fresca o verdure fresche. Entrambe le volte, fummo ben lieti di interrompere il viaggio per qualche tempo prima di proseguire. Durante la sosta, attingemmo acqua alla sorgente per lavare il nostro corpo rivestito di polvere incrostato di sale e puzzolente di fumo di sterco; acqua per riempire i serbatoi nelle viscere dei cammelli, e acqua da far bollire e da filtrare attraverso il carbone che mio padre portava sempre con sé, per lavare e colmare gli otri. Una volta sbrigati questi lavori, ci limitammo a riposare e a goderci la sensazione per noi nuova di sostare in un'ombra verde. Notai, durante la sosta nella prima oasi, come ben presto ci fossimo allontanati tutti uno dall'altro, trovando luoghi diversi, all'ombra degli arbusti, nei quali oziare e in seguito erigere le nostre singole tende, separate da distanze considerevoli. Nessuno di noi aveva litigato di recente, né avevamo motivi precisi per evitare la reciproca compagnia, a parte il fatto che "eravamo stati" in compagnia l'uno dell'altro per così lungo tempo, e adesso era piacevole godersi un po' di solitudine, tanto per cambiare. Avrei potuto tenere Aziz protettivamente vicino a me, ma lo schiavo Narice era allora troppo manifestamente afflitto dal disturbo alle parti intime, e lo ritenevo incapace di molestare il bambino. Per conseguenza, lasciai che anche Aziz si isolasse e se ne stesse per suo conto. O almeno così credetti. Ma, dopo che ci eravamo crogiolati nell'oasi per un giorno e una notte, mi venne in mente, la notte successiva, di andare a girellare tra la vegetazione circostante. Immaginai di trovarmi in un giardino più spazioso, magari in quello che circondava il palazzo di Bagdad, ove avevo passeggiato tante volte con la Principessa Falena. Era abbastanza facile immaginarlo, poiché quella notte aveva portato l'asciutta foschia, e, di conseguenza, non riuscivo a scorgere altro che gli alberi più vicini intorno a me. Persino i suoni venivano smorzati da quella nebbia, e così dovetti quasi calpestare Aziz quando lo udii ridere con la sua risatina musicale e dire:
«Male? Ma questo non è un male. Facciamolo.» Gli rispose una voce più profonda, ma mormorando appena, per cui non riuscii a distinguere le parole. Stavo per gridare infuriato, per afferrare Narice e trascinarlo via dal bambino, ma Aziz tornò a parlare, e in un tono di voce stupito: «Non ne avevo mai veduto uno simile prima d'ora. Con un fodero di pelle che lo racchiude...» Rimasi dove mi trovavo, immobile e sbalordito. «...o che può essere tirato indietro a piacere.» Aziz continuava ad esprimersi con stupore. «Oh bella, è come se voi aveste una vostra mihrab che sempre, teneramente, vi avvolge lo zab.» Narice non possedeva alcun apparato del genere. Era musulmano e circonciso, come il bambino. Cominciai a indietreggiare, badando bene a non fare alcun rumore. «Deve causare sensazioni stupende, anche senza un compagno» continuò la voce da uccellino «quando muovete il fodero avanti e indietro in quel modo. Posso farlo io per voi...?» La foschia si chiuse intorno alla voce di Aziz ed io indietreggiai ulteriormente. Ma lo aspettavo, vigile, fuori della sua tenda, quando in ultimo vi tornò. Venne simile a un disperso raggio di luna, emergendo radioso dalle tenebre, poiché era completamente nudo e stava reggendo il fagotto delle vesti. «Guardati!» dissi severamente, ma tenendo bassa la voce. «Avevo giurato solennemente che non ti sarebbe accaduto alcun male...» «Non mi è accaduto niente di male, Mirza Marco» disse lui, battendo le palpebre, tutto innocenza. «E tu avevi giurato sulla barba del Profeta di non tentare mai nessuno di noi...» «Non ho tentato nessuno, Mirza Marco» rispose Aziz, assumendo un'espressione offesa. «Ero vestito di tutto punto quando lui ed io ci siamo incontrati per caso in quel boschetto.» «... e di essere assolutamente casto!» «E lo sono stato, Mirza Marco, per tutto il cammino sin qui da Kashan. Nessuno mi ha penetrato ed io non ho penetrato nessuno. Non abbiamo fatto altro che baciarci. E abbiamo fatto questo...» Mi diede la dimostrazione, e poi mi insinuò il suo piccolo membro nella mano, e mormorò: «Ce lo siamo fatto a vicenda...» «Basta!» dissi, rauco. Lo lasciai andare e mi tolsi di dosso la mano di lui. «Va a dormire, adesso, Aziz. Domattina all'alba ripartiremo.» Quanto a me, non riuscii ad addormentarmi, quella notte finché, arresomi all'eccitazione destata in me da Aziz, non me ne fui liberato manualmente. Ma l'insonnia era causata inoltre, in parte, dalla nuova immagine di mio zio, dalla delusione che mi causava e dalla sfumatura di disprezzo che colorava ormai i miei sentimenti nei suoi riguardi. Non era una delusione da poco avere scoperto che l'aspetto imponente dello zio Maffeo, baldanzoso, audace e nero-barbuto, era soltanto una maschera da lui portata e che dietro ad essa si nascondeva un lezioso, malizioso e spregevole sodomita. Sapevo di non essere un santo e feci del mio meglio per non comportarmi da ipocrita. Riuscii ad ammettere francamente che anch'io ero suscettibile ai fascini del piccolo Aziz. Ma questo soltanto perché il bambino si trovava lì, a portata di mano, mentre non disponevamo di alcuna donna, e perché era bello e seducente quanto una donna, e liberamente disponibile per essere impiegato come il surrogato di una donna. Ma lo zio Maffeo, a questo punto me ne resi conto, doveva vederlo in modo diverso, doveva vedere in Aziz un "ragazzetto" disponibile e affascinante che si poteva portare a letto. Ricordai episodi precedenti con altri maschi: i massaggiatori dell'hammam, ad esempio... E parole che avevo udito pronunciare: il dialogo furtivo tra mio padre e la vedova Esther, ad esempio. Quanto si poteva dedurne era inevitabile: lo zio Maffeo era un uomo che amava gli appartenenti al proprio sesso. Un uomo con tali tendenze non costituiva una curiosità lì, nei paesi musulmani, ove quasi ogni uomo sembrava analogamente pervertito. Ma sapevo benissimo che nel nostro più civile Occidente, i tipi come lui venivano derisi e scherniti e maledetti. Sospettavo che altrettanto dovesse accadere nei paesi totalmente privi di civiltà più a Oriente. In ogni modo, sembrava che, "in qualche luogo", la depravazione di mio zio fosse stata causa di difficoltà in passato. Potevo arguire che mio
padre aveva già avuto validi motivi per tentar di guarire il fratello dalla perversione, e lo stesso Maffeo si era sforzato in qualche modo di reprimere i propri impulsi. Se così stavano le cose, riflettei, allora, egli non era del tutto detestabile, e forse esisteva ancora qualche speranza per lui. Bene, avrei fatto tutto il possibile per aiutarlo a riformarsi e a redimersi. Una volta ripartiti, non mi sarei tenuto alla larga da lui con un'aria di rimprovero, né avrei evitato di guardarlo, né mi sarei rifiutato di rivolgergli la parola. Non avrei detto niente a proposito di quanto era accaduto. Non gli avrei lasciato capire in alcun modo che ero a conoscenza del suo segreto vergognoso. Avrei invece ricominciato a tenere attentamente d'occhio Aziz, senza più consentire al bambino di scorrazzare liberamente grazie alla protezione della notte. Soprattutto, sarei stato particolarmente cauto e severo se per caso fossimo giunti in un'altra verde oasi. In posti come quelli esisteva la tendenza ad allentare la disciplina e a rinunciare all'autocontrollo, così come consentivamo agli stanchi muscoli di distendersi. Se fossimo venuti a trovarci di nuovo in un simile ambiente di agi relativi e di abbandono, mio zio avrebbe potuto trovare irresistibile la tentazione: la tentazione di godersi Aziz più di quanto lo avesse già gustato. Il giorno dopo, mentre riprendevamo una volta di più il cammino verso nord-est, fui affabile come sempre con tutti, compreso zio Maffeo, e, credo, nessuno avrebbe potuto rendersi conto di quel che provavo in cuor mio. Ciò nonostante, mi fece piacere il fatto che, quel giorno, fosse stato lo schiavo Narice ad assumersi il compito di sostenere la conversazione. Probabilmente per distrarsi dalle proprie pene, egli cominciò a dissertare su un argomento, poi passò ad un altro e quindi a un altro ancora ed io, per lo meno, mi accontentai di viaggiare in silenzio, di ascoltarlo e di lasciarlo divagare. A dargli lo spunto fu il fatto che, mentre stavamo caricando i cammelli, aveva trovato un piccolo serpente raggomitolato e addormentato entro una delle gerle. A tutta prima si era lasciato sfuggire un grido, ma poi aveva detto: «Dobbiamo aver portato con noi questa povera creatura sin da Kashan» e, invece di uccidere il serpente, si era limitato a gettarlo sulla sabbia, lasciando che strisciasse via. Poi, mentre viaggiavamo, ci spiegò il perché del suo gesto. «Noi Musulmani non aborriamo e non odiamo i serpenti come voi Cristiani. Oh, non è che ci siano particolarmente cari, ma neppure li temiamo e li disprezziamo quanto voi. Stando alla vostra Sacra Bibbia, il serpente è l'incarnazione del demonio Satana. E, nelle vostre leggende, voi avete ingigantito il serpente fino alle dimensioni del mostro chiamato drago. Invece tutti i nostri mostri musulmani assumono la forma di esseri umani - come il jinn o l'afrit - oppure di uccelli, come nel caso del gigantesco rukh, o di una combinazione di vari esseri, come il mardkhora. Quest'ultimo è un mostro che ha la testa di un uomo, il corpo di un leone, gli aculei di un porcospino e la coda di uno scorpione. Notate, il serpente non è incluso.» Mio padre osservò, blando: «Il serpente è sempre stato una creatura maledetta dopo la deplorevole faccenda nel Paradiso Terrestre. E' comprensibile che i Cristiani lo temano, ed è giusto che lo odino e lo uccidano ogni qual volta possono.» «Noi Musulmani» disse Narice «riconosciamo il merito quando è dovuto. Fu il serpente del Paradiso Terrestre a trasmettere agli Arabi la lingua araba, in quanto questa fu la lingua che escogitò per parlare con Eva e per sedurla, poiché l'arabo, come ognuno sa, è il più sottile e il più persuasivo dei linguaggi. Naturalmente, Adamo ed Eva parlavano il "farsi" quando si trovavano soli insieme, in quanto il "farsi", il persiano, è la più bella tra tutte le lingue. E l'angelo vendicatore Gabriele parla sempre il turki, perché il turki è invece il più minaccioso dei linguaggi. In ogni modo, questa è stata soltanto una digressione. Stavo parlando di serpenti e credo sia ovvio che furono la sinuosità e le spirali del serpente a ispirare la scrittura di caratteri, l'alfabeto arabo impiegato anche per la trascrizione del farsi, del turki, del sindi e di tutte le altre lingue dei popoli civili.» Mio padre intervenne di nuovo. «Noi occidentali l'abbiamo sempre definita scrittura del verme da esca, senza mai sapere quanto eravamo vicini alla verità.» «Ma il serpente ci ha dato qualcosa di più di questo, Padron Niccolò. Il suo modo di strisciare sul terreno, incurvandosi e raddrizzandosi, diede a qualche nostro ingegnoso antenato lo spunto per
inventare l'arco e la freccia. L'arco è sottile e sinuoso come il serpente. La freccia è sottile e diritta come il serpente e ha la punta - la testa - che uccide. Abbiamo validi motivi per onorare il serpente, e lo onoriamo. Ad esempio, noi chiamiamo l'arcobaleno il serpente celeste, e trattasi di un complimento nei confronti di entrambi.» «Molto interessante» mormorò mio padre, con un sorriso di sopportazione. «All'opposto» continuò Narice «voi Cristiani paragonate il serpente allo zab e asserite che fu il serpente del Paradiso Terrestre a portare nel mondo il piacere sessuale e che, pertanto, il piacere del sesso è peccaminoso e laido e abominevole. Noi Musulmani, invece, incolpiamo chi deve essere incolpato. Non l'inoffensivo serpente, ma Eva e tutte le sue discendenti. Come dice il Corano nella quarta sura: «La donna è la causa di ogni male sulla terra, e Allah ha creato questo mostro soltanto affinché l'uomo provasse ripugnanza per tutto ciò che è terreno e ne rifuggisse...» «Ciacole!» disse zio Maffeo. «Prego, padrone?» «Ho detto "assurdità"! Sciocchezze! Bifam ishtibah!» Con l'aria scandalizzata, Narice esclamò: «Padron Maffeo, dite che il Santo Libro è una bifam ishtibah?» «Il tuo Corano è stato scritto da un uomo, e non puoi negarlo. Come il Talmud e la Bibbia, a loro volta scritti da uomini.» «Suvvia, Maffeo» intervenne quell'uomo pio che era mio padre. «Si limitarono a trascrivere le parole di Dio. E del Salvatore.» «Ma si trattava di uomini, incontestabilmente di uomini, con la mentalità degli uomini. Tutti i profeti e gli apostoli e i savi sono stati uomini. E quali uomini scrissero i sacri libri? Uomini circoncisi!» «Mi permetto di fare osservare, padrone» intervenne Narice «che non li scrissero con il loro...» «In un certo senso, fecero proprio questo. Tutti quegli uomini erano stati religiosamente mutilati nei loro organi infantili. Quando divennero adulti, si trovarono sminuiti, per quanto concerne il piacere sessuale, nella stessa misura in cui erano stati sminuiti nei loro organi sessuali. "Ecco" perché decretarono, nei loro sacri libri, che il sesso non doveva essere praticato per il piacere, ma esclusivamente per la procreazione, e che, sotto ogni altro aspetto, era da considerarsi vergognoso e peccaminoso.» «Buon padrone» insistette Narice «noi veniamo privati soltanto del prepuzio, non mutilati come gli eunuchi.» «Ogni mutilazione è una privazione» ribatté zio Maffeo. Lasciò cadere la funicella con la quale guidava il cammello per grattarsi il gomito. «I savi dei tempi antichi, resisi conto che la mutilazione dei loro membri aveva ridotto le sensazioni e il godimento, divennero invidiosi e timorosi che altri potessero trovare più piacere nel sesso. L'infelicità ama la compagnia, e così scrissero i sacri libri in modo da essere certi di ritrovarsi in compagnia. Dapprima gli Ebrei, e poi i Cristiani (poiché gli Evangelisti e gli altri primi Cristiani erano soltanto Ebrei convertiti), quindi Maometto e i savi Musulmani che si susseguirono a lui. Poiché tutti costoro erano uomini circoncisi, le loro disquisizioni sull'argomento del sesso somigliarono al canto dei sordi.» Mio padre sembrava scandalizzato quanto Narice. «Maffeo» ammonì il fratello «in questo deserto senza ripari siamo tremendamente esposti ai fulmini. La tua critica mi riesce nuova, e forse è persino originale, ma ti consiglierei di attenuarla con la discrezione.» Senza badargli, zio Maffeo continuò. «Da parte loro, mettere i ceppi alla sessualità umana è stato come se degli storpi avessero scritto le regole delle gare atletiche.» «Storpi, padrone?» domandò Narice. «Ma come avrebbero potuto sapere di essere storpi? Voi sostenete che le mie sensazioni sono state ridotte. Ma, poiché non dispongo di alcun metro oggettivo per valutare i miei godimenti, mi domando come avrebbe potuto riuscirvi chiunque altro. Posso immaginare una sola persona in grado di valutare se stessa. Si tratterebbe di un uomo che
avesse fatto l'esperienza, per così dire, prima e dopo. Scusate la mia impertinenza, Padron Maffeo, ma, per caso, voi siete stato circonciso intorno alla metà della vostra vita adulta?» «Insolente di un infedele! Non sono mai stato circonciso!» «Ah. Allora, eccezion fatta per un uomo come quello che dicevo, la cosa, sembra a me, potrebbe essere giudicata soltanto da una "donna": una donna che abbia dato piacere a entrambi i tipi di uomini, i circoncisi e i non circoncisi, prestando molta attenzione ai loro rispettivi culmini del godimento.» A queste parole trasalii. Sia che Narice si esprimesse con astuta malizia o con pura ingenuità, le sue parole toccavano molto da vicino la vera natura di zio Maffeo e la sua probabile esperienza. Sbirciai mio zio, temendo di vederlo arrossire o esplodere e magari mozzare la testa a Narice. Ma egli si comportò come se non si fosse accorto della manifesta insinuazione, e continuò: «Se potessi scegliere, cercherei una dottrina religiosa i cui sacri testi non fossero stati scritti da uomini già ritualmente mutilati nella loro virilità.» «Là ove siamo diretti» osservò mio padre «vi sono molte religioni del genere.» «Come io ben so» disse zio Maffeo. «E per questo mi domando come osiamo, noi Cristiani, insieme agli Ebrei e ai Musulmani, parlare dei popoli più a Oriente come di barbari.» Mio padre disse: «L'uomo che ha viaggiato può guardare con un sorriso di compatimento i rozzi sassolini tuttora tesoreggiati dalla sua gente in patria, sì, perché ha veduto veri rubini e autentiche perle in luoghi remoti. Se questo sia vero anche per quanto concerne le nostre religioni, non saprei dirlo, non essendo un teologo.» Poi soggiunse, in un tono alquanto aspro, per lui: «Ma una cosa so: ci troviamo ancora, attualmente, sotto il cielo di quelle religioni che tu disprezzi così apertamente, e siamo pertanto esposti al castigo del Cielo. Se le tue empietà dovessero provocare una tromba d'aria, non potremmo più proseguire. Vi esorto vivamente a cambiare discorso.» Narice lo accontentò. Tornò all'argomento precedente, e ci spiegò, con una prolissità da stordire, come ogni lettera della scrittura araba a vermi da esca sia permeata da una certa, specifica emanazione di Allah e come, per conseguenza, mentre ogni lettera si contorce formando parole, e le parole formano frasi simili a rettili, ogni scritto arabo - anche quelli terreni come un'indicazione stradale o il conto del proprietario di un karwansarai - contenga un potere benefico, più grande della somma delle singole lettere, e, per conseguenza, efficace in quanto talismano contro il male e gli jinn e gli afrit e il demonio Shaitan... e così via. Al quale sproloquio rispose soltanto uno dei nostri cammelli, un maschio. L'animale dispiegò il proprio apparato inferiore, mentre camminava, e orinò abbondantemente.
5. Bene, non fummo annientati né da un fulmine né da una tromba d'aria, né io riesco a ricordare una qualsiasi altra cosa degna di nota capitataci nel corso del viaggio, finché, come ho già accennato, giungemmo nella seconda verde oasi in quel fulvo squallore, e di nuovo ci accampammo con l'intenzione di riposarci negli agi per due giorni o anche per tre. Mantenendo la mia decisione, questa volta non consentii ad Aziz di allontanarsi per più di un passo da me mentre bevevamo a sazietà la buona acqua e abbeveravamo i cammelli e riempivamo gli otri e - soprattutto - mentre sottoponevamo a lavacri il nostro corpo e lavavamo la biancheria, momenti nei quali sia lui, sia noi tutti, eravamo, per necessità di cose, nudi. E anche quando cominciammo a montare le rispettive tende ben lontano l'una dall'altra, mi accertai che la sua e la mia fossero vicine. Ci riunimmo tutti intorno al fuoco, comunque, per il pasto serale. E rammento, come se fossero accaduti ieri, anche i particolari più insignificanti di quella sera. Aziz si accosciò al lato opposto del fuoco, rispetto a me, e dapprima mio zio gli sedette socievolmente accanto, poi mio padre prese posto all'altro lato di lui. Mentre masticavamo cartilaginosa carne di montone e formaggio muffito e intingevamo giuggiole secche nelle tazze dell'acqua per ammorbidirle, zio Maffeo continuò a
sbirciare maliziosamente il bambino, e mio padre ed io scoccammo occhiate sospettose a entrambi. Apparentemente ignaro della tensione che esisteva nel gruppo, Narice si rivolse a me dicendo: «State cominciando ad avere l'aspetto di un vero viaggiatore, Padron Marco.» Si stava riferendo alla barba che mi era appena cresciuta. Nel deserto, nessun uomo sarebbe così stolto da sprecare acqua per radersi, o così vanesio da sopportare un'insaponatura inevitabilmente mescolata con sabbia abrasiva e con sale. La mia barba era ormai virilmente folta ed io avevo smesso di ricorrere alla facile depilazione mediante l'unguento mumum, lasciando che crescesse e mi proteggesse la pelle del viso. Mi prendevo soltanto la pena di tenerla in ordine e comodamente corta, come l'ho sempre portata anche in seguito. «Ora potete rendervi conto» continuò a cicalare Narice «di quanto sia stato saggio e misericordioso Allah dando la barba agli uomini, ma non alle donne.» Riflettei su queste parole. «E' ovviamente un bene che gli uomini abbiano la barba, in quanto possono essere costretti ad affrontare le sabbie pungenti del deserto. Ma perché sarebbe misericordioso il fatto che le donne non ce l'hanno?» Il cammelliere alzò entrambe le mani al cielo, e anche gli occhi, quasi fosse costernato dalla mia ignoranza. Tuttavia, prima che avesse potuto rispondere, il piccolo Aziz rise e disse: «Oh, lascia che glielo spieghi io! Pensate, Mirza Marco! Non è stato premuroso, il Creatore? Egli non ha dato la barba alla creatura che non sarebbe mai riuscita a radersi e nemmeno a tenerla corta e ben curata, "tenuto conto di come fa andare continuamente la bocca"!» Risi anch'io, come mio padre e zio Maffeo, e osservai: «Se questa è la ragione, ne sono lieto. Non riuscirei ad avvicinare una donna baffuta e barbuta. Ma non sarebbe stato più saggio, l'Onnipotente, se avesse creato femmine meno propense a pettegolare?» «Ah» disse mio padre, che amava citare proverbi, «ovunque vi siano pentole, le si ode cozzare.» «Mirza Marco, ecco un altro indovinello per voi, Mirza Marco!» cinguettò Aziz, sobbalzando allegramente là ove sedeva. Il bambino era ovviamente un angelo caduto e, sotto molti aspetti, più esperto delle cose del mondo di qualsiasi cristiano adulto, ma, ciò nonostante, si comportava pur sempre come un bimbetto. Le parole di lui quasi si accavallavano, tanto era smanioso di pronunciarle: «Esistono pochi animali, in questo deserto. Ma ve n'è uno che accomuna in se stesso l'indole di "sette bestie diverse". Di quale animale si tratta, Marco?» Corrugai la fronte, finsi di riflettere intensamente, alfine dissi: «Rinuncio.» Aziz scoppiò in una risata trionfante e aprì la bocca per parlare. Ma poi la spalancò anche di più e i grandi occhi di lui divennero immensi. Altrettanto fecero gli occhi e la bocca di mio padre e di mio zio. Narice ed io dovemmo voltarci per vedere che cosa stessero fissando. Tre irsuti uomini bruni si erano materializzati fuori dalla foschia notturna e ci stavano osservando con occhi simili a sottili fessure su volti inespressivi. Indossavano indumenti di cuoio, non vesti arabe, e dovevano aver cavalcato a lungo e rapidamente, poiché erano coperti da un impasto di polvere e di sudore e puzzavano anche dalla distanza che li separava da noi. «Sain bina» disse mio zio, il primo a riaversi dallo stupore, e adagio si mise in piedi. «Mendu, sain bina» rispose uno degli sconosciuti, con un'aria lievemente stupita egli stesso. Anche mio padre si alzò e lui e zio Maffeo fecero gesti di benvenuto, poi continuarono a parlare con gli intrusi in una lingua che non capivo. Tirandoli per le redini, gli uomini fecero sbucar fuori tre cavalli dalla foschia alle loro spalle e portarono gli animali alla sorgente. Soltanto dopo che i cavalli si furono abbeverati, i tre si dissetarono a loro volta. Narice, Aziz ed io ci alzammo dal fuoco e cedemmo i nostri posti agli sconosciuti. Mio padre e mio zio sedettero con loro, tolsero provviste dalle bisacce e le offrirono e continuarono a rimanere seduti e a conversare mentre i visitatori mangiavano voracemente. Scrutai il più attentamente possibile i nuovi arrivati, tenendomi con discrezione lontano da quel confabulare. Erano bassi di statura, ma robusti. Avevano la faccia dello stesso colore del cuoio di vitello conciato e due di loro sfoggiavano baffi lunghi, ma sottili; nessuno dei tre si faceva crescere la barba. I loro ispidi capelli neri erano lunghi come quelli delle donne e avvolti in numerose trecce. Gli occhi, ripeto, erano mere fessure, talmente sottili che mi domandai come riuscissero a vederci attraverso di esse. Ogni uomo portava
sulla schiena un corto arco a doppia curva molto accentuata, la cui corda tesa gli passava sul petto, con una faretra contenente corte frecce; e inoltre aveva alla vita quella che poteva essere una corta spada oppure la lama di un lungo coltello. Mi resi conto soltanto adesso che quegli uomini erano Mongoli, poiché ormai ne avevo veduti alcuni, e quella regione, anche se nominalmente apparteneva alla Persia, era una provincia del Khanato mongolo. Ma perché tre mongoli si aggiravano lì, nel deserto? Non sembravano essere banditi, né avere l'intenzione di farci del male - o almeno mio padre e zio Maffeo, conversando con loro, erano riusciti a dissuaderli subito da un'idea del genere. E perché sembravano avere tanta fretta? Nell'eterno deserto, nessuno si affretta mai. Quegli uomini, invece, sostarono nell'oasi soltanto quanto bastava per rimpinzarsi. E forse non si sarebbero fermati neppure per così breve tempo se le nostre provviste, pur essendo così poco appetitose, non fossero sembrate loro vere e proprie ghiottonerie; essi, infatti, non avevano con sé, come razioni per il viaggio, che strisce di carne di cavallo essiccata, simili a lacci per le scarpe fatti di cuoio. Il babbo e lo zio, a giudicare dai loro gesti, stavano invitando cordialmente e quasi con insistenza i nuovi arrivati a riposarsi per qualche tempo, ma i Mongoli si limitavano a scuotere la testa irsuta e a grugnire mentre divoravano carne di montone e formaggio e frutta secca. Infine balzarono in piedi, ruttarono con apprezzamento, afferrarono le redini dei cavalli e balzarono loro in groppa. I cavalli somigliavano alquanto ai cavalleggeri, essendo straordinariamente pelosi e selvaggi nell'aspetto e piccoli quasi come i cavallucci di Bagdad colorati con l'henné, ma molto più robusti e muscolosi di questi ultimi. Erano incrostati di bava secca e di polvere, essendo stati spinti a lungo al galoppo, ma sembravano ansiosi quanto gli uomini che li cavalcavano di andarsene e di rimettersi a galoppare. Uno dei Mongoli, stando in sella, rivolse a mio padre una frase alquanto lunga, che parve ammonitrice. Poi tutti e tre voltarono la testa delle loro cavalcature, si lanciarono in direzione sudovest, scomparendo quasi all'istante alla nostra vista nella nebbiosa oscurità e i cigolii dei finimenti si sottrassero quasi altrettanto istantaneamente all'udito. «Quella era una pattuglia militare» si affrettò a dirci mio padre, accorgendosi che Narice e Aziz sembravano molto spaventati. «Sembra che alcuni banditi siano stati di recente, ehm, attivi in questo deserto, e l'Ilkhan Abaga vuole che vengano consegnati prontamente alla giustizia. Maffeo ed io, essendo logicamente preoccupati per la sicurezza di noi tutti, abbiamo tentato di persuadere quei tre a trattenersi e a proteggerci, o persino a viaggiare per qualche tempo in nostra compagnia. Ma preferiscono inseguire i banditi e incalzarli, nella speranza di sfinirli con la fame e la sete. Narice si schiarì la gola e disse: «Scusatemi, Padron Niccolò. Naturalmente io non oserei mai ascoltare i discorsi di un padrone, ma senza volerlo ho udito parte della conversazione. Il turki è una delle lingue che conosco, e i Mongoli parlano una variante della lingua turki. Mi è lecito domandare... quando quei tre hanno accennato ai banditi, hanno pronunciato effettivamente la parola "banditi"?» «No, si sono serviti di un nome, un nome tribale, presumo. Karauna. Ma ritengo che si tratti...» «Ahimè, è proprio quello che mi sembrava di avere udito!» esclamò Narice, funereo. «Anzi, è quello che temevo di avere udito! Possa Allah proteggerci! I "Karauna"!» Mi sia consentito di dire, a questo punto, che quasi tutte le lingue da me udite parlare, dal Levante al lontano Oriente, per quanto diverse l'una dall'altra potessero essere sotto altri aspetti, contenevano una parola, o la radice di una parola, identica in ognuna di esse, vale a dire "kara". Veniva pronunciata in modi differenti, kara, khara, qara o k'ra, e in certe lingue kala, e poteva avere vari significati. Kara poteva voler dire nero, o poteva significare freddo o poteva significare ferro o poteva significare male o poteva significare morte - oppure kara poteva voler dire tutte queste cose al contempo. La parola poteva essere pronunciata con ammirazione, o con disapprovazione, o in modo offensivo; ad esempio, piaceva ai Mongoli chiamare la loro capitale di un tempo Karakorum, che significa Palizzata Nera, mentre denominavano un certo ragno, grosso e velenoso, karakurt, che significa insetto malefico, o mortale.
«I Karauna!» ripeté Narice, quasi vomitando nel pronunciare la parola. «I Tenebrosi, i Cuori Gelidi, gli Uomini di Ferro, i Perfidi Demoni, gli Apportatori di Morte! Non si tratta del nome di una tribù, Padron Niccolò. E' stato loro attribuito come una maledizione. I Karauna sono i fuoricasta di altre tribù... dei Turki e dei Kipchak nel Nord, dei Baluchi nel Sud. E "quelle" sono tribù di banditi nati, quindi figuratevi quanto deve essere terribile un uomo se viene scacciato da una di esse. Alcuni Karauna sono addirittura ex-mongoli, e voi "sapete" che devono essere davvero detestabili se persino i Mongoli non hanno voluto saperne. I Karauna sono gli uomini senz'anima, i più crudeli, i più assetati di sangue e i più temuti tra tutti i banditi di queste regioni. Oh, miei Signori e Padroni, stiamo correndo un pericolo addirittura spaventoso!» «Allora spegniamo il fuoco» disse zio Maffeo. «In verità, Nico, siamo andati a zonzo alquanto spensieratamente nel deserto. Andrò a togliere le spade dai fardelli, e propongo che, sin da questa notte, cominciamo a montare di guardia a turno.» Mi offrii volontariamente di restare desto per il primo turno, e domandai a Narice come avrei potuto riconoscere i Karauna se fossero venuti. Alquanto sarcasticamente, egli disse: «Avrete forse notato che i Mongoli avevano le tuniche fermate sul fianco destro. I Turki, i Baluchi e così via, le fermano sul fianco sinistro.» Poi, essendosi il sarcasmo dileguato nella paura, egli gridò: «Oh, Padron Marco, se per caso aveste modo di vederli prima che colpiscano, non potreste nutrire alcun dubbio. Ahimè, bismillah, kheli zahmat dadam...» e, pregando con tutto il fiato che aveva nei polmoni, si prosternò con profondi salam un numero stupefacente di volte prima di andare a strisciare nella propria tenda. Quando tutti i miei compagni si furono coricati, feci due o tre volte, impugnando la spada shimshir, il giro dell'intero perimetro dell'oasi, scrutando il più lontano possibile nella circostante brumosa, fitta e tenebrosa notte. Ma poiché l'oscurità era così impenetrabile, e poiché non mi sarebbe stato possibile sorvegliare tutte le vie di accesso all'accampamento, decisi di restare appostato accanto alla mia tenda, vicina a quella di Aziz. E poiché quella notte era una delle più gelide di tutto il viaggio, mi distesi entro la tenda, sotto le coperte, lasciando sporgere soltanto la testa al di là del telo. O Aziz non era riuscito ad addormentarsi, oppure lo avevo destato sistemandomi, poiché, a sua volta, sporse la testa fuori della tenda e bisbigliò: «Sono terrorizzato, Marco. E ho freddo. Posso dormire accanto a voi?» «Sì, fa freddo» riconobbi. «Sto rabbrividendo sebbene sia vestito di tutto punto. Andrei a prendere altre coperte, ma preferisco non mettere in agitazione i cammelli. Va bene, porta pure qui le tue coperte, Aziz, ed io smonterò la tua tenda: servirà come una coperta in più. Se ti sdraierai accanto a me e ammonticchieremo tutte le coperte su di noi, staremo abbastanza al calduccio, credo.» E così facemmo. Aziz strisciò fuori della sua tenda, come un piccolo tritone nudo, e si insinuò entro la mia. Lavorando rapidamente al freddo, sfilai le bacchette dalle cuciture della tenda di lui, la piegai e gliela misi addosso. Poi mi infilai accanto al bambino, facendo sporgere soltanto la testa e la mano che impugnava la shimshir. Ben presto smisi di rabbrividire, ma sentii che vibravo interiormente in modo diverso, non già a causa del gelo, ma a causa della vicinanza, del tepore e della morbidezza dell'esile corpo del ragazzetto. Egli premeva contro di me come nel più intimo degli abbracci, e, a questo punto, cominciai a sospettare che la sua fosse stata tutta una deliberata manovra. Dopo un momento ne fui certo, poiché Aziz allentò il cordone del mio pi-jamah e schiacciò il proprio corpo nudo contro le mie nude natiche, quindi osò qualcosa di più intimo. La cosa mi fece ansimare, e poi udii il bisbiglio di lui: «Non vi riscalda, questo, ancora di più?» Riscaldare non era la parola pertinente. Sua sorella Sitare aveva vantato Aziz come un esperto in quell'arte, e ovviamente egli sapeva come eccitare la cosa che Narice aveva chiamato «la mandorla interna», poiché il mio membro divenne eretto e rigido con la stessa rapidità di un telo di tenda quando la bacchetta viene infilata entro la cucitura. Che cosa sarebbe accaduto subito dopo, non lo so. Si potrebbe asserire che stavo vergognosamente ignorando il mio turno di guardia, ma credo che il Karauna si sarebbe avvicinato e avrebbe colpito non veduto anche se io fossi stato più vigile. Qualcosa mi colpì alla nuca, con tanta violenza che la nera notte intorno a me divenne ancor più
tenebrosa, e, quando cominciai ad essere quasi consapevole di qualcosa, mi accorsi di essere trascinato dolorosamente per i capelli sull'erba e sulla sabbia. Fui trascinato là ove il fuoco dell'accampamento veniva riacceso, ma non da qualcuno di noi. Gli intrusi erano uomini tali da far sì che i Mongoli venuti a farci visita poco prima sembrassero, in confronto, eleganti e raffinati gentiluomini di corte. Ve n'erano sette e avevano un aspetto sudicio e lacero e laido e, non so come, sebbene non sorridessero mai, tenevano sempre scoperti i loro denti radi. Ognuno di loro aveva un cavallo, piccolo come quelli dei Mongoli, ma ossuto fino ad avere le costole rilevate, e coperto di piaghe purulente. Un altro particolare notai di quei cavalli, nonostante il mio stordimento: non avevano orecchie. Uno dei predoni stava accendendo il fuoco, gli altri trascinavano i miei compagni verso di esso e tutti cianciavano con voci acute, in un'altra lingua a me ignota. Soltanto Narice sembrava capirla ed egli, sebbene a sua volta fosse stato malmenato e strappato dal giaciglio, e sebbene il terrore lo pervadesse, si diede la pena di tradurre e di urlare a noi tutti: «Questi sono i Karauna! Muoiono di fame! Dicono che non ci uccideranno se li sfameremo! Vi prego, padroni miei, in nome di Allah, datevi da fare e mostrate loro del cibo!» I Karauna ci scaraventarono tutti accanto al fuoco, e poi cominciarono freneticamente ad attingere acqua alla sorgente con il cavo delle mani e a versarsela nella gola. Mio padre e zio Maffeo, remissivi, si affrettarono a tirar fuori le provviste. Io giacevo ancora a terra, scuotendo la testa, cercando di liberarla dalle fitte dolorose, dalle tenebre e dal ronzio. Narice, mentre fingeva di essere opportunamente ed ossequiosamente indaffarato, e pur morente di paura, continuava a urlare: «Dicono che non ci denuderanno né ci uccideranno, "nessuno di noi quattro"! Naturalmente mentono, e lo faranno, invece, ma solo dopo che "noi quattro" li avremo sfamati. Quindi, in nome di Allah, continuiamo a ingozzarli finché restano provviste. "Tutti e quattro"!» Sebbene fossi soprattutto alle prese con la devastazione entro il mio cranio, supposi vagamente che egli stesse esortando anche me a dar prova di un po' di attività. Così, a fatica, mi rimisi in piedi e cominciai a gettare albicocche secche in una pentola d'acqua, per ammorbidirle. Udii zio Maffeo che, a sua volta, stava urlando: «Dobbiamo ubbidire, "tutti e quattro"! Ma poi, mentre si staranno ingozzando, "noi quattro" dovremo trovare il modo di riprenderci le spade e di batterci.» Finalmente compresi il messaggio che lui e Narice stavano cercando di comunicare. Aziz non si trovava tra noi. Invadendo l'accampamento, i Karauna avevano veduto quattro tende, avevano trascinato fuori da esse quattro uomini, e adesso disponevano di quattro prigionieri che, remissivi, si affrettavano a eseguire i loro ordini. Questo perché la tenda di Aziz era stata smontata da me. Quando mi avevano trascinato fuori della mia, Aziz sarebbe potuto venirne fuori a sua volta, avvinghiato a me, ma così non era stato. E il ragazzetto doveva essersi reso conto di quello che stava accadendo, per cui si sarebbe nascosto, a meno che... Aziz era coraggioso. Poteva darsi che escogitasse qualche espediente disperato... Uno dei Karauna ci sbraitò qualcosa. Placata la sete, sembrava estasiato di vederci sgobbare come schiavi per lui. Simile a un conquistatore vittorioso, si batté il petto con i pugni e urlò una tiritera alquanto lunga, che Narice tradusse con voce tremula: «Sono stati incalzati a tal punto dai loro inseguitori che quasi stavano morendo di sete e di fame. Varie volte hanno aperto le vene dei loro cavalli per succhiarne il sangue e mantenersi in vita. Ma i cavalli si sono indeboliti a tal punto che essi hanno dovuto rinunciare a questo espediente; in ultimo, però, hanno mozzato loro le orecchie per divorarle. Ahimè, mashallah...» e concluse con una nuova raffica di preghiere. La confusione andò diminuendo mentre i sette Karauna smettevano di dissetarsi intorno alla sorgente, lasciavano che vi si avvicinassero i loro maltrattati cavalli, e tornavano verso il fuoco intorno al quale noi avevamo disposto il cibo, tutto quello di cui disponevamo. Scoprendo i denti ed emettendo grugniti gutturali, ci fecero capire che dovevamo appartarci e tenerci molto alla larga da loro. Noi quattro indietreggiammo, i Karauna si gettarono sbavando sulle provviste e, un attimo
dopo, il caos ricominciò spaventoso. Altri tre cavalli balzarono all'improvviso fuori delle tenebre, montati da tre urlanti cavalieri che facevano roteare le spade. La pattuglia mongola era tornata! O farei forse meglio a dire che i Mongoli erano sempre rimasti in agguato in qualche punto nei pressi, senza che io stesso, di guardia all'accampamento, lo avessi sospettato. Si erano resi conto che noi saremmo stati un'esca irresistibile per i Karauna, e non avevano fatto altro se non aspettare che i banditi si gettassero nella trappola. Ma i Karauna, sebbene colti di sorpresa e sebbene smontati e tutti presi dai cibi che avevano dinanzi, né si arresero all'istante, né stramazzarono uccisi dalle spade balenanti. Due o tre dei sudici uomini bruni divennero, come per magia, di un rosso scarlatto davanti ai nostri occhi, mentre il sangue sprizzava dalle ferite inferte loro dai Mongoli. Tuttavia anch'essi, al pari degli altri ancora illesi, sguainarono a loro volta le spade. I Mongoli, avendo attaccato a cavallo, poterono vibrare soltanto quei primi fendenti prima che le loro cavalcature li portassero un po' al di fuori della mischia. Senza voltare i cavalli, scivolarono giù dalle selle per continuare il combattimento appiedati. Ma i Karauna, ansiosi di sfamarsi, non avevano legato né impastoiato né tolto le selle alle loro cavalcature. Dovevano essere fortemente tentati di restare e di battersi, a causa di tutti i cibi preparati per loro, e anche perché erano sette contro tre. Ma, probabilmente soltanto perché erano indeboliti dalla fame (e sapevano che i tre Mongoli ben nutriti sarebbero riusciti a tener loro testa) balzarono sulle loro misere cavalcature e, menando colpi di spada contro le spade dei Mongoli ormai appiedati, conficcarono gli speroni nei fianchi dei cavalli e scomparvero dall'alone di luce del fuoco, nella direzione opposta a quella dalla quale erano venuti, trascinando me. I Mongoli, premurosamente, esitarono quanto bastava per sbirciarci e accertarsi che non fossimo visibilmente feriti, prima di riprendere i loro cavalli, di balzare in sella e lanciarsi in un veloce inseguimento. Tutto era accaduto con una così furiosa e tumultuosa rapidità, dal momento in cui ero stato colpito alla testa a questo improvviso silenzio calato sull'oasi, da farci sembrare che un'improvvisa tempesta del deserto, il simun, si fosse avventata di colpo su di noi, turbinando e passando oltre. «Gesù...» alitò mio padre. «Al-hamdo-lillah...» pregò Narice. «Dov'è il piccolo Aziz?» mi domandò zio Maffeo. «E' al sicuro» risposi a gran voce, per essere udito al di sopra del ronzio che continuava a infuriarmi nella testa. «Si trova nella mia tenda.» E additai il punto in cui la polvere sollevata dai cavalli rimaneva ancora sospesa nell'aria. Non appena indossato qualche indumento, zio Maffeo corse in quella direzione. Mio padre vide che mi stavo massaggiando la testa e si avvicinò e la palpò. Disse che avevo un bel bernoccolo e ordinò a Narice di riscaldare un po' d'acqua. Poi zio Maffeo tornò indietro di corsa, fuori delle tenebre, gridando: «Aziz non è là. Ci sono i suoi vestiti, ma non lui!» Lasciando Narice ad applicarmi impacchi sulla testa e a bendarmela dopo avere spalmato unguento, mio padre e mio zio andarono a cercare il ragazzo tra i cespugli. Non lo trovarono. Né riuscì a scovarlo alcuno di noi quando anche Narice ed io ci fummo uniti alla ricerca ed esplorammo metodicamente, in lungo e in largo, l'intera oasi. In ultimo, consultandoci insieme, tentammo di ricostruire quel che doveva essere accaduto. «Deve essersi allontanato furtivamente dalla tenda. Anche nudo e con questo freddo.» «Sì, deve essersi reso conto che, prima o poi, avrebbero saccheggiato l'accampamento.» «E così ha cercato un luogo sicuro in cui nascondersi.» «Sarebbe stato più logico che si avvicinasse strisciando, per vedere se era possibile aiutarci.» «In ogni modo si trovava allo scoperto quando i Karauna sono fuggiti all'improvviso.» «Ed essi lo hanno afferrato portandolo via con loro.»
«E alla prima occasione lo uccideranno.» Fu lo zio Maffeo a pronunciare queste parole, e le pronunciò nel tono di una persona orbata. «Lo uccideranno in qualche modo bestiale, poiché devono essere furenti, ritenendo che abbiamo organizzato noi l'imboscata.» «Può darsi che non ne abbiano la possibilità. I Mongoli li stanno inseguendo da vicino.» «I Karauna non uccideranno il ragazzo, ma lo terranno in ostaggio. Uno scudo per tenere a bada i Mongoli.» «E "se" i Mongoli rinunciassero all'inseguimento, ma non è detto che sia così,» disse mio zio, «"pensate" a quello che farebbero i Karauna al bimbetto.» «Non piangiamo prima che sia accaduto il peggio» disse mio padre. «Ma, qualsiasi cosa possa accadere, noi dobbiamo essere là. Narice, tu rimani. Maffeo, Marco, montate!» Pungolammo i cammelli. Poiché non li avevamo mai spronati prima di allora, gli animali rimasero talmente stupiti che non pensarono a protestare o a recalcitrare, ma partirono ad un lungo galoppo e lo mantennero. Il movimento faceva sì che la testa sembrasse percuotermi l'estremità della colonna vertebrale con un martellamento tormentoso, ma non dissi nulla. Sulla sabbia i cammelli sono più veloci dei cavalli, e così raggiungemmo i Mongoli molto prima dell'alba. Li avremmo comunque incontrati in ogni caso, poiché stavano tornando pian piano verso l'oasi. L'asciutta foschia essendo ormai scomparsa, li scorgemmo da una certa distanza nella fioca luce delle stelle. Due di loro procedevano a piedi, conducendo i cavalli e sostenendo sulla sella il terzo, che cavalcava afflosciato, dondolando, in quanto doveva essere, a quanto pareva, gravemente ferito. I due gridarono qualcosa, mentre ci avvicinavamo e agitarono le braccia per indicare la direzione dalla quale erano venuti. «Un miracolo! Il ragazzo è vivo!» esclamò mio padre, e sferzò ancor più violentemente il cammello. Non ci fermammo per parlare con i Mongoli, ma proseguimmo finché, in ultimo, scorgemmo da lontano scure e immobili sagome sparse sulla sabbia. Erano i sette Karauna e i loro cavalli, tutti morti e assai straziati e trafitti da frecce. Alcuni degli uomini giacevano separati dalle loro mani mozzate che ancora impugnavano la spada. Ma non badammo affatto a loro. Aziz sedeva sulla sabbia, circondato dalla grande pozza di sangue di uno dei cavalli uccisi, la schiena appoggiata alla sella. Si era protetto il corpo nudo con una coperta che doveva aver tolto dalla bisaccia, ed era inzuppata di rosso sangue. Balzammo giù dai cammelli prima ancora che si fossero inginocchiati del tutto e corremmo verso di lui. Zio Maffeo, con la faccia striata dalle lacrime, scompigliò teneramente i capelli del bambino e mio padre gli diede colpetti su una spalla e noi tutti pronunciammo frasi di stupore e di sollievo: «Sei sano e salvo! Che cosa è accaduto, caro Aziz?» Egli disse, con la sua vocetta da uccellino ancor più sommessa del solito: «Mi hanno passato dall'uno all'altro di loro, mentre cavalcavamo, affinché ognuno mi portasse a turno, e per non essere costretti a rallentare l'andatura.» «E sei illeso?» domandò zio Maffeo. «Ho freddo» disse Aziz, con stanca indifferenza. In effetti, tremava violentemente sotto la logora, vecchia coperta. Zio Maffeo insistette, in tono ansioso. «Non hanno... abusato di te? Qui?» E mise una mano sulla coperta, tra le cosce del ragazzo. «No, non hanno fatto niente del genere. Non ce n'era il tempo. E inoltre credo che fossero troppo affamati. E poi i Mongoli ci hanno raggiunti.» Increspò il visetto pallido, come se fosse sul punto di piangere. «Ho tanto "freddo"...» «Sì, sì figliolo» disse mio padre. «Tra un momento ti riscalderemo. Marco, resta accanto a lui a confortarlo. Maffeo, aiutami a cercare sterco qui attorno per accendere un fuoco.» Mi tolsi l'aba e lo distesi sul bambino per coprirlo meglio, senza curarmi del sangue che lo inzuppava. Ma Aziz non raccolse le coperte intorno a sé. Si limitò a restare seduto contro la sella di sghembo, le esili gambe allungate dinanzi a sé e le mani inerti ai fianchi. Sperando di rallegrarlo e di rianimarlo, dissi:
«Fino ad ora, Aziz, ho continuato a domandarmi che cosa potesse essere il curioso animale che mi avevi sfidato a indovinare.» Un pallido sorriso gli incurvò fuggevolmente le labbra: «Vi ho lasciato interdetto, con quell'indovinello, Mirza Marco, non è vero?» «Sì, proprio così. Com'è che l'avevi descritto?» «Una creatura del deserto... che unisce in sé... la natura di sette bestie diverse.» La voce di lui stava scivolando di nuovo nell'apatia. «Non riuscite ancora a indovinare?» «No» risposi, accigliandomi come prima, e fingendo di riflettere profondamente. «No, confesso che non ci riesco.» «Ha la testa di un cavallo...» disse lui, adagio, come se stentasse a ricordare. «E il collo di un toro... le ali di un rukh... il ventre di uno scorpione... i piedi di un cammello... le corna di una qazèl... e... e la parte posteriore... di un serpente...» Mi crucciava quella sua così atipica assenza di vivacità, ma non riuscivo a discernerne la causa. Man mano che la voce di lui diventava fioca, le palpebre gli si abbassavano. Gli strinsi la spalla, incoraggiante, e dissi: «Dev'essere una bestia quanto mai meravigliosa. Ma che cos'è? Aziz, svelami l'enigma. Che cos'è?» Egli aprì gli occhi meravigliosi e mi fissò, poi sorrise e disse: «E' soltanto una comune cavalletta.» Poi cadde bruscamente in avanti, finendo con la faccia sulla sabbia tra le ginocchia, come se fosse stato mollemente incernierato all'altezza della vita. Vi fu un improvviso, percettibile intensificarsi del dominante fetore di sangue, di escrementi di cavallo e di escrementi umani. Allibito, balzai in piedi e chiamai mio padre e mio zio. Accorsero e fissarono il ragazzetto, increduli. «Nessun essere umano vivo si è mai piegato in due in questo modo!» esclamò zio Maffeo, inorridito. Mio padre si inginocchiò, prese tra le dita uno dei polsi di Aziz, lo tenne per qualche momento, poi alzò gli occhi su di noi e tetramente scosse la testa. «Il bambino è morto! Ma di che cosa? Non ha detto di essere illeso? Non ha detto che si erano limitati a passarselo dall'uno all'altro mentre cavalcavano?» Alzai le mani, smarrito. «Abbiamo parlato per qualche momento. Poi si è piegato in due, così. Come una bambola di pezza dalla quale fosse sfuggita tutta la segatura.» Zio Maffeo si allontanò, singhiozzando e tossendo. Mio padre, con dolcezza, prese Aziz per le spalle, lo sollevò, ne appoggiò la testa ciondolante all'indietro contro la sella, poi, con una mano lo mantenne in posizione seduta mentre con l'altra tirava giù le coperte insanguinate. Subito dopo emise il suono di un conato di vomito e, ripetendo le parole di Aziz, disse: «I Karauna erano troppo affamati», quindi indietreggiò in preda a una ripugnanza sconvolgente, lasciando ricadere il cadavere, ma non prima che anch'io avessi veduto. Quanto era accaduto ad Aziz... non potrei paragonarlo ad altro se non a un'antica leggenda greca narrata un tempo a scuola, la leggenda di un gagliardo giovane spartano e di un vorace cucciolo di volpe da lui nascosto sotto la tunica.
6. Lasciammo i cadaveri dei Karauna ove si trovavano, carogne destinate ai becchi degli avvoltoi che fossero riusciti a trovarle. Ma portammo con noi la piccola salma di Aziz, già morsa e rosicchiata e in parte divorata, dirigendoci di nuovo verso l'oasi. Non volevamo abbandonarla sulla superficie della sabbia e nemmeno seppellirla sotto ad essa, poiché nulla può essere seppellito nella sabbia abbastanza profondamente perché il vento non continui a scoprirlo e a ricoprirlo, con la stessa indifferenza con cui copre e riscopre gli escrementi dei cammelli lungo le piste delle carovane. Allontanandoci dall'oasi, eravamo passati accanto al bianco margine di una piccola distesa di sale, e pertanto sostammo là al ritorno. Portammo Aziz sulla superficie tremolante, avvolto nel mio aba come coltre funebre, trovammo un punto in cui ci fu possibile spezzare la crosta lucente e lo
depositammo sulle molli sabbie mobili sotto ad essa. Ci congedammo per sempre da lui e recitammo preghiere durante il periodo di tempo che occorse perché il piccolo fagotto affondasse, sottraendosi alla nostra vista. «La lastra di sale si riformerà presto sopra di lui» cogitò a voce alta mio padre. «Egli riposerà sotto ad essa indisturbato e senza corrompersi, poiché i sali gli permeeranno il corpo, conservandolo.» Zio Maffeo, grattandosi distrattamente il gomito, disse con rassegnazione: «Può anche darsi che questo territorio, come altri che ho veduto, si sollevi e si spacchi un giorno, modificando la propria topografia. Qualche viaggiatore del futuro potrebbe trovare Aziz, tra secoli, contemplarne il viso soave, e domandarsi in qual modo un angelo caduto dal Cielo possa essere stato sotterrato qui.» Commiato più bello non sarebbe potuto essere pronunciato accanto a un defunto, e così lasciammo lì Aziz e rimontammo e proseguimmo. Quando giungemmo di nuovo nell'oasi, Narice ci si fece incontro correndo, preoccupato e ansioso, levando poi alti lamenti non appena vide che eravamo soltanto in tre. Gli dicemmo, nel minor numero di parole possibile, come eravamo stati privati del più piccolo appartenente al nostro gruppo. Con un'espressione opportunamente afflitta e desolata, egli mormorò alcune preghiere musulmane, poi ci fece le condoglianze con il fatalismo tipico dei Musulmani. «Possa la durata della vostra vita essere prolungata, buoni padroni, dei giorni che ha perduto il fanciullo. Inshallah.» Era ormai mezzogiorno e comunque ci sentivamo stanchissimi e a me sembrava che la testa fosse sul punto di spaccarmisi per il grande dolore e non ce la sentivamo di riprendere il viaggio, per cui ci accingemmo a trascorrere ancora una notte nell'oasi, sebbene quello non fosse più un luogo ameno per noi. I tre mongoli ci avevano preceduto lì, e Narice continuò a fare quello che stava facendo al nostro arrivo: aiutò quegli uomini a lavarsi, curarsi e bendarsi le ferite. Queste ferite erano molteplici, ma nessuna molto grave. L'uomo che avevamo creduto più malconcio era rimasto semplicemente e temporaneamente stordito quando un cavallo lo aveva colpito con un calcio alla testa durante l'ultima mischia con i Karauna; e ora stava già assai meglio. Ciò nonostante, tutti e tre gli uomini avevano riportato numerose ferite da taglio e perduto molto sangue, per cui dovevano sentirsi parecchio indeboliti; e noi ci aspettavamo che si trattenessero alcuni giorni nell'oasi per ricuperare le forze. Invece no; dissero che erano Mongoli indistruttibili; nulla e nessuno poteva fermarli, e sarebbero ripartiti. Mio padre domandò dove fossero diretti. Risposero che non avevano una destinazione precisa, ma soltanto l'ordine di cercare, inseguire e distruggere i Karauna del Dasht-e-Kavir, e volevano portare a termine il loro compito. Il babbo mostrò allora il lasciapassare firmato dal Khakhan Qubilai. Nessuno di quegli uomini sapeva leggere, naturalmente, ma riconobbero facilmente il caratteristico sigillo del Khan di tutti i Khan. Li colpì enormemente il fatto che ne fossimo in possesso, così come, in precedenza, erano rimasti colpiti udendo mio padre e mio zio parlare la loro lingua, e domandarono se volessimo impartire loro ordini in nome del Khakhan. Mio padre disse che, siccome stavamo portando ricchi doni al loro grande signore, avrebbero potuto contribuire a garantirne la consegna scortandoci fino a Mashhad, ed essi prontamente acconsentirono. Il giorno dopo, eravamo in sette quando ripartimmo in direzione nord-est. Poiché i Mongoli disdegnavano di conversare con un umile cammelliere, poiché lo zio Maffeo non sembrava disposto a parlare con nessuno e, quanto a me, la testa continuava a dolermi ogni qual volta aprivo la bocca, soltanto mio padre e i nostri tre nuovi compagni parlarono mentre viaggiavamo, ed io mi accontentai di restare accanto a loro e di ascoltarli, cominciando così, a poco a poco, a imparare un'altra nuova lingua. Per prima cosa, imparai che il nome Mongoli non denota una razza o una nazione; deriva infatti dalla parola "mong", che significa coraggioso; e del resto, per quanto ai miei occhi non assuefatti i tre mongoli che ci scortavano sembrassero simili l'uno all'altro, in realtà erano diversi come se uno di loro fosse stato veneziano, un altro genovese e il terzo pisano. Uno dei tre apparteneva alla tribù Khalka, uno alla tribù Merkit e uno alla tribù Buriat; le quali tribù, a quanto potei dedurre, risiedevano in regioni assai lontane una dall'altra di quei territori che il potente Gengis (egli stesso
della tribù Khalka) aveva tanto tempo prima uniti, cominciando così a fondare il Khanato mongolo. Inoltre, uno degli uomini credeva nella religione buddhista, un altro in quella taoista - religioni delle quali io non sapevo nulla - mentre il terzo, tra tutte le fedi possibili, era un cristiano nestoriano. Ma venni a sapere al contempo che, qualunque possa essere l'origine tribale, o la fede religiosa o la specializzazione militare di un mongolo, non ci si deve mai riferire a lui come a un Khalka, o a un cristiano o anche soltanto come a un arciere o a un armigero o a una qualsiasi altra di tali denominazioni. Egli considera se stesso soltanto un mongolo, e con fierezza, così: «"Mongol"!» - e ci si deve rivolgere a lui soltanto come a un mongolo, poiché il fatto che egli sia mongolo prevale su qualsiasi altra cosa possa essere, e il nome mongolo ha la precedenza su tutti gli altri. Tuttavia, molto tempo prima di essere in grado di sostenere una sia pur rudimentale conversazione con i nostri tre uomini di scorta, ero riuscito a scorgere, nel loro comportamento, alcune curiose abitudini e costumanze dei Mongoli, o alcune, sarebbe forse preferibile dire, delle loro barbare superstizioni. Mentre ci trovavamo ancora nell'oasi, Narice aveva fatto loro osservare che avrebbe potuto essere piacevole lavare i loro indumenti, liberandoli così del sudore, del sangue e della sporcizia accumulatasi da lungo tempo, in modo da averli puliti per le tappe successive del viaggio. I tre si erano affrettati a opporre un rifiuto, adducendo come ragione il fatto che era imprudente lavare qualsiasi indumento lontano dal loro campo, in quanto ciò avrebbe causato un temporale. In "qual modo" potesse causarlo non lo dissero, né poterono dimostrarlo. Orbene, qualsiasi uomo che abbia un minimo di buon senso, nel bel mezzo di un deserto arido e calcinato dal sole, non avrebbe niente da obiettare contro qualsiasi temporale, per quanto misteriosamente prodotto. Ma i Mongoli, che non temono null'altro sotto il cielo, sono terrorizzati dai tuoni e dai fulmini come il più pavido dei bambini o la più timorosa delle donnette. Inoltre, mentre si trovavano ancora nell'oasi ove l'acqua abbondava, i tre mongoli non si erano mai concessi il piacere di un bagno rinfrescante, sebbene Dio solo sapesse quanto ne avevano bisogno. Erano talmente rivestiti da una crosta di sporcizia che quasi scricchiolavano, e il loro fetore avrebbe fatto vomitare uno sciacallo. Ma di se stessi non lavano altro che la faccia e le mani, e anche quelle parti quanto mai avaramente. Uno di loro affondava un otre nella sorgente, ma non si serviva nemmeno di una mestolata d'acqua. Versava nell'otre appena quel po' d'acqua bastante per riempirsi la bocca, poi sputava l'acqua, poche gocce alla volta, nelle mani tenute a coppa; quindi con lo schizzetto successivo si bagnava i capelli, con un altro schizzetto le orecchie, e così via. Ammetto che ciò poteva non essere dovuto alla superstizione, ma alla costumanza di un popolo il quale trascorre la maggior parte del tempo in territori aridi. Tuttavia, mi sembrava che i Mongoli sarebbero stati socialmente più accettabili se avessero rinunciato a tanta parsimonia quando non era necessaria. Un'altra cosa. Quei tre uomini venivano dal nord-est quando erano capitati nell'oasi. Ora che stavamo viaggiando in quella direzione, e loro insieme a noi, pretesero che ci tenessimo ad almeno un farsakh di distanza dalla pista percorsa in precedenza perché, ci assicurarono, portava sfortuna seguire al ritorno esattamente la stessa strada dell'andata. Portava inoltre un'enorme sfortuna, osservarono durante la prima notte che trascorremmo accampati insieme sulla pista, il fatto che un qualsiasi membro del gruppo sedesse tenendo la testa bassa come se fosse stato in preda alla sofferenza, o appoggiasse la gota o il mento a una mano per favorire le cogitazioni. Questo, dissero, poteva causare dispiaceri all'intero gruppo. E lo dissero sbirciando inquieti zio Maffeo, che sedeva per l'appunto in tale posa e aveva un aspetto davvero luttuoso. Il babbo o io riuscivamo, scherzando, a farlo tornare socievole per qualche tempo, ma ben presto egli ricadeva di nuovo nella tetraggine. Per moltissimo tempo dopo la morte di Aziz zio Maffeo parlò di rado e sospirò spesso e parve dolorosamente in lutto. Mentre prima io avevo cercato di assumere un atteggiamento tollerante nei confronti della sua indole non virile, ero adesso più propenso a un disprezzo divertito ed esasperato al contempo. Senza dubbio, un uomo che riesce a trovare il piacere sessuale soltanto con un appartenente al proprio sesso, può anche innamorarsi profondamente di un suo simile, e tale vero ardore, come gli esempi più convenzionali di sincero amore, merita di essere stimato e ammirato e
lodato. Tuttavia, zio Maffeo aveva avuto un solo e insignificante rapporto sessuale con Aziz, e, a parte questo, non era stato più vicino al ragazzo di tutti noi. Ci affliggevamo tutti per Aziz e tutti eravamo addolorati a causa della sua morte. Ma il fatto che zio Maffeo continuasse in quel modo, come un altro uomo potrebbe torturarsi per la moglie perduta dopo molti anni di matrimonio felice... era un qualcosa di lugubre, di farsesco e di indegno. Egli era pur sempre mio zio, e avrei continuato a trattarlo con tutto il rispetto dovutogli, ma in cuor mio avevo finito con il concludere che quel suo aspetto esteriore robusto, imponente e forte, non conteneva un granché. Nessuno sarebbe potuto essere più addolorato di me per la morte di Aziz, ma mi rendevo conto di affliggermi soprattutto per ragioni egoistiche e questo non mi dava il diritto di lamentarmi a voce alta. Una delle ragioni consisteva nel fatto che avevo promesso, sia a Sitare sia a mio padre, di tenere il ragazzetto lontano da ogni male e non vi ero riuscito. Pertanto, non potevo sapere con certezza se mi sentissi più addolorato per la morte di lui o per la mia incapacità come protettore. Un'altra di queste ragioni egoistiche consisteva nel fatto che mi affliggevo perché una creatura meritevole di vivere era stata strappata al mio mondo. Oh, so bene che tutti soffrono quando muore qualcuno, ma questo non rende il dolore meno egoistico. Noi superstiti veniamo privati di quella persona appena scomparsa. Ma la persona stessa viene privata di tutto, di ogni altro suo simile, di tutto ciò che vale la pena di possedere, del mondo intero con tutto ciò che esso contiene, e questo in un attimo, e una simile perdita giustifica una sofferenza tanto intensa e sconfinata e duratura da rendere noi che restiamo incapaci di esprimerla. Avevo ancora un'altra ragione egoistica per piangere la morte di Aziz. Non potevo fare a meno di ricordare l'ammonimento della vedova Esther: che un uomo dovrebbe avvalersi di qualsiasi cosa offra la vita, se non vuole morire struggendosi a causa delle occasioni mancate. Era stato forse virtuoso e lodevole da parte mia aver rifiutato quanto Aziz mi offriva, lasciando così senza macchia la sua castità? Forse avrei peccato e sarei stato riprovevole, se avessi accettato. Ma, mi domandavo adesso, poiché Aziz era destinato a scendere così prematuramente nella tomba in ogni caso, che differenza avrebbe fatto questo? Se ci fossimo abbracciati, ciò avrebbe potuto significare un ultimo piacere per lui, e un piacere unico per me, quello che Narice aveva definito «un viaggio al di là del consueto»; e, si trattasse di una cosa innocua o iniqua, non avrebbe lasciato alcuna traccia nelle sabbie mobili che tutto rivestivano e inghiottivano. Ma avevo opposto un rifiuto e, per tutto il resto della mia esistenza, se anche una simile occasione mi si fosse ripresentata, non sarebbe potuta venire dal bellissimo Aziz. Egli era scomparso, quella occasione non si sarebbe ripresentata mai più, ed io me ne dolevo adesso, "adesso", non sul mio futuro letto di morte. Ma vivevo. E, insieme a zio Maffeo, al babbo e ai nostri compagni il viaggio continuò, poiché i vivi altro non possono fare che dimenticare la morte, o sfidarla. Non ci avvicinarono altri Karauna, né banditi di qualche altra specie e non ci imbattemmo neppure in altri viaggiatori nell'ultima parte della traversata del deserto. O la nostra scorta mongola era stata inutile, oppure la sua presenza aveva scoraggiato ogni altra molestia. Giungemmo infine sulle distese basse e sabbiose ai piedi dei Monti Binalud, e superammo quella catena montuosa fino a Mashhad. Era, quest'ultima, una città bella e piacevole, alquanto più grande di Kashan, e lungo le sue strade si allineavano alberi chinar e gelsi. Mashhad è una delle città più sacre dell'Islam persiano in quanto vi si trova sepolto, in una masjid assai decorata, un veneratissimo martire dei tempi antichi, l'Imam Riza. Il musulmano che si rechi in religioso pellegrinaggio a Mashhad può far precedere il proprio nome dal prefisso di Meshhadi, così come il pellegrinaggio alla Mecca gli garantisce il diritto di sentirsi dare dell'Haji. Per conseguenza, la maggior parte della popolazione della città consisteva di pellegrini di passaggio e, per tale motivo, a Mashhad si trovavano ottimi karwansarai, puliti e comodi. I nostri tre Mongoli ci condussero in uno dei migliori e anch'essi vi trascorsero la notte prima di riprendere il pattugliamento nel Dasht-e-Kavir. Lì nel karwansarai, i Mongoli si attennero a un'altra delle loro costumanze. Mentre mio padre, zio Maffeo ed io ci sistemavamo felici nelle nostre stanze e il cammelliere Narice si sistemava soddisfatto nella stalla insieme agli animali, i Mongoli vollero a tutti i costi distendere le loro
coperte nel bel mezzo del cortile e legare i cavalli a paletti conficcati nel terreno intorno a loro. Il proprietario del karwansarai di Mashhad li accontentò, rassegnandosi a questa eccentricità, ma altri proprietari di karwansarai non sono disposti a tollerarla. Come potei constatare in seguito, quando a un gruppo di Mongoli viene imposto di alloggiare nelle stanze come ogni altra persona civile, essi si rassegnano a malincuore, ma in ogni caso non dipendono dalla cucina della locanda. Accendono il fuoco nel bel mezzo del pavimento della loro stanza, vi collocano sopra un treppiede e cucinano essi stessi. Poi, quando scende la notte, non dormono sui letti del karwansarai, ma srotolano le loro coperte e si stendono sul pavimento. Potevo ormai capire, fino ad un certo punto, la riluttanza dei Mongoli a risiedere sotto un tetto. Dopo il lungo viaggio attraverso il Grande Sale, sia io, sia mio padre, sia lo zio Maffeo avevamo a nostra volta cominciato ad apprezzare gli spazi sconfinati, la solitudine, gli immensi silenzi e l'aria pura della vita all'aria aperta. Sebbene a tutta prima ci fossimo goduti con esultanza la distensione del bagno hammam e dei massaggi e fossimo stati ben contenti dei pasti cucinati da altri e serviti dai camerieri, ben presto ci accorgemmo che ci esasperavano lo strepito, la confusione e l'agitazione della vita al chiuso. L'aria sembrava soffocante, le pareti ancor più soffocanti e gli altri ospiti del karwansarai erano persone tremendamente loquaci. Il fumo che si insinuava dappertutto tormentava in particolar modo zio Maffeo, che aveva cominciato ad avere intermittenti accessi di tosse. E così, sebbene quel karwansarai fosse assai ben tenuto e sebbene Mashhad fosse una bella città, ci trattenemmo soltanto quanto bastava per barattare i cammelli contro cavalli, nonché per rifornirci del necessario per il viaggio e di provviste, dopodiché ripartimmo.
BALKH.
1. Ci dirigemmo ora un poco a sud-est, per rasentare il Karakum, o Sabbie Nere, un altro deserto situato a est di Mashhad. Scegliemmo un itinerario che attraversava il Karabil, o Pianoro Gelido, un lungo altipiano meno sabbioso e più verdeggiante che si estende, simile a una linea costiera, tra lo squallido e asciutto oceano delle Sabbie Nere, al nord, e le aride scarpate dei Monti Paropamisus, privi di vegetazione, al sud. Se avessimo attraversato direttamente il deserto Karakum, il viaggio sarebbe stato più breve, ma eravamo stanchi di deserti. E il viaggio sarebbe stato più comodo se ci fossimo portati più a sud, lungo le vallate dei Paropamisus, in quanto là avremmo trovato una sistemazione in tutta una serie di villaggi e di cittadine e persino in città di dimensioni rispettabili, come Herat e Maimana. Tuttavia preferimmo seguire la via di mezzo. Eravamo ormai abituati ad accamparci all'aperto e l'alto pianoro Karabil doveva aver avuto il nome soltanto perché paragonato a località più basse e più calde, in quanto non risultò poi così terribilmente gelido nemmeno allora, agli inizi dell'inverno. Ci limitammo a indossare altre camicie, altri pi-jamah e altri aba man mano che ciò si rendeva necessario e trovammo il clima abbastanza tollerabile. Il Karabil consisteva soprattutto di monotoni pascoli, ma v'erano anche boschetti - di pistacchi, di zizafun, di salici e di conifere. Avevamo veduto regioni molto più verdeggianti e più amene, e ne avremmo vedute altre ancora, ma, dopo aver sopportato il Grande Sale, trovammo persino la monotona erba grigiastra e il rado fogliame del Karabil deliziosi a vedersi, mentre ai nostri cavalli bastavano come foraggio. Dopo il deserto senza vita, ci parve che quel pianoro brulicasse di animali selvatici. V'erano covate di quaglie, stormi di pernici dalle zampe rosse e ovunque marmotte che facevano capolino dalle loro tane e fischiavano stizzosamente vedendoci passare. V'erano oche migratrici e anatre che svernavano lì, o che vi si trovavano di passaggio: un tipo di oca dal ciuffo di piume striate sul capo e un'anatra dal bel piumaggio rossiccio e dorato. Si vedevano moltitudini di
lucertole brune, alcune delle quali talmente immense - più lunghe della mia gamba - da spaventare non di rado i cavalli. V'erano branchi di numerose varietà diverse di delicate qazèl e di asini selvatici grossi e belli, chiamati in quelle regioni kulan. Quando li vedemmo per la prima volta, mio padre disse che sarebbe stato bello se avessimo potuto fermarci per catturarne alcuni, addomesticarli e portarli poi a vendere in Occidente, ove sarebbero stati pagati più dei muli che servono da cavalcature ai nobili e alle dame. Il kulan è davvero grosso come un mulo e ha la stessa testa tozza e la stessa coda corta, ma possiede un mantello dallo straordinario colore marrone scuro, mentre il ventre è chiaro, e si tratta di uno splendido animale. Non ci si stanca mai di vederne i branchi correre veloci e spiccare balzi e cambiare direzione all'unisono. Ma la gente del Karabil ci disse che il kulan non può essere addomesticato e cavalcato; gli uomini del posto lo apprezzano soltanto per la sua carne gustosa. Noi, e in particolare lo zio Maffeo, andammo frequentemente a caccia, in quel tratto del viaggio, per variare il vitto. A Mashhad, ognuno aveva acquistato un compatto arco alla mongola, con una buona scorta di corte frecce, e mio zio si era esercitato fino a diventare esperto con quell'arma. Di norma, cercavamo di evitare i branchi di qazèl e di kulan, in quanto temevamo che potessero essere seguiti da altri cacciatori: lupi o leoni, che a loro volta abbondano nel Karabil. Ma di quando in quando correvamo il rischio di avvicinarne uno furtivamente e numerose volte abbattemmo una qazèl e una volta anche un kulan. Quasi ogni giorno potevamo far conto su un'oca, un'anatra, una quaglia o una pernice. Quella carne fresca sarebbe stata quanto mai godibile, se non per una circostanza. Ho dimenticato quale fu la prima creatura che uccidemmo con una freccia, o chi di noi fu a colpirla. Ma, quando ci accingemmo a sventrarla per farla poi rosolare allo spiedo sopra il fuoco, scoprimmo che era infestata da una sorta di piccoli insetti ciechi, a decine e decine, attivi e brulicanti, conficcati tra la pelle e la carne. Disgustati, gettammo via la nostra preda e quella sera ci accontentammo, come nel deserto, di un pasto a base di cibi essiccati. Ma il giorno dopo abbattemmo qualche altro tipo di volatile e scoprimmo che era infestato nello stesso, identico modo. Io non so quale sia il demone che affligge ogni creatura vivente del Karabil. Gli indigeni ai quali lo domandammo non seppero dircelo, parvero non curarsene e addirittura manifestarono disprezzo per la nostra schizzinosità. E così, poiché tutta la cacciagione che mettemmo nel carniere era infestata nello stesso modo, costringemmo noi stessi a togliere i parassiti e a cucinare la carne; non ci fece ammalare e in ultimo finimmo con l'abituarci. Un'altra cosa che avremmo potuto trovare seccante - ma che invece, dopo il deserto, trovammo divertente - consistette nel fatto che per ben tre volte, mentre attraversavamo il Karabil, fummo costretti a superare l'ostacolo di un fiume. A quanto ricordo, erano il Tedzhen, il Kushka e il Takhta. Non si trattava di corsi d'acqua molto ampi, ma erano gelidi e profondi e vorticosi, in quanto dalle altezze dei Paropamisus precipitavano fino alle pianure del Karakum, ove sarebbero penetrati nelle Sabbie Nere, scomparendo. Sulla riva di ciascun fiume trovammo un karwansarai, e ognuno di essi forniva un servizio di traghetto, un genere di traghetto che trovai divertente. Ai nostri cavalli, liberati dalla sella, dai finimenti e dal carico, veniva semplicemente fatto attraversare a nuoto il corso d'acqua, cosa che riuscivano a fare con sicura padronanza di sé. Ma noi viaggiatori venivamo portati sulla riva opposta uno alla volta, con i nostri fardelli, da un traghettatore che spingeva un singolare tipo di zattera denominato masak. Ognuna di quelle zattere non era molto più grande di una tinozza e consisteva in una leggera struttura di legno tenuta a galla da una ventina circa di otri di pelle di capra gonfiati. Le masak erano ridicole a vedersi, con tutti quei monconi di zampe di capra che sporgevano tra i pali della struttura di legno, ma venni a sapere che esisteva una ragione per questo. La corrente di quei fiumi era impetuosa e gli uomini che pagaiavano riuscivano a governare assai poco zattere goffe come le masak, per cui esse straorzavano e dondolavano e giravano su se stesse e beccheggiavano in modo pazzesco mentre filavano diagonalmente da una riva all'altra. Per ogni traversata occorreva parecchio tempo, durante il quale le pelli di capra gonfiate perdevano aria, causando bolle e sibilando. Quando il masak cominciava ad affondare in modo allarmante nell'acqua, il traghettatore smetteva di pagaiare, scioglieva una delle zampe dei galleggianti e
vigorosamente soffiava in ognuno degli otri finché ridiventavano capaci di mantenerci a galla, dopodiché rifaceva con destrezza i nodi. Dovrei rettificare quanto ho detto prima, precisando che lo trovai un sistema divertente per attraversare fiumi soltanto "dopo" che, ogni volta, ero arrivato sano e salvo sulla riva opposta. Durante le turbolente traversate, provai sensazioni diverse: un misto di capogiri, di gelo causato dall'essere completamente bagnato, di nausea e di aspettativa dell'imminente annegamento. Al traghetto del Kushka, rammento, un'altra karwan si stava accingendo ad attraversare il fiume e noi, guardando, ci domandammo come vi sarebbe riuscita, in quanto era formata da numerosi carri trainati da cavalli. Ma questo non dissuase i traghettatori. Staccarono i cavalli e li spinsero a nuoto verso la riva opposta. Poi fecero numerosi viaggi con le zattere per traghettare gli uomini e i carichi dei carri. Infine, man mano che ogni carro era stato vuotato, lo portarono sulla riva del fiume fino a far poggiare ognuna delle quattro ruote su uno dei piccoli masak e fecero la traversata con quattro di essi contemporaneamente. Era uno spettacolo a vedersi: ogni carro che dondolava e danzava e piroettava sul fiume, mentre i traghettatori, a ciascun angolo, ora pagaiavano come Caronte per avanzare, ora soffiavano come Eolo per mantenere gonfi gli otri di pelle di capra. Devo far rilevare che i karwansarai sui fiumi del Karabil fornivano un servizio di traghetto migliore dei pasti. Soltanto in un karwansarai consumammo un pasto decente, unico, in effetti, nella nostra esperienza fino ad allora: enormi e gustose bistecche ricavate da un pesce appena pescato nel fiume davanti alla porta. Le bistecche erano talmente immense che ci meravigliammo e chiedemmo il permesso di andare in cucina a vedere il pesce dal quale erano state ricavate. Si chiamava ashyotr ed era più grosso di un uomo robusto, più grosso dello zio Maffeo e, anziché da squame, era rivestito da una corazza di piastre ossee, e sotto il lungo muso gli pendevano bargigli simili a baffi. Oltre ad essere ricco di carne edibile, l'ashyotr forniva nere uova, ognuna delle dimensioni di una piccola perla, e noi gustammo anche queste, salate e compresse così da formare una ghiottoneria denominata khavyar. Ma negli altri karwansarai il cibo era spaventoso, senza che ciò fosse giustificato da alcun motivo, tenuto conto dell'abbondanza di cacciagione da quelle parti. Ogni proprietario di karwansarai sembrava persuaso di dover servire ai suoi ospiti qualcosa che non avessero mangiato di recente. Poiché noi avevamo gustato ghiottonerie come oche e anatre selvatiche e qazèl femmine, essi ci servivano carne di montone. Il Karabil non è una regione di greggi e questo significava che la carne aveva viaggiato almeno a lungo quanto noi, con ogni probabilità, per arrivare sin lì dal luogo di origine. La carne di montone aveva smesso già da molto tempo di piacermi, e quella, in particolare, era essiccata e salata e dura, e non esistevano né olio, né aceto, né alcun'altra cosa per condirla, ma soltanto fortissimo pepe rosso, e inoltre essa veniva invariabilmente servita con un contorno di fagioli lessati in acqua zuccherata. Dopo numerosi di questi pasti che fermentano e producono gas nell'intestino, avremmo potuto, probabilmente, sostituire gli otri di pelle di capra per tenere a galla le zattere masak. Ma, per dire qualcosa di buono dei karwansarai del Karabil, essi facevano pagare il vitto e l'alloggio soltanto ai clienti umani e non quello degli animali delle karwan. Questo perché la legna era quasi introvabile e le bestie pagavano il conto lasciando i loro escrementi da essiccare per essere poi bruciati. La prima città di una certa importanza nella quale giungemmo fu Balkh; nei tempi antichi era stata davvero importante: vi si trovava uno dei principali accampamenti di Alessandro e costituiva uno dei più frequentati luoghi di sosta per i mercanti delle karwan che percorrevano la Via della Seta; v'erano bazar gremiti e templi maestosi e lussuosi karwansarai. Ma il caso aveva voluto che venisse a trovarsi sul cammino delle prime ondate di Mongoli lanciati all'attacco delle fortezze in Occidente: mi riferisco alla primissima orda mongola comandata dall'invincibile Gengis Khan, e, nell'anno 1220, l'orda aveva schiacciato Balkh come un piede che calzi uno stivale potrebbe schiacciare un formicaio. Era trascorso più di mezzo secolo quando mio padre, zio Maffeo, il nostro schiavo ed io giungemmo a Balkh, ma la città non aveva ancora potuto riprendersi da quel disastro. Balkh era una grandiosa e nobile rovina, ma pur sempre una rovina. Continuava forse ad essere affaccendata e
prospera come in passato, ma le sue locande, e i granai e i magazzini non erano altro che sudicie baracche messe insieme alla meglio con i mattoni rotti e le travi spezzate rimaste dopo la devastazione. Sembravano ancor più squallide e più patetiche in quanto si trovavano tra i monconi di colonne un tempo torreggianti, tra le macerie di mura un tempo formidabili e tra gli scheletri frastagliati di cupole un tempo perfette. Naturalmente, ben pochi degli abitanti di Balkh avevano un'età abbastanza avanzata per essere stati presenti durante il saccheggio della città da parte di Gengis, o prima ancora, quando essa era conosciuta ovunque come Balkh Umm-al-Bulud, la «Madre delle Città». Ma i loro figli e nipoti, che erano adesso i proprietari delle locande, dei magazzini e così via, sembravano storditi e disperati come se la devastazione avesse avuto luogo appena il giorno prima, e sotto i loro stessi occhi. Quando parlavano dei Mongoli, recitavano quella che doveva essere una litania imparata a memoria da ogni abitante di Balkh: «Amdand u khandand u sokhtand u kushtand u burdand u raftand», che ali'incirca significa: «Sono venuti e hanno massacrato e hanno incendiato e hanno saccheggiato e si sono impadroniti del bottino per poi proseguire.» Erano andati oltre, sì, ma quell'intera regione, al pari di tante altre, continuava ad essere tributaria e alleata del Khanato mongolo. La tetraggine degli abitanti di Balkh era comprensibile, in quanto una guarnigione mongola continuava a rimanere accampata nei pressi della città. Guerrieri mongoli armati fendevano le folle nei bazar, un memento del fatto che il nipote di Gengis, il Khakhan Qubilai, continuava a tenere il pesante stivale sospeso su Balkh. E i magistrati e gli esattori delle tasse da lui nominati continuavano a scrutare attenti, oltre le spalle della gente, l'attività dei numerosi venditori e dei cambiavalute. Potrei dire, come ho già detto prima, e veridicamente, che ovunque, a est del bacino del fiume Furat, sino ai lontani confini occidentali della Persia, noi viaggiatori avevamo attraversato i territori del Khanato mongolo. Ma, se avessimo così semplicisticamente segnato le nostre carte (limitandoci a scrivere «Khanato mongolo» su tutta quella vasta parte del mondo) tanto sarebbe valso non disporre affatto di carte. Sarebbero potute servire ben poco sia a noi, sia ad altri, senza un maggior numero di particolari. Prevedevamo di ripercorrere i nostri passi, un giorno, quando avremmo fatto ritorno in patria, e speravamo inoltre che le carte sarebbero state utili anche in seguito, per guidare intere correnti di traffici svolgentisi avanti e indietro tra Venezia e il Catai. Così, quasi ogni giorno, mio padre e mio zio tiravano fuori la copia del Kitab in nostro possesso e soltanto dopo lunghe consultazioni e deliberazioni, e dopo essere pervenuti a un accordo, segnavano sulle carte i simboli che rappresentavano montagne e fiumi, città e deserti nonché altre caratteristiche del terreno. Questo era divenuto, adesso, un compito ancor più necessario di prima. Dalle sponde del Levante e fino all'Asia, a Balkh e dintorni, il cartografo arabo Al-Idrisi aveva dimostrato di essere per noi una guida sicura. Come era stato detto da mio padre molto tempo prima, lo stesso Al-Idrisi doveva aver viaggiato a un certo momento in tutte quelle regioni e averle vedute con i suoi stessi occhi. Ma, dai dintorni di Balkh all'est, Al-Idrisi sembrava essersi basato su quanto aveva sentito dire da altri viaggiatori, e da viaggiatori, per giunta, non molto capaci di osservare. I fogli del Kitab che si riferivano alle regioni situate più a oriente erano considerevolmente privi di particolari e le caratteristiche più importanti del terreno che mostravano - i fiumi e le catene montuose, ad esempio - risultavano essere segnate, il più delle volte, nei punti sbagliati. «Inoltre le carte, da qui in poi, sembrano eccessivamente "piccole"» disse mio padre, fissando accigliato quei fogli. «Sì, per Dio» esclamò zio Maffeo, grattandosi e tossendo. «Esistono territori infinitamente più vasti di quelli che indica lui tra qui e l'oceano orientale.» «Bene» disse mio padre «dovremo essere ancora più attenti nel completare le carte.» Lui e zio Maffeo riuscivano di solito a trovarsi d'accordo, senza lunghe discussioni, per quanto concerneva l'indicazione di montagne e corsi d'acqua e città e deserti, poiché queste erano cose che potevamo vedere e delle quali potevamo valutare le dimensioni. A richiedere lunghe deliberazioni e discussioni, e talora pure supposizioni, era l'indicazione delle cose invisibili, vale a dire i confini delle nazioni. Si trattava di un compito la cui difficoltà era esasperante, e questo soltanto in parte
perché l'estendersi del Khanato mongolo aveva inghiottito un così gran numero di Stati e di Nazioni un tempo indipendenti, e persino di intere razze, al punto da rendere irrilevante, tranne che per un cartografo, la questione di sapere dove si fossero trovati e dove terminassero e dove corressero i confini tra essi. L'impresa sarebbe stata difficile anche se qualche rappresentante di ogni nazione fosse venuto con noi a indicarne i confini. Direi che l'impresa sarebbe enorme anche nella nostra penisola italiana, ove ancor oggi non esistono due sole città-stato che riescano ad accordarsi sui limiti delle rispettive sfere di territorio e di autorità. Ma nell'Asia Centrale, i territori delle nazioni e le loro frontiere e persino i loro stessi nomi avevano continuato a mutare già molto tempo prima che i Mongoli rendessero controverse tali questioni. Farò un esempio. In qualche punto, durante le lunghe tappe da Mashhad a Balkh, avevamo attraversato la linea invisibile che, ai tempi di Alessandro, segnava il confine tra due regioni note un tempo come Arya e Bactriana. Ma ora quella linea segna - o almeno lo segnava fino all'arrivo dei Mongoli - il confine tra le regioni della Più Grande Persia e della Più Grande India. Ma consentitemi di fingere per un momento che il Khanato mongolo non esista, allo scopo di dare un'idea della confusione che regnò, nel corso della storia, lungo quell'impreciso confine. L'India può essere stata abitata una volta, in tutta la sua vastità, da quel piccolo e scuro popolo che noi conosciamo attualmente come gli Indiani. Ma, molto tempo fa, le incursioni di popoli più vigorosi e più coraggiosi spinsero quegli originari Indiani in un territorio sempre e sempre meno vasto, per cui al giorno d'oggi l'India indù trovasi molto lontana, a sud e a est da qui. In questa India settentrionale ariana dimorano i discendenti degli invasori di quel lontano passato, e la loro religione non è quella indù, ma quella musulmana. Ogni più piccola tribù si autoproclama nazione, attribuisce un nome a tale nazione e asserisce che essa ha confini i quali vanno segnati sulle carte. Quasi tutti i nomi di luoghi, da queste parti, terminano con la desinenza «stan», che significa «terra di»: Khaljistan vuoi dire terra dei Khalji, e così Pashtunistan, e Kohistan e Afghanistan e Nuristan, e non rammento più quante altre. Nei tempi antichi, in qualche località di questa regione, o nell'allora Arya, o nell'allora Bactriana, Alessandro il Grande, durante la marcia di conquista verso l'est, conobbe la Principessa Roxana, e se ne innamorò e la prese in moglie. Nessuno sa dire esattamente dove questo accadde o di quale «famiglia reale» tribale facesse parte Roxana. Ma al giorno d'oggi, da queste parti, ognuna delle tribù locali - i Pashtuni, i Khalji, gli Afghani, i Kirghisi e tutte le altre - si vanta di discendere, in primo luogo, dalla stirpe regale che generò Roxana, e, in secondo luogo, dai Macedoni dell'esercito di Alessandro. Può anche darsi che queste asserzioni siano giustificate in parte. Sebbene quasi tutte le persone che si vedono a Balkh e nei dintorni abbiano i capelli e la pelle e gli occhi scuri come presumibilmente li aveva anche Roxana, non mancano tra esse molti individui dalla carnagione chiara, dagli occhi azzurri o grigi e dai capelli rossicci o persino biondi. Tuttavia, ogni tribù sostiene di essere l'"unica" vera discendente e, in base a ciò, rivendica l'esclusiva sovranità su tutte le regioni che costituiscono attualmente l'India ariana. A me questo sembrava essere un ragionamento ipocrita, in quanto, essendo Alessandro giunto tardivamente lì, e trattandosi di uno sgradito saccheggiatore, tutti gli abitanti dei luoghi - tranne forse la Principessa Roxana - avrebbero dovuto provare nei confronti dei Macedoni quello che provano adesso nei confronti dei Mongoli. La sola cosa che, constatammo, condividevano tutti i popoli della regione era la religione dell'Islam, giunta lì ancor più tardivamente. In armonia con la costumanza musulmana, pertanto, potemmo conversare esclusivamente con persone di sesso maschile, e questo rese scettico lo zio Maffeo per quanto concerneva le vanterie sul loro lignaggio. Egli soleva citare un antico distico veneziano: "La mare xe segura El pare de ventura". Questo equivale a dire che soltanto la madre può sapere con certezza chi ha generato ognuno dei suoi figli.
Mi sono riferito a questo intricato e sconnesso periodo storico soltanto per far capire come esso contribuisse alle frustrazioni di noi pretesi cartografi. Ogni qual volta mio padre e mio zio si mettevano a sedere insieme per decidere quali indicazioni segnare sulle carte, nella speranza di poterlo fare con chiarezza, la conversazione si svolgeva oscuramente in questo modo: «Tanto per incominciare, Maffeo, questa regione si trova nella parte del Khanato che è governata dall'Ilkhan Caidu. Però dobbiamo essere più specifici.» «Specifici come, Nico? Non sappiamo in qual modo Caidu o Qubilai o qualsiasi altro mongolo denominano ufficialmente la regione. Tutti i cosmografi dell'Occidente si limitano a chiamarla India Ariana, o Più Grande India.» «Non vi hanno mai messo piede. L'occidentale Alessandro sì, invece, e la chiamò Bactriana.» «Ma quasi tutta la gente del posto la chiama Pashtunistan.» «D'altro canto, Al-Idrisi l'ha segnata come Mazar-i-Sharif.» «Gesù! Occupa soltanto lo spazio di un pollice, sulla carta. Vale la pena di attribuirle tanta importanza?» «L'Ilkhan Caidu non manterrebbe qui una guarnigione se questi territori non valessero nulla. E il Khakhan Qubilai vorrà accertare con quale precisione abbiamo tracciato le carte.» «E va bene.» Con un sospiro di esasperazione, riprese: «Riflettiamoci su attentamente, senza perdere la calma...»
2. Indugiammo a Balkh per qualche tempo, non perché si trattasse di una città attraente, ma perché all'est v'erano alte montagne, sulla strada che dovevamo percorrere. E in quella stagione, persino lì, in basso, la neve era alta sul terreno, ragion per cui ci rendevamo conto che le montagne non sarebbero potute essere superate se non, forse, a primavera inoltrata. E poiché dovevamo pure svernare in qualche luogo, decidemmo che il nostro karwansarai, a Balkh, era abbastanza confortevole per trascorrervi almeno una parte dell'attesa. Il cibo era buono, abbondante e abbastanza vario, come sembrava logico che fosse in un crocicchio così importante dei commerci. Venivano serviti tipi di pane eccellenti, numerosi pesci diversi, e la carne, pur essendo di montone, era cotta a fuoco vivo in un modo gustoso detto shashlik. Non mancavano i saporiti meloni invernali e le melagrane, ben conservati, oltre a tutta la solita frutta secca. Non esisteva il qahwah, da quelle parti, ma v'era un'altra bevanda bollente chiamata cha, ricavata da foglie macerate, rianimatrice quasi quanto il qahwah e ugualmente fragrante, sebbene in modo diverso, oltre ad essere assai meno densa. I contorni di verdura continuavano ad essere costituiti dai fagioli, e l'altra portata immancabile nei pasti consisteva nell'eterno riso, ma noi offrimmo alla cucina un pezzetto di zafràn tolto da una forma, rendendo così il riso appetitoso e facendo sì che ogni altro ospite di quel karwansarai lodasse i cuochi. Poiché lo zafràn costituiva una novità inuguagliabile a Balkh, come lo era stato in altri luoghi, disponevamo di denaro a sufficienza per acquistare qualsiasi cosa che ci occorresse o che desiderassimo. Mio padre scambiava frammenti della forma di zafràn con le monete del regno e quando, talora, un mercante sapeva essere abbastanza eloquente, si degnava di vendergli un bulbo o due, o tre, in modo che il khaja potesse cominciare a coltivare i propri crochi. Per ogni bulbo mio padre chiedeva e otteneva un certo numero di gemme di berillo o di lapislazzulo, pietre delle quali questa regione è la più importante fornitrice a tutto il mondo; e quelle valevano davvero un gran numero di monete. Pertanto disponevamo di denaro in abbondanza, sebbene non avessimo ancora nemmeno aperto gli scroti di cervo contenenti il muschio. Acquistammo vestiario pesante per l'inverno, di lana e di pelliccia, confezionato nello stile locale. In quei luoghi, l'indumento principale era il chapon che, a seconda della necessità, poteva servire sia come cappotto, sia come coperta o come tenda. Era goffo e buffo, ma la gente, in realtà, badava non già a come stava addosso, ma al suo colore, poiché il colore era l'indizio della ricchezza di una
persona. Quanto più il chapon aveva un colore chiaro, tanto più riusciva difficile mantenerlo pulito e tanto più si spendeva per farlo pulire, la qual cosa significava come chi lo indossava si curasse ben poco di tale spesa; per cui un chapon bianco come la neve voleva dire che il suo proprietario era un uomo tanto ricco da poter essere criminosamente spendaccione. Sia il babbo, sia lo zio Maffeo, sia io, scegliemmo un chapon di colore intermedio, fulvo, che stava ad attestare una modesta via di mezzo tra l'opulenza e il color marrone scuro del chapon che acquistammo per il nostro schiavo Narice. Calzammo inoltre gli stivali che si usano da quelle parti, chiamati chamus; avevano una suola di cuoio flessibile ma resistente, cucita ad un gambale di soffice pelle che arrivava fino al ginocchio e che veniva tenuto stretto mediante strisce di cuoio avvolte intorno al polpaccio. Barattammo anche le nostre selle per le zone pianeggianti e dovemmo inoltre aggiungere una considerevole somma di denaro per acquistare nuove selle con alti pomoli e con arcioni posteriori che ci avrebbero trattenuti più saldamente sui pendii. Il tempo che non dedicavamo agli acquisti o ai baratti nei bazar lo impiegavamo in altri modi. Lo schiavo Narice foraggiava e accudiva e strigliava i cavalli, mantenendoli in gran forma, e noi Polo conversavamo con altri viaggiatori delle karwan. Riferivamo loro le nostre osservazioni sulle carovaniere a ovest di Balkh e quelli di loro che giungevano dall'oriente ci davano notizie sulle piste laggiù. Mio padre scrisse faticosamente una lettera di parecchie pagine a Donna Fiordalisa, descrivendole i nostri viaggi e assicurandole che godevamo di buona salute, e la consegnò al capo di una carovana diretta all'ovest, affinché incominciasse il lungo viaggio fino a Venezia. Gli feci osservare che la lettera avrebbe avuto maggiori probabilità di arrivare a destinazione se l'avesse spedita dall'altro lato del Grande Sale. «E' quello che ho fatto» rispose lui. «Ne ho consegnata un'altra a una carovana diretta all'ovest da Kashan.» Gli feci osservare inoltre, sia pur senza rancore, che avrebbe potuto mandare notizie nello stesso modo anche a mia madre. «E' quello che ho fatto» egli ripeté. «Scrivevo una lettera ogni anno a lei e a Isidoro. Non avevo modo di sapere che non erano mai arrivate. Ma, a quei tempi, i Mongoli stavano ancora conquistando nuovi territori, non si limitavano a occuparli, e la Via della Seta era ancor meno sicura di oggi per la corrispondenza.» La sera, lui e zio Maffeo dedicavano molte devote fatiche, come ho già detto, all'aggiornamento delle carte geografiche, ed io facevo altrettanto per quanto concerneva il mio diario, con gli appunti presi fino ad allora. Mentre li rivedevo, trovai i nomi delle Principesse Falena e Sole, ormai così lontane a Bagdad, e divenni acutamente conscio del fatto che non mi ero più giaciuto con una donna per così lungo tempo. Non che mi occorresse quel memento, in realtà; avevo finito con l'essere proprio stufo dell'unico surrogato: condurre la guerra dei preti nel cuore di una notte sì e una no, circa. Ma ho già accennato al fatto che i Mongoli, non avendo una loro percettibile religione organizzata, non ostacolavano le religioni praticate dai popoli asserviti, né interferivano nelle leggi osservate da quei popoli. Così, Balkh continuava a rientrare nella sfera dell'Islam e continuava ad attenersi alla shariyah, la legge dell'Islam, e tutte le donne che risiedevano nella città, o rimanevano in casa, prigioniere di un severo pardah, oppure uscivano soltanto coperte e rese invisibili dal chador. Per me, avvicinarne audacemente una avrebbe significato, anzitutto, correre il rischio che si trattasse di una vecchia megera come Sole, e, quel che era peggio, espormi alla probabile furia degli uomini della sua famiglia, o degli imam e dei mufti della legge islamica. Narice, naturalmente, aveva trovato uno dei suoi consueti e perversi (ma legali) sfoghi per i propri impulsi animaleschi. In ogni karwan che sostava a Balkh, ogni musulmano che non fosse accompagnato dalla moglie o dalla concubina, o da due o tre concubine, disponeva dei suoi kuch-isafari. Questa parola significa mogli viaggianti, ma in realtà si trattava di ragazzi, mantenuti per servire come surrogati di mogli, e non esisteva alcun divieto della sharaiyah contro il fatto che gli stranieri pagassero per condividerne i favori. Sapevo che Narice si era affrettato a fare proprio questo, poiché, a furia di moine, era riuscito a spillarmi il denaro occorrente. Ma io non ero tentato
di imitarlo. Avevo veduto i kuch-i-safari, ma senza mai scorgere uno solo tra essi che potesse essere sia pur remotamente paragonato al defunto Aziz. Così continuavo a desiderare, a bramare e a concupire, ma senza trovare nessuna donna da fare oggetto della mia lussuria. Potevo soltanto fissare intensamente ogni fagotto ambulante che incontravo per le strade e tentare invano di immaginare che genere di femmina fosse contenuta entro quella balla di tessuti. Ma, anche limitandomi a fare questo, mi esponevo al pericolo di subire l'ira degli abitanti di Balkh. Essi chiamano questi oziosi sbirciamenti «adescare Eva» e li condannano come una perversione. Nel frattempo, anche zio Maffeo rispettava il celibato, e quasi con ostentazione. Per qualche tempo supposi che si comportasse in quel modo perché continuava ad affliggersi a causa di Aziz. Ma ben presto divenne manifesto che stava semplicemente divenendo troppo debole fisicamente per impegnarsi in una qualsiasi relazione. L'ostinata tosse di lui andava facendosi, da qualche tempo a quella parte, sempre più insistente. Ormai lo aggrediva con accessi talmente devastatori da lasciarlo fiacco, in seguito, e da costringerlo a mettersi a letto per riposare. Sembrava abbastanza arzillo e continuava ad avere un aspetto robusto come sempre, con un colorito sano. Ciò nonostante, a questo punto, quando cominciò a trovare spossante fino all'intollerabilità semplicemente andare a piedi dal nostro karwansarai al bazar e ritorno, mio padre ed io sormontammo le sue solite proteste e chiamammo un hakim. Orbene, questa parola, hakim, significa semplicemente «savio» e non necessariamente «istruito in medicina o professionalmente capace ed esperto», e può essere attribuita come titolo a chi davvero lo merita - come ad esempio un fido medico di corte - ma anche a chi non lo merita, come un indovino dei bazar o un vecchio accattone che raccoglie e vende erbe. Per conseguenza, temevamo alquanto di non riuscire a trovare, da quelle parti, un vero «mèdego» con capacità professionali. Avevamo veduto molti abitanti di Balkh con malattie anche troppo manifeste, i più numerosi essendo uomini con gozzi penzolanti, delle dimensioni di uno scroto o di un melone, sotto la mascella e questo non ci ispirava una gran fiducia nelle arti mediche locali. Ma il proprietario del karwansarai ove alloggiavamo chiamò per noi un certo Hakim Khosro, nelle cui mani ponemmo zio Maffeo. Egli "sembrava" sapere il fatto suo. Gli bastò un breve esame diagnostico per dire a mio padre: «Vostro fratello è affetto dallo hasht nafri. Queste parole significano uno su otto, e la malattia viene così denominata perché un paziente su otto ne muore. Ma anche coloro che ne sono colpiti mortalmente, il più delle volte muoiono soltanto dopo molto tempo. Il jinn di questo morbo non ha alcuna fretta. Vostro fratello mi dice di soffrire dei disturbi da qualche tempo ed essi sono andati peggiorando soltanto a poco a poco.» «Si tratta di 'tisichessa', allora» disse mio padre, annuendo solennemente. Là da dove veniamo noi è denominata anche mal sottile. Può essere curata e vinta?» «Sette volte su otto, sì» rispose Hakim Khosro, abbastanza allegramente. «Tanto per cominciare, mi occorreranno certe cose che potranno essermi fornite dalla cucina.» Chiese al proprietario del karwansarai di portargli uova e semi di miglio e farina d'orzo. Poi scrisse alcune parole su un certo numero di foglietti di carta - «potenti versetti del Corano», disse - e applicò i foglietti al torace nudo di zio Maffeo, mediante tuorli d'uovo ai quali aveva mescolato i semi di miglio. «Il jinn di questa malattia sembra avere qualche affinità con i semi di miglio.» Infine si fece aiutare dal proprietario a spalmare e a strofinare farina dappertutto sul torace di mio zio, e lo avvolse strettamente in alcune pelli di capra, spiegandogli che ciò serviva a favorire «l'attiva sudorazione ed espulsione dei veleni del jinn.» «Che seccatura» borbottò zio Maffeo. «Non posso nemmeno grattarmi il gomito.» Poi cominciò a tossire. O la farina o il caldo eccessivo entro le pelli di capra gli causarono un accesso di tosse peggiore di ogni altro precedente. Avendo le braccia immobilizzate dalle pelli, non poteva né martellarsi il petto con i pugni per trovare un po' di sollievo, e neppure coprirsi la bocca, per cui la tosse continuò finché egli parve sul punto di soffocare, e la sua faccia accesa divenne ancor più rossa, e macchioline di sangue spruzzarono il bianco aba dell'hakim. Dopo aver subito per
qualche tempo questa tortura, mio zio impallidì, perdette i sensi, ed io credetti che fosse "davvero" soffocato. «No, non allarmatevi, giovanotto» disse l'Hakim Khosro. «Questo è il modo di guarire della natura. Il jinn di questa malattia non disturba il paziente quando il paziente non è consapevole di essere disturbato. Vedete, quando vostro zio è privo di sensi non tossisce.» «Gli basta morire, allora» dissi io, scettico, «e la tosse gli passerà definitivamente.» L'hakim rise, per nulla offeso, e disse: «Non siate neppure sospettoso. L'hasht nafri può essere fermato soltanto assecondando i ritmi della natura e a me non rimane che aiutare la natura. Guardate, ora rinviene, e l'accesso è passato.» «Gesù» bisbligliò fiocamente zio Maffeo. «Per il momento» continuò l'hakim «i rimedi più efficaci sono il riposo e la traspirazione. Il paziente deve restare a letto tranne quando sentirà la necessità di andare al mustarah, e la sentirà spesso, in quanto gli somministrerò anche un forte purgante. Vi sono sempre jinn nascosti nell'intestino, e non è certo un male liberarsene. Ogni volta che il paziente tornerà a letto dal mustarah, uno di voi - dato che io non sarò sempre qui - dovrà spalmargli di nuovo la farina d'orzo sul petto e avvolgerlo nelle pelli di capra. Ripasserò di tanto in tanto, per scrivere altri versetti da appiccicargli al torace.» Così, mio padre ed io e lo schiavo Narice facemmo a turno per curare zio Maffeo. Non si trattava di un compito faticoso - a parte il fatto che eravamo costretti a sopportare i suoi incessanti borbottamenti a causa dello sfinimento che lo costringeva al letto - e, dopo qualche tempo, mio padre decise che tanto sarebbe valso da parte sua sfruttare in un altro modo la nostra sosta a Balkh. Avrebbe affidato Maffeo a me e lui e Narice si sarebbero recati nella capitale della regione a porgere il nostro omaggio al governante locale (il cui titolo era quello di sultano), facendogli inoltre sapere che eravamo gli emissari del Khakhan Qubilai. Naturalmente, quella città era una capitale soltanto di nome, e il Sultano, come lo Scià Zaman della Persia, governava soltanto simbolicamente, essendo agli ordini del Khanato mongolo. Ma il viaggio avrebbe consentito inoltre a mio padre di completare le carte geografiche con altri particolari e con denominazioni moderne. Ad esempio, il Kitab attribuiva a quella città il nome Kphes, e ai tempi di Alessandro si era chiamata Nikaia, ma lì noi l'avevamo sempre sentita chiamare Kabul. Pertanto il babbo e Narice sellarono due dei nostri cavalli e si accinsero a recarsi là. La sera prima della partenza, Narice si appartò con me. A quanto pareva, si era accorto della mia situazione derelitta e senza amore, e forse sperava di tenermi lontano dai guai nel periodo durante il quale sarei rimasto solo a Balkh. Disse: «Padron Marco, v'è una certa casa, in questa città. E' la casa di un Gebr e vorrei che andaste a darle un'occhiata.» «Di un Gebr?» dissi io. «Che cos'è, qualche specie di bestia rara?» «Non proprio tanto rara, ma bestiale sì. I Gebr sono i Persiani non redenti che non hanno mai accettato l'illuminazione del Profeta (benedizioni e pace scendano su di Lui). Queste persone continuano ad adorare Ormuzd, lo screditato dio del fuoco dei tempi antichi, e si dedicano a molte perfide pratiche.» «Oh» feci io, disinteressandomi. «Perché dovrei recarmi nella casa di un'altra bastarda religione pagana?» «Perché questo Gebr, non essendo vincolato dalla legge musulmana, ignora logicamente ogni decenza. Sulla facciata della sua casa v'è una bottega che vende tessuti fatti di amianto, ma nel retro l'edificio è una casa di appuntamenti, ceduta dal Gebr agli amanti illeciti per i loro convegni segreti. Per la barba del Profeta, si tratta di un vero e proprio abominio!» «E cosa vorresti che facessi io? Vai tu a denunciare la cosa a un mufti, se ci tieni.» «Senza dubbio dovrei regolarmi in questo modo, essendo un devoto musulmano, ma per il momento non lo farò. Non lo farò finché non avrete accertato voi stesso l'abominio del Gebr, Padron Marco.» «Io? Che diavolo importa a me?»
«Non siete forse, voi Cristiani, ancor più scrupolosi di noi per quanto concerne la moralità altrui?» «Io non detesto gli amanti» dissi, con una nota di autocompatimento nella voce. «Li invidio, anzi. Potessi avere io una donna da condurre alla porta di servizio della casa di questo Gebr!» «Be', lui si rende colpevole anche di un altro grave reato contro la moralità. Per quelli che non hanno una loro amante, il Gebr ospita due o tre giovani donne, disponibili a pagamento.» «Hmmm. Questa comincia ad aver l'aria di una cosa riprovevole. Hai fatto bene a richiamare la mia attenzione, Narice. E ora, se tu mi dicessi dove si trova questa casa, ricompenserei adeguatamente la tua vigilanza quasi cristiana...» E così, l'indomani, una giornata nevosa, dopo che lui e mio padre erano partiti, diretti a sud-est, e dopo essermi accertato che lo zio Maffeo fosse bene avvolto nelle pelli di capra, mi recai nella bottega che Narice mi aveva mostrato. V'era un banco sul quale si ammonticchiavano rotoli e pezze di un tessuto molto pesante; vi si trovava inoltre un vaso di pietra contenente naft che faceva ardere con una vivida fiamma gialla lo stoppino; dietro il banco vidi un vecchio persiano la cui barba era colorata di rosso con l'henné. «Mostrami le tue mercanzie più morbide» dissi, come Narice mi aveva consigliato di dire. «La stanza sulla sinistra» rispose il Gebr, indicando con la barba una tenda a perline in fondo alla bottega. «Fa un dirham.» «Vorrei» specificai «mercanzia di primissima qualità.» Egli sbuffò, beffardo. «Mostrami una sola bella donna tra le zotiche di questo paese, e sarò io a pagare "te". Sii contento perché la merce è pulita. Un dirham.» «Oh, be', qualsiasi acqua va bene per spegnere gli incendi» dissi io. L'uomo si accigliò come se gli avessi sputato in faccia ed io mi resi conto che non era stata la cosa più gentile da dire a una persona che, a quanto pareva, adorava il fuoco. Mi affrettai a mettere la moneta sul banco e a scostare la tenda frusciante. Su tutte le pareti della piccola stanza si trovavano appesi rami di carrubo, a causa del loro soave profumo; l'arredamento consisteva soltanto in un braciere contenente carbone e in un charpai, vale a dire un letto rudimentale costituito da una intelaiatura di legno sulla quale si intersecavano corde. La ragazza non era più graziosa in viso dell'unica altra femmina che avessi pagato per servirmene, Margherita della chiatta. Questa apparteneva ovviamente a qualche tribù locale, poiché parlava il dialetto più diffuso, il pashtu, e conosceva soltanto uno scarso numero di parole del "farsi" dei commerci. Se anche mi disse qual era il suo nome, non lo afferrai, in quanto chiunque parli il pashtu, sembra che si stia ripetutarnente e rapidamente schiarendo la gola e al contempo che sputi e starnutisca. Ma la ragazza era, come aveva asserito il Gebr, alquanto più pulita di quanto lo fosse stata la mia prima avventura. In effetti, si lagnò inequivocabilmente perché non lo ero "io", e non senza qualche motivo. Per venire lì non avevo indossato i vestiti appena acquistati; erano troppo voluminosi e si faticava alquanto indossandoli e togliendoseli. Mi ero messo gli indumenti che avevo indossato attraverso il Grande Sale e il Karabil, e presumo che non fossero precisamente olezzanti. Senza dubbio erano talmente incrostati di sabbia, di sudore, di sporcizia e di sale che sarebbero quasi potuti rimanere in piedi anche una volta tolti. La ragazza li tenne a braccia tese, afferrandoli appena con le punte delle dita, e disse «sporchisporchi!» e «dahb!» e «bohut purana!» nonché numerosi altri suoni pashtu, tipo gargarismo che stavano ad attestare ripugnanza. «Mando tuoi, con miei, a pulire.» Rapidamente si spogliò a sua volta, fece un fagotto dei suoi panni insieme ai miei, sbraitò qualcosa che serviva evidentemente a chiamare un servo, e consegnò il fagotto fuori della porta. Confesso che la mia attenzione andava soprattutto al primo corpo femminile nudo da me veduto dopo Kashan; ciò nonostante, notai che le vesti della ragazza erano fatte con un tessuto ruvido e pesante il quale, sebbene più pulito dei miei abiti, sarebbe potuto quasi, a sua volta, restare ritto. Il corpo della giovane era più allettante del suo viso, essendo snello, ma con seni straordinariamente grandi, tondi e sodi per una figuretta così sottile. Doveva essere questa, supposi, una delle ragioni per cui la ragazza aveva scelto una carriera nella quale sarebbe stata tenuta a soddisfare
principalmente infedeli di passaggio. I Musulmani sono attratti molto di più da solide fondamenta, e non ammirano molto il seno delle donne, in quanto lo considerano soltanto una sorgente di latte. In ogni modo, spero che ella abbia fatto fortuna, nella carriera prescelta, prima di invecchiare e di sformarsi. Infatti, ogni donna di quelle tribù «alessandrine», molto prima dell'età matura, diviene talmente enorme che il seno un tempo splendido si tramuta in tutta una serie di cicciose mensole le quali scendono dai molti menti alle numerose pieghe dell'addome. Un altro motivo per cui sperai allora che la ragazza facesse fortuna consistette nel fatto che la carriera da lei scelta non le procurava ovviamente alcun piacere. Quando cercai di farle condividere il godimento dell'atto sessuale, eccitandola mediante solleticamenti della zambur, constatai che non l'aveva affatto. Sulla sommità arcuata della mihrab, ove si sarebbe dovuta trovare la minuscola chiave per accordare, non esisteva la benché minima sporgenza. Per un momento ritenni che ella fosse pateticamente deforme, ma poi mi resi conto che era tabzir, come esige l'Islam. Non possedeva altro, lì, che una soffice fessura di tessuti cicatriziali. Questa manchevolezza diminuì forse il piacere che provai eiaculando, poiché quando mi avvicinai al momento dello spruzzo e lei gridò: «Ghi, ghi, ghi-ghi!», intendendo «Sì, sì, sì-sì!», mi accorsi che si limitava a simulare l'estasi da parte sua e la cosa mi parve triste. Ma chi sono mai io per definire criminosi i precetti religiosi di altri popoli? D'altronde, scoprii ben presto di dovermi preoccupare a causa di ben altro. Il Gebr venne a bussare alla porta, urlando: «Che cosa pretendi per un solo dirham, eh?» Dovetti ammettere che avevo avuto l'equivalente del mio denaro e pertanto lasciai che la ragazza si rialzasse. Ella uscì, ancora nuda, dalla stanza per andare a prendere un catino colmo d'acqua e una salvietta, ordinando intanto, nel corridoio, che venissero riportati i panni lavati. Mise il catino, con l'acqua profumata di tamarindo, sul braciere a riscaldarsi e se ne stava servendo per lavarmi le parti intime quando di nuovo bussarono alla porta. Ma il servo si limitò a consegnare soltanto i vestiti della ragazza, con una lunga raffica di pashtu che doveva essere una spiegazione. La prostituta tornò verso di me, e disse, esitante: «Tuoi vestiti bruciare?» «Sì, presumo che brucerebbero. Dove sono?» «Non avuti» rispose lei, mostrandomi che aveva soltanto i suoi. «Ah, non volevi dire bruciare, volevi dire asciugare. E' così? I miei non sono ancora asciutti?» «No. Spariti. Tutti tuoi vestiti bruciati.» «Che cosa significa questo? Hai detto che sarebbero stati lavati.» «Non lavati. Puliti. Non in acqua. In fuoco.» «Hanno messo i miei vestiti nel "fuoco"? Sono "bruciati"?» «Ghi.» «Sei anche tu un'adoratrice del fuoco, o sei soltanto divané? Li hai mandati a lavare nel fuoco anziché nell'acqua? Olà, Gebr! Persiano! Olà, manutengolo!» «Niente fare storie» mi supplicò la ragazza, con un'aria impaurita. «Io ridare te dirham.» «Non posso attraversare la città indossando un dirham! Che razza di manicomio è questo? Perché mi avete bruciato i vestiti?» «Aspetta. Guarda.» Tolse un pezzo di carbone non ancora bruciato dal braciere e lo passò sulla manica della sua tunica, lasciandovi una traccia nera. Poi tenne la manica sopra le braci accese. «Allora sei divané!» esclamai io. Ma il tessuto non prese fuoco. Vi fu una sola breve vampata mentre bruciava la traccia nera. La ragazza tolse la manica dal fuoco per mostrarmi che era divenuta a un tratto immacolata, poi farfugliò un misto di pashtu e di farsi, il cui significato riuscii a poco a poco a dedurre. Il tessuto pesante e misterioso veniva sempre pulito in quel modo, e i miei panni erano rivestiti da una crosta talmente spessa che lei aveva creduto fossero fatti proprio con la stessa stoffa. «Va bene» dissi «ti perdono. E' stato uno sbaglio bene intenzionato. Ma intanto io non ho niente da mettermi. E ora come faccio?» Ella mi fece capire che avrei potuto scegliere tra due alternative. O lagnarmi con il suo padrone il Gebr e pretendere che mi procurasse nuovi indumenti, la qual cosa sarebbe costata a lei la paga della giornata e probabilmente anche percosse. Oppure indossare quello di cui poteva disporre lei -
vale a dire qualcosa di suo - e attraversare la città di Balkh mascherato da donna. Be', questo significava che non mi rimaneva alcuna scelta; dovevo comportarmi da gentiluomo e pertanto vestirmi da donna. Attraversai la bottega il più rapidamente possibile, ma mi stavo ancora aggiustando il chador, e il vecchio Gebr dietro il banco inarcò le sopracciglia, esclamando: «Mi hai preso sul serio! Mi stai mostrando una bella donna tra queste zotiche contadine!» Gli ringhiai uno dei pochi insulti pashtu che conoscevo: «Bahi chut!», vale a dire l'invito a fare una certa cosa alla propria sorella. Egli sghignazzò e mi gridò dietro: «Lo farei, se fosse graziosa come te!» mentre io correvo fuori sotto la nevicata ancora in corso. A parte qualche incespicamento di tanto in tanto, perché, tra i fitti fiocchi di neve e il velo del chador, quasi non riuscivo a scorgere il terreno, e a parte, inoltre, il fatto che incespicavo spesso nell'orlo della veste, tornai al karwansarai senza incidenti. Questo mi deluse un poco, poiché avevo percorso l'intero tragitto stringendo i denti, serrando i pugni e ribollendo di rabbia, nella speranza di sentirmi dire qualcosa di osceno o di vedermi strizzare l'occhio da qualche tanghero adescatore di Eva, per poterlo uccidere. Sgattaiolai nel karwansarai passando per una porta di servizio, inosservato, mi affrettai a indossare i miei panni e feci per gettar via quelli della ragazza; ma poi ci ripensai e ritagliai dalla veste un lembo quadrato di tessuto da conservare a titolo di curiosità; e con esso ho, dopo di allora, lasciato attonite molte persone per nulla disposte a credere che una qualsiasi stoffa potesse essere a prova di incendio. Orbene, già molto tempo prima di partire da Venezia avevo sentito "parlare" di una sostanza del genere. Avevo udito dire da alcuni preti che il Papa, a Roma, conservava tra le preziose reliquie della Chiesa un sudario, una pezzuola impiegata per asciugare la Santa Fronte di Gesù Cristo. Essa era stata resa talmente sacra da quell'impiego, dicevano, che non poteva più essere distrutta. Si sarebbe potuto gettarla nel fuoco e lasciarvela a lungo e toglierla miracolosamente intatta e non abbruciacchiata. Avevo udito inoltre un illustre medico contestare l'asserzione dei sacerdoti secondo i quali era stato il Santo Sudore a rendere il sudario impervio alla distruzione. Egli sosteneva che il sudario doveva essere stato tessuto con la lana della salamandra, la creatura che, stando ad Aristotele, vive comodamente nel fuoco. Rispettosamente devo contraddire sia i reverendi sacerdoti, sia il pragmatico seguace di Aristotele. Infatti mi presi la briga di informarmi sul tessuto che non brucia prodotto dai Gebr adoratori del fuoco e infine mi venne spiegato come lo si tesse, ed ecco qual è la verità. Sui monti nella regione di Balkh si trova una certa roccia soffice al tatto. Quando questa roccia viene macinata, non si sgretola formando granelli simili a quelli della sabbia, ma si scompone in fibre simili a quelle del lino grezzo. E queste fibre, dopo ripetute macerazioni, dopo essere state lavate, asciugate, nuovamente lavate e riasciugate, vengono filate. E' ovvio che con qualsiasi filato si può tessere un tessuto, ed è altrettanto ovvio che un tessuto ricavato dalla roccia non può bruciare. La curiosa roccia e le ruvide fibre e la magica stoffa tessuta con esse sono considerate dai Gebr sacre per il loro dio del fuoco Ahura Mazda; essi denominano la sostanza con una parola che significa «pietra non insudiciabile», e che io mi permetto di rendere, in una lingua più civilizzata, con il termine amianto.
3. Mio padre e Narice erano partiti da cinque o sei settimane e poiché zio Maffeo aveva bisogno della mia assistenza soltanto a intervalli, mi rimaneva parecchio tempo libero. Così tornai varie volte nella casa del Gebr persiano, sempre badando bene a indossare abiti che non avessero bisogno di essere «lavati». E ogni volta che pronunciavo le parole d'ordine, «Mostrami le tue mercanzie più morbide», il vecchio sussultava tutto per il gran ridere e tuonava: «Oh bella, "tu" sei la mercanzia più soffice e più seducente che sia mai entrata in questa bottega!» ed io dovevo sopportare le sue
sghignazzate finché, in ultimo, si calmavano divenendo risatine e lui intascava il dirham e mi diceva quale stanza era disponibile. In un momento o nell'altro, collaudai tutte e tre le mercanzie esistenti nel retrobottega. Ma tutte le ragazze erano musulmane pashtu e tabzir, e ciò significa che con esse potevo trovare soltanto uno sfogo, ma non un soddisfacimento degno di essere menzionato. Avrei potuto ottenere lo stesso risultato con i kuch-i-safari, e più a buon mercato. Non imparai nemmeno più di qualche parola di pashtu dalle ragazze, in quanto la ritenevo una lingua di gran lunga troppo sciatta perché valesse la pena di parlarla. Tanto per dare un esempio, il suono "gau", quando è pronunciato normalmente, espirando, significa «vacca»; ma la stessa parola «gau», pronunciata inspirando, vuol dire «vitello». Figuratevi dunque come suona in pashtu la semplice frase «la vacca ha un vitello», e poi cercate di immaginare come possa essere una conversazione un po' più complessa. Mentre attraversavo la bottega dei tessuti di amianto, però, scambiavo a volte qualche parola in "farsi" con il proprietario Gebr. Egli faceva di solito altri commenti beffardi a proposito del giorno in cui ero stato costretto a camuffarmi da donna, ma accondiscendeva altresì a rispondere alle domande che gli ponevo sulla sua singolare religione. Gli rivolgevo tali domande perché egli era il solo devoto di quell'antica religione persiana che avessi mai conosciuto. Ammetteva che rimanevano ormai ben pochi credenti, ma sosteneva altresì che un tempo la sua religione aveva regnato suprema, non soltanto in Persia, ma anche all'ovest e all'est, dall'Armenia alla Bactriana. E la prima cosa da lui dettami al riguardo fu che non avrei dovuto chiamare Gebr un Gebr. «Questa parola significa soltanto 'non musulmano' e viene pronunciata dai Musulmani con derisione. Noi preferiamo essere denominati Zarduchi, poiché siamo i seguaci del profeta Zaratushtra, il Cammello Dorato. Fu lui a insegnarci ad adorare il dio Ahura Mazda, il cui nome è stato ormai storpiato divenendo Ormuzd.» «Che significa fuoco» dissi io, con aria saputa, poiché così mi aveva detto Narice. E, con un cenno del capo, indicai la vivida lampada che sempre ardeva nella bottega. «"Non" fuoco» disse il vecchio, e parve infastidito. «E' una stolta eresia credere che noi adoriamo il fuoco. Ahura Mazda è il Dio della Luce, e noi ci limitiamo a mantenere accesa una fiamma come testimonianza della Sua benefica luce che respinge le tenebre dell'avversario di Lui, Ahriman.» «Ah» feci io «non è molto diverso, allora, dal nostro Signore Iddio, che lotta contro l'avversario Satana.» «No, non è affatto diverso. Il vostro Dio cristiano e Satana li avete presi dagli Ebrei, così come i Musulmani derivarono da essi il loro Allah e Shaitan. E il Dio e il demonio degli Ebrei erano scopertamente modellati sul nostro Ahura Mazda e su Ahriman. Altrettanto dicasi degli angeli del vostro Dio e dei demoni del vostro Satana, copiati dai nostri messaggeri celesti malakhim e dai loro antagonisti i daeva. Del pari, il vostro Paradiso e il vostro Inferno derivano dagli insegnamenti di Zaratushtra sulla natura della vita nell'aldilà.» «Oh, andiamo!» protestai. «Non ce l'ho con gli Ebrei o con i Musulmani, ma la Vera Religione non può essere una semplice imitazione della fede di qualche altro popolo...» Egli mi interruppe: «Guarda qualsiasi immagine di una divinità cristiana o di un angelo o di un santo. Sono raffigurati tutti con una luminosa aureola, non è forse così? Si tratta di un particolare fantasioso, ma fummo noi a immaginarlo per primi. Quell'aureola imita la luce della nostra eterna fiamma, la quale, a sua volta, simboleggia la luce di Ahura Mazda che in eterno splende sui Suoi messaggeri.» Questo sembrava essere tanto probabile che non potei contestarlo; ma neppure volli ammetterlo, naturalmente. Lui continuò: «Ecco perché noi Zarduchi siamo stati per secoli perseguitati e derisi e dispersi ed esiliati. Dai Musulmani, dagli Ebrei e anche dai Cristiani. Un popolo che si vanta di possedere l'unica vera religione deve asserire di averla per il tramite di qualche rivelazione esclusiva. Non piace, a tutti questi popoli, sentirsi ricordare che essa derivò semplicemente dalla fede originale di altre genti.» Tornai al karwansarai, quel giorno, pensando: la Chiesa è forse savia pretendendo dai Cristiani la fede e proibendo la ragione. Quante più domande io pongo, e quante più risposte ottengo, tanto
meno sembro sapere con certezza qualsiasi cosa. Camminando, tolsi una manciata di neve da un argine lungo il quale passavo, e la pigiai e formai una palla. Era rotonda e compatta, come una certezza. Ma, se la osservavo molto da vicino, la sua rotondità risultava essere invece una fitta moltitudine di punte e di spigoli. E, se l'avessi tenuta abbastanza a lungo nel cavo della mano, la solidità si sarebbe sciolta in acqua. Ecco qual è il pericolo della curiosità, pensai: tutte le certezze si suddividono in frammenti e si dissolvono. Un uomo abbastanza curioso e abbastanza ostinato potrebbe addirittura scoprire che la tonda e compatta sfera della Terra non è tale. E potrebbe sentirsi meno orgoglioso della propria capacità di ragionare se essa lo lasciasse privo di qualsiasi cosa su cui basarsi. Ma, d'altro canto, la verità non è forse una base più solida dell'emozione? Ho dimenticato se fu quel giorno o un altro che, una volta giunto al karwansarai, vi trovai mio padre e Narice tornati dal viaggio. V'era lì anche l'Hakim Khosro, e tutti e tre stavano parlando contemporaneamente intorno al letto dello zio Maffeo. «... Non nella città chiamata Kabul. Il Sultano Kutb-ud-Din ha ora una capitale molto più a sud di qui, in una grande città che si chiama Delhi...» «Non ci si può certo stupire se siete rimasti via così a lungo» commentò mio zio. «... abbiamo dovuto superare le maestose montagne attraverso un passo che ha nome Khaibar...» «... poi attraversare la regione chiamata Panjab...» «O, più propriamente, Panch Ab» intervenne l'hakim «che significa Cinque Fiumi.» «... ma ne valeva la pena. Il Sultano, come lo Scià di Persia, si è dimostrato ansioso di inviare doni, a titolo di tributo e in segno di fedeltà, al Khakhan...» «... per cui ora abbiamo un cavallo in più, carico di oggetti d'oro, di stoffe del Kashmir, di rubini e...» «Ma, quel che più conta», intervenne mio padre «come si sente il nostro ammalato, Maffeo?» «Svuotato» borbottò mio zio, grattandosi il gomito. «Da un lato ho espettorato, a furia di tossire, tutta la saliva che v'era in me, dall'altro ho espulso fino all'ultimo stronzo e all'ultima scoreggia, e nel frattempo ho continuato a sudare fino all'ultima goccia. Inoltre, sono infernalmente stufo di essere foderato dappertutto con amuleti di carta e infarinato in tutto il corpo come un bignè.» «A parte questo, le sue condizioni non sono cambiate» disse l'Hakim Khosro. «I miei sforzi per aiutare la natura a guarirlo non sono valsi a un granché. Mi fa piacere che siate di nuovo tutti riuniti, poiché ora vi consiglio di andarvene tutti da qui e di portare il paziente ancor più vicino alla natura. In alto sulle grandi montagne a est, ove l'aria è più limpida e più pura.» «Ma gelida» obiettò mio padre. «Fredda come la carità. Può mai essere che possa giovargli?» «L'aria fredda è l'aria più pulita» disse l'hakim. «Ho accertato questo mediante attente osservazioni e uno studio professionale. Una prova: i popoli che vivono in climi sempre freddi, come i Russniak, hanno la pelle di un bianco puro; i popoli dei climi caldi, come gli Indù dell'India, hanno la pelle di una sorta di colore fulvo. Vi esorto dunque a condurre il paziente su quelle fredde, pulite e candide alture dei monti, e a condurvelo al più presto.» Quando l'hakim e noi aiutammo lo zio Maffeo ad alzarsi, ad emergere dagli involucri di pelli di capra e a vestirsi per la prima volta dopo settimane, rimanemmo sgomenti constatando quanto era dimagrito. Sembrava ancor più alto di prima nelle vesti divenute all'improvviso troppo ampie per lui, mentre un tempo la sua robustezza le aveva tese lungo le cuciture. Era inoltre pallido, anziché di colorito acceso, e gli tremavano le gambe non più abituate a reggerlo, ma dichiarò di essere enormemente contento di ritrovarsi in piedi e di poter camminare. E in seguito, nella sala del karwansarai, quando cenammo quella sera, parlò con gli altri commensali, con la sua voce stentorea come sempre, chiedendo le informazioni più recenti sui sentieri di montagna, a est. Uomini che facevano parte di numerose altre karwan risposero, ci riferirono le condizioni attuali delle piste e ci diedero parecchi consigli concernenti i viaggi sulle montagne. Noi speravamo che quei consigli fossero pertinenti, ma non potevamo esserne sicuri, in quanto nessuno dei nostri informatori sembrava trovarsi d'accordo, sia pur soltanto per quanto concerneva i nomi delle montagne a est della città.
Uno di loro disse: «Quei monti sono gli Himalaya, la Dimora delle Nevi. Prima di salire lassù, acquistate una fiala di succo di papavero da portare con voi. Nel caso di cecità causata dalla neve, poche gocce negli occhi basteranno ad alleviare la sofferenza.» E un altro disse: «Quelli sono i Karakorum, i Monti Neri, i Monti Gelidi. E i torrenti alimentati dalle nevi, lassù, sono gelidi in tutte le stagioni dell'anno. Non consentite ai cavalli di abbeverarsi se non da un secchio contenente acqua un po' riscaldata, altrimenti i crampi daranno loro le convulsioni.» E un altro disse: «Quelle sono le montagne chiamate Hindukush, le Assassine degli Indù. Su un terreno così difficile i cavalli a volte si ribellano e diventano ingovernabili. Se dovesse capitarvi questo limitatevi a legare i peli della coda alla loro lingua e si calmeranno all'istante.» E un altro disse: «Quei monti hanno nome Pamir, che significa La Strada verso le Vette. L'unico foraggio che i vostri cavalli troveranno lassù è costituito da quei piccoli cespugli color lavagna e dall'odore pungente chiamati burtsa. Ma le vostre cavalcature riusciranno "sempre" a trovarli e i cespugli danno anche un'ottima legna per accendere il fuoco, essendo saturi di resina. Strano a dirsi, i burtsa quanto più sono verdi, tanto meglio bruciano.» E un altro disse: «Quei monti sono i Khwaja, i Dominatori. E lassù i Dominatori fanno sì che vi sia impossibile perdere l'orientamento, anche nella più fitta tormenta di neve. Rammentate soltanto che ogni montagna è arida sul versante sud. Se vedete alberi, o cespugli, o una qualsiasi vegetazione, non può che trovarsi sul versante nord.» E un altro disse: «Quei monti sono i Muztagh, i Custodi. Cercate di lasciarveli alle spalle completamente prima che la primavera si tramuti nell'estate, poiché allora comincia a infuriare il Bad-i-sad-obist, il terribile Vento dei Cento e Venti Giorni.» E un altro uomo ancora disse: «Quei monti sono il Trono di Salomone, i Takht-i-Sulaiman. Se dovesse investirvi un turbine di vento, lassù, potete essere certi che scaturisce da certe vicine caverne, il rifugio di uno dei demoni esiliati dal buon Re Salomone. Non dovrete fare altro che trovare la caverna, chiuderla con macigni, e il vento allora cesserà.» Così preparammo i fardelli, pagammo il proprietario del karwansarai, salutammo le persone con le quali avevamo fatto conoscenza e di nuovo ci mettemmo in cammino, mio padre, zio Maffeo, Narice ed io, con le nostre cavalcature e un quinto cavallo carico oltre ai due che trasportavano principeschi oggetti preziosi. Procedemmo direttamente a est da Balkh, attraversando villaggi denominati Kholm e Qonduz e Taliqan, che sembravano servire soltanto da mercati per gli allevatori di cavalli che risiedono in quella regione ebrea. Tutti, da quelle parti, allevano cavalli e non fanno che scambiarsi stalloni e giumente di razza con i loro vicini, nei mercati. I cavalli sono splendidi, paragonabili ai purosangue arabi, anche se non così eleganti per quanto concerne la forma della testa. Ogni allevatore sostiene che i suoi cavalli discendono dallo stallone Bucefalo di Alessandro. Ogni allevatore attribuisce questo merito soltanto ai propri animali, la qual cosa è ridicola, con tutto il commercio continuamente in corso. In ogni modo, non vidi mai cavalli, laggiù, che avessero la coda di pavone di Bucefalo, come è raffigurata nelle miniature del "Libro di Alessandro" da me letto e riletto nella fanciullezza. In quella stagione i pascoli erano coperti dalla neve, per cui non potemmo vedere come andasse diradandosi la vegetazione man mano che procedevamo a est. Ma ci rendemmo conto che era così, perché il terreno sotto la neve divenne dapprima sassoso, poi roccioso, e non attraversammo più villaggi e soltanto rari e mal tenuti karwansarai esistevano lungo la pista. Dopo esserci lasciati indietro l'ultimo villaggio, un gruppo di tuguri di pietre sovrapposte che si chiamava Keshem, sui primi contrafforti delle montagne, fummo costretti ad accamparci forse tre notti su quattro. Non era certo un modo idillico di vivere dover dormire, con il solo riparo delle tende e dei nostri chapon, sulla neve, tormentati dal gelo e dal vento ed essendo in genere costretti a sfamarci con le sole razioni da viaggio, viveri salati oppure essiccati. Avevamo temuto che quella vita all'aria aperta potesse essere particolarmente dura per lo zio Maffeo. Ma egli non si lagnò mai, nemmeno quando si lagnavano i sani. Sosteneva di sentirsi "effettivamente" meglio in quell'aria gelida e pungente, proprio come aveva previsto l'Hakim
Khosro; la tosse era diminuita e di recente non si accompagnava più a perdita di sangue. Lui lasciava che fossimo noi a sbrigare tutti i lavori pesanti, ma non consentiva che abbreviassimo le tappe a causa sua, e ogni giorno rimaneva in sella o, nei tratti più accidentati, marciava accanto al cavallo, instancabilmente come noi. Non ci stavamo affrettando, del resto, poiché sapevamo che avremmo dovuto fermarci per il resto dell'inverno non appena fossimo giunti ai piedi delle vere montagne. Inoltre, dopo qualche tempo su quella pista faticosa, costretti a nutrirci con cibi conservati, eravamo diventati tutti smunti quasi come zio Maffeo e non ci tenevamo affatto a sfinirci fino alla spossatezza. Soltanto Narice continuava ad essere panciuto, ma la pancia non sembrava più far parte di lui, era come un melone che egli portasse sotto le vesti. Quando arrivammo al fiume Ab-e-Panji, ne seguimmo a monte l'ampia vallata, in direzione est, e, da allora in poi, continuammo a salire, sempre più in alto rispetto al livello del resto del mondo. Quando si parla di una valle, di norma viene in mente una depressione nella superficie della terra, ma questa vallata è larga parecchi farsakh e costituisce una depressione soltanto in rapporto alle montagne che si levano a entrambi i lati. Se ci fossimo trovati in qualsiasi altro luogo del mondo, essa sarebbe venuta a trovarsi non già "sul" mondo, ma incommensurabilmente più in alto, tra le nubi, invisibile per gli occhi dei mortali, irraggiungibile, come il Paradiso. Non che somigli in qualsiasi modo al Paradiso, mi affretto a dirlo, in quanto è gelida e aspra e inospitale, e non certo olezzante e mite e accogliente. Il paesaggio era immutabile: l'immensa vallata, con un caos di rocce rotolate giù dai pendii e di cespugli, il tutto ammantato da trapunte di neve; il fiume spumeggiante e candido che scorreva nel fondovalle, e, molto lontane a entrambi i lati, le montagne bianche come denti, aguzze come denti. Nulla cambiava mai, lì, tranne la luce, che andava dalle aurore colorate come pesche dorate ai tramonti colorati come rose in fiamme, e nei periodi intermedi, cieli talmente turchini da essere quasi viola, tranne quando la valle veniva sovrastata da un tetto di nubi che sembravano fatte di lana grigia e bagnata e dalle quali scendeva neve o nevischio. Il terreno non si presentava pianeggiante in alcun luogo, essendo tutto una gran confusione di macigni e di sassi e di ghiaioni che dovevamo aggirare o attraversare con cautela. Ma, a parte questo continuo salire e scendere, la nostra ininterrotta ascesa rimaneva impercettibile alla vista, e avremmo quasi potuto supporre di trovarci ancora sulla pianura. Infatti, ogni sera, quando sostavamo per accamparci, le montagne, su entrambi gli orizzonti, sembravano avere la stessa, identica altezza della sera precedente. Ma questo soltanto perché le montagne stavano diventando più alte man mano che ci inerpicavamo su per quella vallata in pendio. Era come salire una scala la cui balaustra rimane sempre allo stesso vostro livello e, se non guardate al di là di essa, non vi rendete conto che tutto si sta abbassando e allontanando rispetto a voi. Ciò nonostante, avevamo vari modi per renderci conto del fatto che stavamo salendo continuamente. Uno di essi era il comportamento dei cavalli. Noi creature a due gambe, quando occasionalmente smontavamo per percorrere un tratto a piedi, potevamo non essere fisicamente consapevoli del fatto che ogni passo avanti ci portava altresì un pochino più in alto, ma gli animali con gambe anteriori e posteriori, sapevano benissimo di trovarsi sempre, o di muoversi, su un piano inclinato. E i cavalli, essendo animali muniti di buon senso, astutamente esageravano la loro andatura arrancante per farla apparire quanto mai faticosa, affinché noi non li costringessimo ad andare più in fretta. Un altro indizio dell'ascesa era il fiume che scorreva sul fondo della valle. L'Ab-e-Panj, ci era stato detto, è uno degli affluenti dell'Oxus, il grande fiume attraversato e riattraversato da Alessandro, e nel "Libro" di lui descritto come immensamente ampio e lento e placido. Tuttavia esso scorre molto più a ovest e più in basso di dove ci trovavamo noi adesso. L'Ab-e-Panji lungo il nostro cammino non era né ampio né profondo, ma scorreva in quella valle come una fuga interminabile di cavalli bianchi che scuotessero la criniera e la coda. Rumoreggiava a volte, persino, più come una fuga precipitosa di cavalli impazziti che come un fiume, in quanto lo scroscio delle sue acque vorticose si perdeva spesso nel raschiare e cozzare di grossi macigni rotolanti e sobbalzanti nel suo letto. Un cieco avrebbe potuto dire che l'Ab-e-Panj si stava scaraventando giù per il pendio e che, per avere
un simile impeto, doveva scaturire di gran lunga più in alto. Durante la stagione invernale, senza dubbio, il fiume non avrebbe potuto rallentare nemmeno per un momento il proprio slancio tumultuoso, altrimenti si sarebbe tramutato in ghiaccio e non avrebbe più potuto alimentare l'Oxus, a valle. Ciò era manifesto, in quanto ogni spruzzo e schizzo e velo d'acqua sulle rive rocciose si tramutava all'istante in ghiaccio bianco-azzurrognolo. E, poiché ciò rendeva il cammino nelle immediate prossimità del fiume ancor più pericoloso che sul terreno coperto di neve, e anche perché ogni schizzo d'acqua che giungesse fino a noi congelava le gambe e i fianchi dei nostri cavalli, noi, ogni qual volta ci era possibile, ci tenevamo a rispettosa distanza dal fiume. Un altro indizio dell'ininterrotta ascesa consisteva nel percettibile rarefarsi dell'aria stessa. Orbene, molte volte io non sono stato creduto, o addirittura mi si è schernito, quando dicevo questo ai non viaggiatori. So bene quanto loro che l'aria non ha alcun peso ed è sempre impalpabile, tranne quando viene mossa dal vento. Allorché gli increduli chiedevano di sapere "in qual modo" un elemento senza il benché minimo peso potesse pesare ancor meno, io non ero in grado di spiegare il come o il perché. Ma so che è così. L'aria diventa sempre e sempre meno consistente, a quelle grandi altezze, e vi sono prove che lo dimostrano. In primo luogo, un uomo deve respirare più profondamente per riempirsi i polmoni. Non si tratta del respiro ansimante causato da rapidi movimenti o da un'energica ginnastica; anche chi rimane immobile è costretto a respirare più in fretta. Quando io mi affaticavo, disponendo il carico sul basto di un cavallo, o arrampicandomi su un macigno che bloccava il passaggio, dovevo respirare così profondamente e violentemente e rapidamente da darmi la sensazione che non sarei riuscito a inalare aria a sufficienza per sostenermi. Alcuni increduli lo hanno contestato, sostenendo che doveva trattarsi di un'illusione dovuta al tedio, o agli stenti, o a tutto ciò contro cui, Dio lo sa, dovevamo lottare, ma io sostengo che la rarefazione dell'aria era qualcosa di molto reale. Addurrò anche un'altra circostanza: zio Maffeo, pur essendo costretto come tutti noi a respirare profondamente, non era afflitto dalla necessità di tossire frequentemente o dolorosamente come prima. E' ovvio che l'aria rada delle grandi altezze non gli gravava pesantemente sui polmoni e non doveva pertanto essere espulsa violentemente così spesso. Ma dispongo anche di altre prove. Il fuoco e l'aria, essendo entrambi senza peso, sono i più strettamente imparentati dei quattro elementi; questo tutti devono ammetterlo. E sulle alte montagne, ove l'aria è più debole, altrettanto accade al fuoco. Esso arde più azzurro e più fioco, anziché giallo e luminoso. Questo non era dovuto soltanto al fatto che, anziché legna, dovevamo utilizzare i cespugli di bursta; provai a bruciare altre cose più familiari, come ad esempio la carta, e le fiamme che ne sprizzarono risultarono essere altrettanto deboli e languide. E anche quando potevamo disporre di un fuoco ben alimentato e ben predisposto, occorreva più tempo per arrostire la carne o per far bollire una pentola d'acqua di quanto ne sarebbe occorso sulle pianure. Non solo, ma anche l'acqua bollente impiegava più tempo del consueto per cuocere qualcosa. Quell'inverno non v'erano grandi karwan sulla pista, ma incontrammo talora altri gruppi di viaggiatori. Erano quasi tutti cacciatori con trappole di animali da pelliccia, e si spostavano da un punto all'altro delle montagne. L'inverno era la stagione in cui lavoravano, mentre durante la più clemente primavera portavano le pelli e le pellicce che avevano accantonato nei mercati di una delle cittadine delle pianure. I loro pelosi, piccoli cavalli da soma sostenevano un carico enorme di pelli di volpi, lupi, leopardi, urial - che è una sorta di pecora selvatica - e goral - che è una via di mezzo tra la capra e la qazèl. I cacciatori con trappole ci dissero che la valle su per la quale ci stavamo arrampicando veniva chiamata Wakhan, o talora il Corridoio Wakhan, poiché molti passi di montagna sono accessibili da essa a entrambi i lati, simili a porte lungo un corridoio, e la valle stessa costituisce sia il confine di tutte le regioni più in là, sia la via d'accesso ad esse. Al sud, dissero, si trovavano passi che conducevano, fuori del Corridoio, in regioni denominate Chitral e Hunza e Kashmir; a est si arrivava in una terra denominata To-Bhot; e a nord nella regione del Tadzhikistan. «Ah, il Tadzhikistan si trova da quella parte?» disse mio padre, volgendo lo sguardo al nord. «Allora non distiamo molto, Maffeo, dall'itinerario che seguimmo per tornare in patria.»
«Vero» disse zio Maffeo, con una voce stanca e un tono di sollievo al contempo. «Dovremo soltanto attraversare il Tadzhikistan, poi percorrere un breve tratto a est, fino alla città di Kashgar, e ci troveremo di nuovo nel Catai di Qubilai.» Sui loro cavalli, i cacciatori con trappole trasportavano anche molte corna tolte da una sorta di pecora selvatica chiamata artak, ed io, che fino ad allora avevo veduto soltanto le più piccole corna di animali come le qazèl e le vacche e le pecore, rimasi enormemente colpito da quei trofei. Alla base avevano una circonferenza pari a quella di una delle mie cosce e, da quel punto, salivano con strette spirali fino all'estremità. Sulla testa dell'animale le due punte potevano facilmente distare l'una dall'altra anche quanto è alto un uomo; ma se fosse stato possibile distendere le spirali, "ognuna" di quelle corna sarebbe stata lunga quanto la statura di un uomo. Erano talmente magnifiche da farmi supporre che i cacciatori le vendessero come ornamenti da ammirare. Oh, no, esclamarono loro, ridendo; quelle enormi corna venivano tagliate e lavorate, così da foggiare ogni sorta di oggetti utili: scodelle per il cibo, coppe per bere, staffe e persino rinforzi da applicare agli zoccoli dei cavalli. I cacciatori dissero che un cavallo con quei rinforzi non scivolava mai, nemmeno sul terreno più infido. (Molti mesi dopo, e più in alto sulle montagne, quando vidi alcune di quelle pecore artak vive e libere nei vasti spazi, le giudicai così splendidamente belle da deplorare che venissero uccise a scopi di utilità pratica. Mio padre e mio zio, per i quali utilità significava commercio, e il commercio era tutto, risero come avevano fatto i cacciatori, rimproverarono il mio sentimento e, da quel giorno, si riferirono sarcasticamente all'artak come alla «pecora di Marco».) Mentre risalivamo la Wakhan, le montagne a entrambi i lati rimanevano spaventosamente alte come sempre, ma ora, ogni qual volta le nevicate si diradavano, consentendoci di alzare gli occhi verso l'immensità di quelle vette, esse sembravano trovarsi percettibilmente più vicine a noi. E gli strati di ghiaccio lungo entrambe le rive del fiume Ab-e-Panji diventavano sempre più spessi e più azzurrognoli, restringendo l'acqua corrente in un letto sempre più stretto, quasi volessero illustrare nel modo più vivido come l'inverno stesse stringendo la sua morsa sul mondo. Le montagne continuarono a farsi più vicine a entrambi i lati, un giorno dopo l'altro, e infine anche altri picchi svettarono di fronte a noi, finché venimmo ad essere circondati da quei Titani in ogni direzione, tranne che alle nostre spalle. Eravamo giunti all'inizio dell'alta vallata e proprio allora la nevicata cessò per breve tempo e le nubi si dispersero, consentendoci di vedere le candide vette delle montagne e il cielo gelido e azzurro magnificamente rispecchiati da un enorme lago gelato, il Chaqmaqtin. Sotto il ghiaccio alla sua estremità occidentale scaturiva l'Ab-e-Panji che avevamo seguito, per cui noi ritenemmo che il lago fosse la sorgente del fiume e, per conseguenza, anche quella del favoleggiato Oxus. Mio padre e mio zio così la segnarono, come solevano fare, sull'imprecisa carta del Kitab relativa a quella regione. Io non potei contribuire in alcun modo a individuare la nostra posizione, in quanto l'orizzonte era di gran lunga troppo alto e frastagliato perché potessi servirmi del kamàl. Ma quando il cielo notturno divenne limpido, potei almeno arguire, dall'altezza della Stella Polare, che ci trovavamo adesso molto più a nord del punto dal quale avevamo iniziato la marcia nell'entroterra, cioè da Suvediye, sulla costa del Levante. All'estremità nord-est del lago Chaqmaqtin si trovava una comunità che si autodefiniva una cittadina, Buzai Gumbad, ma che consisteva in realtà soltanto di un unico karwansarai formato da molti edifici e circondato da una tendopoli e dai recinti delle karwan accampate lì per svernare. Era evidente che, non appena iniziata la stagione favorevole, quasi l'intera popolazione di Buzai Gumbad se ne sarebbe andata, allontanandosi dal Corridoio Wakhan attraverso i tanti passi. Il proprietario del karwansarai era un uomo allegro ed espansivo a nome Iqbal, che significa Buona Fortuna; un nome adatto a lui, che riusciva ad arricchire possedendo l'unico luogo di sosta per le carovane in quel tratto della Via della Seta. Era di quelle parti, un wakhani, disse, essendo nato proprio lì nel karwansarai. Ma, in quanto figlio e nipote e pronipote di precedenti proprietari di luoghi di sosta a Buzai Gumbad, parlava, naturalmente, il farsi dei commerci e conosceva, se non per diretta esperienza, per averne sentito parlare innumerevoli volte, il mondo al di là delle montagne.
Spalancando le braccia, Iqbal ci accolse quanto mai cordialmente nell'«alto Pamir, il Cammino verso le Vette, il Tetto del Mondo» soggiungendo poi che le sue parole stravaganti non erano un'esagerazione. Lì, disse, ci trovavamo esattamente all'altezza di un farsakh - vale a dire due miglia e mezza - sul livello del mare, il livello di città come Venezia e Acri e Bassora. Il locandiere Iqbal non spiegò come facesse a sapere "così esattamente" qual era l'altezza del posto. Ma, supponendo che dicesse il vero - e poiché le vette delle montagne intorno a noi erano visibilmente altrettanto alte -, non contestai la sua asserzione secondo la quale eravamo giunti sul Tetto del Mondo.
IL TETTO DEL MONDO.
1. Prendemmo una stanza per noi tutti, compreso Narice, nell'edificio principale del karwansarai, e uno spazio all'esterno, nel recinto, per i nostri cavalli, poi ci accingemmo a rimanere a Buzai Gumbad fino a quando l'inverno non fosse terminato. Il karwansarai non era un luogo di sosta molto elegante, ma siccome tutto, lì, compresi i viveri, doveva essere fatto venire dalle regioni al di là delle montagne, Iqbal faceva pagare ai suoi ospiti prezzi esorbitanti per il mantenimento. Ciò nonostante, la locanda era in realtà più comoda di quanto sarebbe potuta essere, tenendo conto della circostanza che non ne esistevano altre e che Iqbal, come i suoi antenati, avrebbe potuto fare a meno di darsi la pena di fornire qualcosa di più del riparo e del vitto più rudimentali. L'edificio principale era a due piani - il primo karwansarai che vedessi costruito in quel modo - e il pianterreno conteneva una comoda stalla per le vacche e le pecore di Iqbal, che costituivano al contempo i suoi risparmi e la dispensa della locanda. Il primo piano ospitava la gente ed era circondato da una terrazza aperta, sul cui pavimento, davanti ad ogni stanza, si trovava un foro, affinché le feci degli ospiti cadessero nel cortile a vantaggio di scheletriche galline. Il fatto che le stanze si trovassero al primo piano, sopra la stalla, significava godersi il tepore che saliva dagli animali, ma non ce ne godevamo molto l'odore. In ogni modo, esso non era tanto forte quanto il nostro odore e quello degli altri sudici mercanti e degli indumenti altrettanto sudici. Il proprietario del karwansarai non sprecava il prezioso sterco secco da bruciare per lussi superflui come l'hammam o per l'acqua calda con cui lavare i panni. Preferiva, come tutti coloro che alloggiavano lì, servirsene per mantenere caldi i letti durante la notte. Tutti i letti di Iqbal erano del tipo denominato in Oriente kang, una bassa piattaforma di pietre sovrapposte, coperta da assi che sostenevano un mucchio di coperte tessute con pelo di cammello. Prima di coricarsi, si sollevavano le assi, si spargeva un po' di letame secco entro il kang e si ponevano su di esso alcune braci accese. Il viaggiatore appena arrivato di solito faceva questo in modo inesperto e, o gelava per tutta la notte, oppure incendiava le assi sotto di sé. Ma, con la pratica, si imparava a preparare il fuoco in modo che ardesse adagio per tutta la notte, emanando sempre lo stesso tepore, senza causare tanto di quel fumo da soffocare tutti coloro che dormivano nella stanza. In ognuna delle stanze si trovava inoltre una lampada, costruita dallo stesso Iqbal; non ho mai veduto niente di simile in nessun altro luogo. Egli prendeva una vescica di cammello, la gonfiava tramutandola in una sfera, poi la verniciava con lacca affinché mantenesse quella forma nonché per decorarla con fregi dai molti colori. Con un foro che consentiva di metterla intorno a una candela o intorno a una lampada a olio, la grossa sfera emanava un bagliore di calda luce. I pasti serviti nella locanda erano monotoni come lo sono sempre i pasti musulmani: montone e riso, riso e montone, fagioli lessati, grosse forme rotonde di un pane gommoso, arrotolato a strati sottili, chiamato nan, e, come bevanda, un cha di colore verde, che sempre aveva un inesplicabile e lieve sapore di pesce. Ma il buon Iqbal faceva del suo meglio per variare la monotonia ogni qual volta la cosa poteva essere giustificata da un pretesto: tutte le domeniche musulmane, vale a dire i venerdì, e
nelle varie festività musulmane invernali. Non so che cosa celebrassero - avevano nomi come Zu-lHijja e Yon Ashura - ma, in quelle occasioni, ci veniva servito manzo anziché montone, nonché un piatto di riso chiamato pilaf, colorato di rosso, di giallo o di azzurro. V'erano inoltre, a volte, pasticci di carne fritta e una sorta di bibita fatta con neve insaporita mediante pistacchi o legno di sandalo; e una volta - una sola volta, ma mi sembra di sentirne ancora il sapore - come dolce ci servirono un budino fatto soprattutto di zenzero pestato e aglio. Nulla poteva impedirci di gustare i vari cibi di altre nazioni e religioni, e noi lo facevamo spesso. Negli edifici più piccoli del karwansarai e nelle tende tutto intorno ad esso si trovavano accampate le persone che facevano parte di parecchie karwan; provenivano da molti paesi diversi e si attenevano a costumanze e parlavano lingue diverse. V'erano mercanti Persiani e Arabi e venditori di cavalli Pashtuni venuti come noi dall'ovest, e Russniak alti e biondi del remoto nord, e irsuti e tarchiati Tadzhik provenienti da più vicine regioni settentrionali, e Bho dalla faccia piatta, giunti dal paese orientale denominato il Luogo Elevato dei Bho, e To-Bhot nella loro lingua, e piccoli Indù e Tamil Chola dalla pelle scura, originari dell'India meridionale, e uomini dagli occhi grigi, dai capelli color sabbia chiamati Hunzukut e Kalash arrivati dal più vicino sud, e alcuni Ebrei di origine imprecisata, e numerosi altri individui. Questa era la popolazione commista che faceva di Buzai Gumbad una comunità grande come una cittadina, per lo meno durante l'inverno; e tutti si adopravano per far sì che fosse una comunità bene amministrata e piacevole. Invero, era molto più socievole e amichevole di molti altri stabili e permanenti centri abitati nei quali sono stato. Sempre, all'ora dei pasti, chiunque poteva mettersi a sedere accanto al fuoco sul quale una famiglia stava cucinando ed essere bene accolto, anche se l'ospite e gli anfitrioni non parlavano una lingua reciprocamente comprensibile - l'intesa essendo che l'ospite sarebbe stato ugualmente ospitale con chiunque altro. Noi Polo, credo, assaggiammo ogni tipo di cibo servito a Buzai Gumbad e, poiché là non cucinavamo per nostro conto, invitammo innumerevoli sconosciuti a consumare i pasti nella sale di Iqbal. Oltre ad offrire tutta una varietà di esperienze in fatto di cucina - talune memorabili perché deliziose, altre memorabili perché spaventose - la comunità provvedeva ad altri diversivi. Quasi ogni giorno era festivo per qualche gruppo di persone, e tutti erano felicissimi di far venire ogni altro sistemato nell'accampamento ad assistere o a partecipare alle loro musiche, ai loro canti e alle loro danze, nonché alle loro gare sportive. Non ogni attività a Buzai Gumbad era festosa, naturalmente, ma tutti, nonostante la loro diversità, riuscivano ad essere uniti anche nelle cose più solenni. Siccome rispettavano tante leggi diverse, avevano eletto un uomo per ogni razza, ogni lingua e ogni religione lì rappresentate, e questi loro incaricati formavano un tribunale per giudicare le accuse di furti, di violazione di domicilio e di altri reati che potevano turbare la pubblica quiete. Ho accennato contemporaneamente, per così dire, al tribunale e alle feste perché figurarono insieme in un episodio che trovai divertente. Gli appartenenti alla bella razza chiamata Kalash erano litigiosi, ma soltanto tra loro, e non ferocemente; i loro litigi si concludevano di solito con risate generali. Costoro erano inoltre allegri, portati per la musica e aggraziati; conoscevano un gran numero di diverse danze kalash, dai nomi come kikli e dhamal, e danzavano quasi ogni giorno. Ma una di queste loro danze, denominata luddi, rimane unica nella mia esperienza in fatto di balli. La vidi eseguire per la prima volta da un kalash convocato dall'eterogeneo tribunale di Buzai Gumbad perché lo si accusava di aver rubato una serie di campanelle per cammelli a un suo vicino anch'egli kalash. Quando il tribunale lo prosciolse, in mancanza di prove, l'intero gruppo dei Kalash - compreso il suo accusatore - cominciò a suonare una turbinosa e fragorosa musica con flauti e vorticosa danza luddi, e, in ultimo, tutta la sua famiglia si unì a lui. Vidi poi esibirsi nel luddi l'altro kalash, quello al quale erano state rubate le campanelle dei cammelli. Il tribunale, non essendo riuscito a trovare né le campanelle, né un colpevole da punire, aveva ordinato che ogni capofamiglia dell'accampamento offrisse qualcosa per risarcire il derubato. Questo significava soltanto poche monetine di rame da parte di ognuno, ma la somma raccolta complessivamente superava, con ogni probabilità, il valore della refurtiva. E quando all'uomo venne consegnato il denaro, tutti i Kalash compreso il ladro accusato ma prosciolto - ricominciarono con una stridula e chiassosa musica di flauti e molle da cucina e tamburi, e "quel" tale riprese a danzare la turbinosa e vorticosa danza
luddi, e in ultimo la "sua" intera famiglia si unì a lui. Il luddi, venni a sapere, è una danza kalash che gli allegramente litigiosi kalash danzano soltanto e specificamente per festeggiare il felice esito di un litigio. Mi piacerebbe fare adottare qualcosa del genere anche dalla litigiosa Venezia. Ritenni che il variegato tribunale avesse giudicato saggiamente in quel caso, come, secondo me, giudicava con saggezza in quasi tutti i casi, tenuto conto del delicato compito assegnatogli. Tra tutte le persone riunite a Buzai Gumbad, non ve n'erano nemmeno due, con ogni probabilità, che si attenessero, o non si attenessero, alle stesse leggi. Lo stupro in stato di ubriachezza sembrava essere quasi una consuetudine tra i Russniak nestoriani, come lo era il sesso sodomitico tra gli Arabi musulmani, mentre entrambe le cose facevano inorridire i pagani e irreligiosi kalash. I piccoli furti costituivano un modo di vivere per gli Indù, e venivano perdonati con tolleranza dai Bho, i quali ritenevano che qualsiasi cosa non legata non avesse un proprietario; il furto, invece, veniva condannato come un crimine dai sudici, ma onesti, Tadzhik. Così, i giudici del tribunale dovevano dar prova di un difficile equilibrismo cercando di garantire una giustizia accettabile senza offendere le costumanze accettate da uno qualsiasi dei gruppi etnici. E poi tutti i casi giudicati dal tribunale erano banali come la questione del furto delle campanelle. Un caso giudicato dal tribunale prima che arrivassimo noi Polo veniva ancora riferito e discusso ed era causa di controversie. Un anziano mercante arabo aveva accusato la più giovane e la più bella delle sue quattro mogli di abbandono e di fuga nella tenda di un russniak giovane e di bell'aspetto. Il marito oltraggiato non rivoleva indietro la donna; voleva che lei e il suo amante venissero condannati a morte. Il russniak sosteneva che, in base alla legge del suo paese, ad ogni donna si poteva dare liberamente la caccia, come ad un animale della foresta, per cui essa apparteneva a colui che ne faceva la propria preda. E, a parte questo, lui l'amava sinceramente. La moglie fedifraga, una donna del popolo Kirghiz, sosteneva di aver trovato ripugnante il marito, per il fatto che non la penetrava se non nella laida maniera araba, per l'orifizio posteriore, e pertanto lei aveva ritenuto di essere giustificata cambiando compagno, se non altro allo scopo di provare una nuova posizione. Ma, a parte questo, dichiarò, amava sinceramente il russniak. Domandai al proprietario del karwansarai, Iqbal, come si fosse concluso il processo. (Iqbal, essendo uno dei pochi che risiedevano sempre a Buzai Gumbad, e pertanto un cittadino eminente, veniva logicamente eletto a far parte ogni inverno del nuovo tribunale.) Egli alzò le spalle e disse: «Il matrimonio è il matrimonio in ogni paese, e la moglie appartiene al marito. Dovemmo dare ragione al marito cornuto per quanto concerneva tale aspetto del caso. Gli venne consentito di mettere a morte la donna infedele. Ma gli negammo il diritto di decidere il fato dell'amante di lei.» «Quale fu la punizione dell'uomo?» «Gli venne soltanto impedito di amarla.» «Ma era morta. A che serviva...?» «Stabilimmo che anche l'amore dell'uomo per lei doveva morire.» «Io... non riesco proprio a capire. Come si poté riuscirvi?» «Il cadavere della donna venne deposto, nudo, sul pendio di una collina. L'adultero riconosciuto colpevole fu incatenato a un palo appena fuori portata di mano da lei. Poi lo si lasciò così.» «Affinché morisse di fame accanto a lei?» «Oh, no. Venne nutrito e dissetato e mantenuto in buona salute finché non lo si liberò. Vive ancora, ed è libero, ma non l'ama più.» Scossi la tesa. «Scusatemi, Mirza Iqbal, ma proprio non capisco.» «Un cadavere che giace insepolto non rimane immutato. Cambia, giorno per giorno. Il primo giorno, soltanto qualche scolorimento, ovunque, prima della morte, fosse stata esercitata una pressione sulla pelle. Nel caso di quella donna, chiazze bianche intorno al collo, in quanto le dita del marito l'avevano strangolata. L'amante dovette star lì e vedere quelle chiazze bianche apparire sulla pelle. Forse non erano troppo spaventose a vedersi. Ma dopo un giorno, circa, l'addome di un cadavere comincia a gonfiarsi. Ancora un po' di tempo e i morti cominciano a vomitare e ad espellere altrimenti le pressioni interne, nei modi più orrendi. In seguito, vengono le mosche...» «Grazie. Comincio a capire.»
«Già. E lui dovette stare a guardare tutto questo. Qui, con il gelo, il processo è alquanto rallentato, ma la decomposizione rimane inesorabile. E, mentre il cadavere marcisce, scendono gli avvoltoi e i nibbi, e gli sciacalli si avvicinano audaci, e...» «Sì, sì.» «Dopo una decina di giorni, quando i resti si stavano tramutando in liquame, il giovane non era più innamorato di lei. O almeno così noi riteniamo. Aveva ormai perduto completamente la ragione. Partì con la carovana russniak, ma legato con una corda dietro i loro carri. Vive ancora, sì; ma, se Allah è misericordioso, non vivrà a lungo.» Le karwan che svernavano lì, sul Tetto del Mondo, trasportavano mercanzie di ogni sorta e, sebbene io ne trovassi alcune degne di essere ammirate - sete e spezie, gioielli e perle, pellicce e pelli - quasi nessuna di esse costituiva per me una grande novità. Tuttavia di certe cose non avevo mai sentito parlare prima di allora. Una carovana di Samoiedi, ad esempio, portava dall'estremo nord lastre di quello che denominavano vetro di Moscovia. Sembrava vetro tagliato in lastre rettangolari, ognuna delle quali larga circa quanto il mio braccio, ma la loro trasparenza era rovinata da screpolature e venature a ventaglio e macchie. Venni a sapere che non si trattava affatto di vero vetro, ma del prodotto di un altro strano tipo di roccia. Questa roccia, in modo alquanto simile all'amianto, che si suddivide in fibre, si separa come le pagine di un libro, dando luogo a tali fogli sottili, fragili, nebulosamente trasparenti. Il materiale era di gran lunga inferiore al vero vetro, come lo si produce a Murano; ma l'arte di lavorare il vetro è sconosciuta in quasi tutto l'Oriente, per cui il vetro di Moscovia poteva sostituirlo in modo accettabile, e, dicevano i Samoiedi, si vendeva a un buon prezzo. Dal lato opposto del mondo, dall'estremo sud, una carovana di Tamil Chola trasportava dall'India, diretta a Balkh, pesanti sacchi che contenevano soltanto sale. Risi degli ometti dalla pelle scura. Non avevo mai veduto mancare il sale a Balkh, e li giudicai stupidi perché, faticosamente, portavano una merce così comune attraverso interi continenti. I minuscoli e timidi chola mi esortarono ad essere indulgente, dandomi un'ossequiosa spiegazione: si trattava di sale marino, dissero. Lo assaggiai - non era diverso da qualsiasi altro sale - e risi di nuovo. Si affrettarono allora a spiegare meglio: il sale marino presentava un certo vantaggio che mancava negli altri sali. Aggiungendolo ai cibi, si evitava di essere affetti dal gozzo; per tale motivo essi prevedevano di vendere il sale marino, in quei paesi, ad un prezzo tale che giustificasse la fatica di averlo trasportato sin là. «Sale magico?» li schernii, poiché avevo veduto molti di quei gozzi spaventosi e sapevo che occorreva qualcosa di più d'un pizzico di sale per eliminarli. Continuai a ridere della credulità e della follia dei Chola, essi parvero opportunamente umiliati, ed io me ne andai allegro per i fatti miei. Gli animali da sella e da soma riuniti nei recinti lungo la riva del lago erano eterogenei quanto i loro proprietari. Si trovavano lì interi branchi di cavalli e di asini, naturalmente, e persino alcuni bei muli. Ma i molti cammelli non erano simili a quelli veduti in precedenza da noi e impiegati nei deserti delle pianure. Non erano altrettanto alti né avevano le gambe altrettanto lunghe, ma avevano una struttura più robusta e il loro aspetto veniva reso ancor più imponente dal lungo e folto pelo. Avevano inoltre la criniera, come i cavalli, solo che essa pendeva dalla parte inferiore e non da quella superiore del lungo collo. Ma la loro più vistosa diversità consisteva nel fatto che avevano tutti due gobbe anziché una sola; questo faceva sì che fosse più facile cavalcarli, in quanto esisteva un naturale declivio a sella tra le due gobbe. Mi dissero che questi cammelli della Bactriana erano meglio adattati ai rigori invernali e al terreno accidentato delle montagne, così come i cammelli arabi con una sola gobba sopportano meglio la calura e la sete e le sabbie dei deserti. Un altro animale nuovo per me era quello impiegato come bestia da soma dal popolo Bho; i Bho lo chiamavano yyag, mentre da quasi tutti gli altri veniva chimato yak. Si trattava di una creatura massiccia, con la testa simile a quella delle vacche, la coda di un cavallo, e, tra l'una e l'altra, un corpo che, per la forma e le dimensioni e il pelo faceva pensare a un covone di fieno. Lo yak può arrivare in altezza alla spalla di un uomo, ma tiene sempre la testa bassa, più o meno al livello delle nostre ginocchia. Ha un pelame irsuto e ruvido - nero o grigio, o a chiazze scure e bianche - che
pende fino a terra nascondendo gli zoccoli, i quali sembrano troppo piccoli e delicati per una così grande mole, ma sono precisi in modo stupefacente nel passo e nella scelta dei punti sicuri lungo gli stretti sentieri di montagna. Gli yak grugniscono come i maiali e digrignano continuamente i denti, simili a macine, mentre procedono adagio. Venni a sapere in seguito che la carne di yak è buona quanto il manzo di prima qualità, ma nessun proprietario di yak, lì a Buzai Gumbad, dovette uccidere uno degli animali prima che ripartissimo. I Bho tuttavia mungevano le femmine, e per questo occorre una certa audacia, tenuto conto dell'immensa mole e della imprevedibile irritabilità degli animali. Il loro latte, del quale i Bho disponevano con tanta abbondanza da distribuirlo gratuitamente a tutti, era delizioso, e il burro che i Bho ne ricavavano sarebbe stato una ghiottoneria degna di lode se soltanto non avesse contenuto i lunghi peli degli animali. Gli yak forniscono altre cose utili: il loro ruvido pelo può essere tessuto e se ne ricavano tende talmente robuste da resistere alle tempeste di vento sulle montagne; e inoltre, con i peli più sottili della coda si possono fare ottimi scacciamosche. Tra gli animali più piccoli a Buzai Gumbad scorsi molte delle pernici dalle zampe rosse che avevo veduto libere e selvatiche in altri luoghi; ma queste avevano le ali tarpate affinché non potessero volare. Poiché i bambini dell'accampamento giocavano continuamente a nascondarella con questi uccelli, pensai che venissero tenuti a tale scopo, oppure per catturare gli insetti - in quanto ogni tenda e ogni edificio erano infestati dai parassiti. Tuttavia scoprii ben presto che le pernici avevano un'altra e singolare utilità per le femmine kalash e hunzukut. Esse, dopo avere ucciso le pernici, mozzavano le rosse zampe, cucinavano il resto e bruciavano le zampe ricavandone una fine cenere che aveva l'aspetto di polvere viola. Di questa polvere esse si servivano, come altre donne dell'oriente si servono del kohl, per truccarsi e mettere in risalto gli occhi. Le donne kalash si spalmavano inoltre dappertutto, sul viso, una crema ricavata dai semi gialli di certi fiori chiamati bechu, e posso assicurare che una donna dal volto completamente di un giallo vivido, tranne i grandi occhi cerchiati di viola, è uno spettacolo a vedersi. Senza dubbio, quelle femmine ritenevano che ciò le rendesse sessualmente attraenti; il loro altro ornamento prediletto, infatti, consiste in una sorta di cappuccio e in una mantellina fatti con innumerevoli piccole conchiglie denominate kauri; e l'aspetto di una kauri è manifestamente quello di un perfetto organo sessuale femminile in miniatura. A questo proposito, fui lieto di sapere che Buzai Gumbad offriva sfoghi sessuali diversi dallo stupro in stato di ubriachezza, dalla sodomia e dall'adulterio punibile nel modo laido già descritto. Fu Narice a scoprirlo, dopo che ci trovavamo nella comunità soltanto da un giorno o due, e di nuovo egli si appartò con me, come aveva fatto a Balkh, fingendosi disgustato da quanto era riuscito ad appurare: «Uno schifoso ebreo, questa volta, Padron Marco. Ha occupato il piccolo edificio del karwansarai più lontano dal lago. Sulla facciata lo fa passare per una bottega ove si affilano coltelli e spade e attrezzi. Ma nel retro ha tutta una varietà di femmine dalle razze diverse e dai diversi colori della pelle. Come buon musulmano, dovrei denunciare questo uccello divoratore di carogne appollaiato sul Tetto del Mondo, ma non lo farò a meno che non me lo ordinerete voi, dopo aver dato un'occhiata cristiana alla bottega.» Gli dissi che così avrei fatto, e lo feci, pochi giorni dopo, una volta che, disfatti i bagagli, ci eravamo ben sistemati nel karwansarai. Nella bottega sulla facciata dell'edificio sedeva, ingobbito, un uomo, affilando sulla mola, che faceva girare con i piedi, la lama di una falce. A parte il fatto che portava lo zucchetto, somigliava a un orso khers, poiché aveva la faccia molto pelosa e tutti quei riccioli e quella barba sembravano confondersi con l'ampia pelliccia che indossava. Notai che quest'ultima era di costoso karakul, una pelliccia di gran lunga troppo elegante per il mero arrotino che egli fingeva di essere. Aspettai che il ronzio crepitante della mola cessasse per un momento insieme alla pioggia di scintille scagliate tutto attorno. Poi dissi, secondo le istruzioni di Narice: «Ho un attrezzo speciale che vorrei fare affilare e lubrificare.»
L'uomo alzò la testa ed io battei le palpebre. I capelli e le sopracciglia e la barba di lui sembravano ricciute e rosse escrescenze fungose sul punto di ingrigire e gli occhi erano come more e il naso sembrava la lama di una shimshir. «Un dirham» egli disse «oppure venti shahi, o cento conchiglie kauri. Gli sconosciuti che vengono per la prima volta pagano sempre in anticipo.» «Non sono uno sconosciuto» dissi molto cordialmente. «Non mi conosci?» Assai meno cordialmente, lui rispose: «Non conosco nessuno. Soltanto così riesco a lavorare in un luogo con innumerevoli leggi contraddittorie.» «Ma sono Marco!» «Qui ci si toglie di dosso il nome quando ci si tolgono le brache. Se dovesse interrogarmi qualche mufti ficcanaso, potrei dire sinceramente di non conoscere alcun nome tranne il mio, che è Shimon.» «Lo tzaddik Shimon?» domandai, un po' impudente. «Uno dei Lamed-wav? O tutti e trentasei?» Egli parve o allarmato o insospettito. «Parli l'ivrit? Ma tu non sei ebreo! Che cosa sai dei Lamedwav?» «Soltanto che, a quanto pare, continuo a incontrarli.» Sospirai. «Una donna a nome Esther mi ha detto come vengono chiamati e che cosa fanno.» L'uomo disse, disgustato: «Non deve avertelo detto con molta precisione, se puoi scambiare tranquillamente il tenutario di un bordello per uno tzaddik.» «Disse che gli tzaddikin giovano agli uomini. E anche un bordello giova, a parer mio. Ebbene... non vuoi ammonirmi, come hai sempre fatto?» «Ti ho appena ammonito. I mufti delle karwan possono essere non di rado invadenti. Non andare perciò a ragliare il tuo nome qui attorno.» «Mi riferivo alla sete di sangue della bellezza.» Egli sbuffò. «Se alla tua età, Senzanome, non ti sei ancora reso conto del pericolo della bellezza, non cercherò di ammaestrare uno stolto. E ora dammi un dirham, o il suo equivalente, oppure vattene.» Lasciai cadere la moneta nel palmo calloso di lui e dissi: «Vorrei una donna che non fosse musulmana. O almeno che non fosse tabzir nelle parti intime. Inoltre ne vorrei una, se possibile, con la quale poter discorrere, tanto per cambiare.» «Prendi la ragazza domm» grugnì lui. «Non smette mai di parlare. Da quella parte, seconda stanza sulla destra.» Di nuovo si chinò sulla falce e sulla mola e il suono raschiante e le scintille saettanti ricominciarono a colmare la bottega. Il bordello consisteva, come quello a Balkh, di una serie di stanze che avrebbero meritato piuttosto il nome di cubicoli, le quali davano sul corridoio. Il cubicolo della ragazza domm era arredato sommariamente: un braciere con sterco secco che ardeva fornendo tepore e luce - nonché fumo e fetore - e poi, per le prestazioni della donna, il tipo di letto chiamato hindora. Si tratta di un pagliericcio che non appoggia su gambe, ma è sospeso al soffitto mediante quattro corde e aggiunge un movimento proprio ai movimenti in corso su di esso. Non avendo udito prima di allora la parola domm, non sapevo che genere di femmina aspettarmi. Quella che sedeva sull'hindora, dondolandosi pigramente, risultò essere qualcosa di nuovo nella mia esperienza: una ragazza talmente bruna di pelle da essere quasi nera. A parte questo, tuttavia, era abbastanza piacente di viso e di corpo. Aveva fattezze fini, non grossolanamente etiopi, ed era piccoletta ed esile di membra, ma ben fatta. Parlava numerose lingue, tra le quali il farsi, per cui riuscimmo a conversare. Il suo nome, mi disse, era Chiv, che, nella sua madrelingua, il romm, significava Lama. «Romm? L'ebreo ha detto che tu eri Domm.» «Non sono una domm!» protestò lei, fieramente. «Sono una romni! Sono una juvel, una giovane donna dei "Romm"!» Poiché non avevo idea di che cosa fossero sia i Domm sia i Romm, evitai la discussione accingendomi a fare ciò per cui ero venuto. E scoprii ben presto che, qualsiasi altra cosa potesse
essere la juvel Chiv - e lei asseriva di professare la religione musulmana - era in ogni modo una juvel "completa" e non privata, alla maniera musulmana, di una qualsiasi delle sue parti femminili. E quelle parti, una volta varcatane la soglia bruno-scura, risultarono essere graziosamente rosee come le parti femminili di ogni altra femmina. Inoltre mi resi conto che Chiv non stava simulando il piacere, ma si godeva effettivamente lo spasso tanto quanto me. Quando, in seguito, le domandai pigramente come mai lavorasse in un bordello, non mi raccontò la solita storia dicendomi di essere finita lì a causa di una sequela di guai, rispose invece allegramente: «Farei comunque lo zina, quello che noi chiamiamo surata, perché ci provo gusto. Essere pagata per fare il surata è un vantaggio in più, ma anche questo mi piace. Rifiuteresti, tu, un compenso, se te lo offrissero, ogni qual volta fai acqua?» Be', mi dissi, Chiv poteva non essere una ragazza dai nobili sentimenti, ma era sincera. Le diedi persino un dirham, affinché non dovesse spartire con l'ebreo. E, mentre uscivo dalla rumorosa bottega, fui lieto di poter dire qualcosa di maligno a quell'individuo. «Ti sei sbagliato, vecchio Shimon. Come ho constatato che sbagliasti in altre occasioni. La ragazza è del popolo dei Romm.» «Romm, Domm, quei miserabili si chiamano in qualsiasi modo venga loro in mente» disse lui, con noncuranza. Ma poi continuò, più amabile e loquace di quanto lo fosse stato prima. «Originariamente erano i Dhoma, una delle più infime classi tra tutti gli Indù jati dell'India. I Dhoma fanno parte degli intoccabili, degli odiati e detestati. Pertanto emigrano di continuo dall'India per cercare sistemazioni migliori altrove. Dio solo sa in quale modo, poiché non sanno fare altro che danzare, prostituirsi, rubare e arrabattarsi. Nonché dissimulare. Dicono di essere Romm per sostenere di discendere dai Cesari dell'Occidente. Dicono di essere Atzigàn per sostenere di discendere dal conquistatore Alessandro. E quando affermano di essere Egizi, vorrebbero pretendere di avere come antenati i Faraoni». Rise. «Discendono soltanto dai sozzi Dhoma, ma intanto invadono tutti i paesi del mondo». Dissi: «Anche voi vi siete sparpagliati in tutto il mondo. Chi siete voi Ebrei per disprezzare altri che fanno altrettanto?» Mi scoccò un'occhiataccia, ma rispose placido, come se io non avessi parlato con disprezzo. «E' vero, noi Ebrei ci adattiamo alle circostanze imposteci dal fatto che siamo diversi. Ma i Domm fanno qualcosa che noi non faremmo mai. Tentano cioè di farsi accettare adottando vilmente la religione locale più diffusa.» Rise di nuovo. «Vedi? Ogni popolo disprezzato riesce sempre a trovare gente più umile da guardare dall'alto in basso per disprezzarla a sua volta.» Sbuffai e dissi: «Ne consegue, allora, che anche i Domm avranno qualcuno da disprezzare». «Oh, sì. Chiunque altro esista nel creato. Per loro, tu ed io e tutti gli altri siamo i gaji. Che significa, semplicemente, i gonzi, le vittime, coloro che devono essere turlupinati e frodati e ingannati.» «Senza dubbio una ragazza graziosa, come la tua Chiv, là dietro, non ha bisogno di frodare...» Lui scosse la testa, spazientito. «Sei entrato qui cicalando della bellezza come un motivo di sospettosità. Avevi su di te qualcosa di prezioso quando sei venuto?» «Mi prendi per un somaro? Avevo soltanto alcune monete e il pugnale alla cintola. Ehi, dov'è il mio pugnale?» Shimon sorrise con un'aria di compatimento. Gli passai accanto, tornai tempestosamente nella piccola stanza e vi trovai Chiv intenta a contare, felice, una manciata di monetine di rame. «Il tuo pugnale? L'ho già venduto, non sono stata svelta?» disse, mentre io la dominavo dall'alto, furente. «Non prevedevo che te ne saresti accorto così presto. L'ho venduto a un pastore tadzhik, un momento fa, mentre passava davanti alla porta di servizio, quindi ormai puoi considerarlo perduto. Ma non essere adirato con me. Ruberò un pugnale migliore a qualcun altro e lo terrò fino al tuo ritorno e te lo darò. Sì, farò così... perché ammiro molto la tua bellezza e la tua generosità, e la tua eccezionale bravura nel surata.» Sentendomi lodare così generosamente, smisi, è ovvio, di essere adirato e dissi che prevedevo di tornare presto da lei. Ciò nonostante, uscendo per la seconda volta dalla bottega, sgattaiolai furtivo
accanto a Shimon, davanti alla mola, come avevo fatto un'altra volta, in un altro bordello, vestito da donna.
2. Credo che Narice sarebbe riuscito a trovarci, se glielo avessimo chiesto, un pesce nel deserto. Quando mio padre gli disse di cercare un medico che ci esprimesse il suo parere sull'apparente miglioramento della «tisichessa» di zio Maffeo, Narice non stentò a trovarlo, nemmeno lì, sul Tetto del Mondo. E l'anziano e calvo Hakim Mimdad ci fece l'impressione di essere un abile dottore. Era persiano e bastava questo a garantire che si trattava di una persona civile. Viaggiava come custodedella-salute in una carovana di mercanti persiani di qali. Anche soltanto parlando del più e del meno, dimostrò di non avere una conoscenza soltanto superficiale della sua arte. Rammento che ci disse: «Quanto a me, preferisco prevenire le malattie, anziché doverle curare, sebbene l'opera di prevenzione non faccia entrare denaro nella mia borsa. Ad esempio, consiglio a tutte le madri, qui nell'accampamento, di far bollire il latte che danno ai loro fìglioletti. Si tratti di latte di yak, o di cammello, o di qualsiasi altro latte, le esorto a farlo prima bollire e in un recipiente di ferro. Come è noto a tutti, i più perfidi jinn, al pari di ogni altra sorta di demoni, vengono respinti dal ferro. Ed io ho accertato, mediante esperimenti, che la bollitura del latte libera dal recipiente il succo del ferro e lo mescola al latte, che, per conseguenza, scaccia qualsiasi jinn eventualmente in agguato e pronto a infliggere qualche malattia dell'infanzia.» «Sembra ragionevole» osservò mio padre. «Sono un convinto fautore degli esperimenti» continuò il vecchio hakim. «Le regole e le ricette accettate della medicina vanno benissimo, ma ho trovato molte volte, grazie agli esperimenti, nuove cure che non si accordano con le solite regole. Il sale marino, per esempio. Nemmeno il più grande di tutti i guaritori, il savio Ibn Sina, sembra essersi mai accorto che esiste una sottile differenza tra il sale marino e quello ricavato dalle pianure salate nell'entroterra. In nessuno degli antichi trattati riesco a trovare la spiegazione di una simile diversità. Eppure "un qualcosa" nel sale di mare previene e guarisce il gozzo e altri rigonfiamenti tumorali del corpo. Questo mi è stato dimostrato dagli esperimenti.» Decisi, in cuor mio, di andare a scusarmi con i piccoli mercanti di sale, i Chola che avevo deriso. «Bene, venite, allora, Dotòr Balanzòn!» tuonò mio zio, maliziosamente attribuendogli il nome di quel comico personaggio veneziano. «Sbrigatevi e visitatemi, così potrete dirmi che cosa prescrivete per la mia maledetta 'tisichessa'... se il sale di mare o il latte bollito.» E così l'hakim si accinse all'esame diagnostico, palpando qua e là lo zio Maffeo e ponendogli domande. Dopo qualche tempo, disse: «Non posso sapere fino a qual punto era violenta la tosse, prima. Ma, come dite voi stesso, adesso non è molto forte, e odo ben pochi crepitii entro il torace. Sentite qualche dolore qui?» «Solo di quando in quando» rispose mio zio. «E' comprensibile, presumo, dopo tutto quel gran tossire.» «Ma consentitemi una supposizione» disse l'Hakim Mimdad. «Lo sentite soltanto in un punto. Sotto lo sterno, a sinistra.» «Be', sì. Sì, è così.» «Inoltre, avete la pelle molto calda. E' costante, questa febbre?» «Va e viene. Viene, sudo, e se ne va.» «Aprite la bocca, per piacere.» Vi guardò dentro, poi scostò le labbra per esaminare le gengive. «Ora fatemi vedere le mani.» Le esaminò sul dorso e sul palmo. «E adesso, posso strapparvi un solo capello della testa?» Così fece, e zio Maffeo non trasalì, e il medico esaminò anche il capello, passandoselo intorno alle dita. Infine domandò: «Sentite la frequente necessità di fare kut?» Mio zio rise e fece roteare gli occhi maliziosamente.
«Sento molte necessità, e spesso. Che cosa vuol dire fare kut?» L'hakim, con un'aria tollerante, come se avesse a che fare con un bambino, si batté significativamente il sedere con la mano. «Ah, kut significa "merda"!» tuonò zio Maffeo, sempre ridendo. «Sì, mi succede spesso. Da quando quel primo hakim mi prescrisse il suo dannato purgante, sono stato afflitto dal cagasangue. Continua a farmi correre. Ma che c'entra tutto questo con la malattia ai polmoni?» «Credo che non abbiate lo hasht nafri.» «Non ha la 'tisichessa'?» Fu mio padre a parlare, stupito. «Ma a un certo momento tossiva sangue.» «Non sangue dei polmoni» disse l'Hakim Mimdad. «Sono le gengive a sanguinare». «Bene» disse zio Maffeo «difficilmente uno potrebbe dispiacersi venendo a sapere che i polmoni non gli si consumano. Ma presumo che voi sospettiate qualche altra malattia.» «Vi chiederò di fare acqua in questo piccolo vaso. Potrò dirvi di più dopo avere esaminato l'urina per cercarvi indizi diagnostici.» «Esperimenti» bofonchiò mio zio. «Precisamente. Nel frattempo, se il proprietario del karwansarai, Iqbal, vorrà portarmi alcuni tuorli d'uovo, mi consentirete di applicarvi altri foglietti del Corano.» «Servono a qualcosa?» «Non nuocciono in alcun modo. Gran parte dell'arte della medicina consiste proprio in questo: non nuocere». Quando l'hakim se ne fu andato, tenendo chiuso con la mano il piccolo vaso contenente l'orina, per impedire ogni contaminazione, uscii a mia volta dal karwansarai. Mi recai anzitutto fino alle tende dei Tamil Chola, ove pronunciai parole di scusa e augurai a quegli uomini ogni prosperità - il che parve renderli ancor più nervosi di quanto fossero sempre in ogni caso - poi proseguii verso la bottega dell'ebreo Shimon. Chiesi di nuovo di far lubrificare il mio attrezzo ed espressi il desiderio che fosse di nuovo Chiv a provvedere, e la ottenni, e lei, come aveva promesso, mi offrì un bel pugnale nuovo; dopodiché, per gratitudine, cercai di dimostrarmi, nel surata, ancor più abile della prima volta. In seguito, uscendo, mi soffermai a prendere in giro, di nuovo, il vecchio Shimon: «Tu e la tua perfida mentalità! Hai tanto denigrato i Romm, l'altra volta, ma guarda quale splendido dono mi ha appena fatto la ragazza, in cambio del mio vecchio pugnale.» Lui sbuffò, indifferente, e disse: «Rallegrati perché non te ne ha ancora conficcato uno tra le costole.» Gli mostrai il pugnale. «Non ne avevo mai veduto uno simile prima d'ora. Sembra un pugnale come tutti gli altri, no? Una sola larga lama. Ma guarda: dopo averlo conficcato in qualche preda, schiaccio l'impugnatura, in questo modo. E la larga lama si separa in due, che si scostano di scatto, e questa terza lama interna, nascosta, sfreccia fuori tra le due, ferendo ancor più in profondità la preda. Non è un congegno meraviglioso?» «Sì, ora lo riconosco. L'ho affilato bene bene non molto tempo fa. E ti consiglio, se lo conserverai, di tenerlo a portata di mano. Apparteneva a un enorme montanaro hunzuk, il quale capita qui di tanto in tanto. Non ne conosco il nome, poiché tutti si limitano a chiamarlo l'Uomo dal Coltello che si Schiaccia, a causa dell'abilità con la quale se ne serve e della sua prontezza nel servirsene quando va in bestia... Devi proprio scappar via?» «Mio zio è malato» risposi, uscendo. «Non dovrei, davvero, rimanere assente troppo a lungo.» Non sapevo se l'ebreo si stesse limitando a scherzare rozzamente, ma non venni affrontato da alcun montanaro hunzuk enorme e furente tra la bottega di Shimon e il karwansarai. Per evitare ogni incontro del genere, nei primi giorni che seguirono rimasi vicino all'edificio principale del karwansarai, ascoltando, in compagnia di mio padre o di zio Maffeo, i vari consigli datici dal proprietario, Iqbal. Quando lodammo con enfasi il buon latte fornito dalle vacche yak e, con altrettanta enfasi, ci meravigliammo dell'ardire dei Bho, che osavano mungere quei mostri, Iqbal ci disse: «Esiste un
semplice trucco per mungere una vacca yak senza alcun pericolo. Basta darle un vitellino da leccare e da annusare, e se ne sta tranquilla e serena durante la mungitura.» Ma non tutto ciò che ci venne detto in quel periodo risultò gradito. L'Hakim Mimdad tornò a parlare con lo zio Maffeo e cominciò ad esprimere, con gravità, il desiderio di avere con lui un colloquio in privato. Mio padre e Narice ed io eravamo presenti e cominciammo ad alzarci per uscire dalla stanza, ma zio Maffeo ci fermò con un gesto perentorio della mano: «Non voglio mantenere segreta qualsiasi cosa che possa riguardare i miei compagni di carovana. Quello che avete da dire, di qualunque cosa si tratti, potete dirlo a tutti noi.» L'hakim si strinse nelle spalle. «In tal caso, se volete abbassare il pi-jamah...» Mio zio così fece e l'hakim osservò l'inguine nudo e il grosso zab di lui. «L'assenza di peli è naturale, o vi radete, lì?» «Elimino i peli con un unguento chiamato mumum. Perché?» «Senza di essi è facile notare lo scolorimento» disse l'hakim, additando. «Guardatevi l'addome. Vedete quel diffuso grigiore metallico sulla pelle?» Mio zio guardò e altrettanto facemmo noi tutti. Poi gli domandò: «E' causato dal mumum?» «No» rispose l'Hakim Mimdad. «Ho notato quel pallore livido anche sulla pelle delle vostre mani. Quando vi toglierete gli stivali chamus, lo noterete anche sui piedi. Queste manifestazioni tendono a confermare quanto sospettavo sin dalla prima visita e in seguito all'osservazione dell'urina. Ecco, guardate, l'ho versata in un vaso bianco affinché possiate vedere voi stesso. Il colore fumoso che ha.» «E allora?» domandò zio Maffeo, tornando a coprirsi. «Forse quel giorno avevo mangiato pilaf colorato, non ricordo.» L'hakim scosse la testa, adagio ma con decisione. «Ho veduto troppi altri sintomi, come ho detto. Avete le unghie opache. I capelli sono fragili e si spezzano facilmente. V'è un solo altro sintomo che non ho veduto, ma dovete averlo in qualche parte del corpo. Una piccola piaga gommosa che non vuole saperne di guarire.» Zio Maffeo lo fissò come se fosse stato uno stregone, poi disse, in un tono di timore reverenziale: «Il morso di una mosca lontano da qui, a Kashan. Niente di più del morso di una mosca.» «Fatemi vedere.» Mio zio si rimboccò la manica sinistra. Vicino al gomito v'era una infiammata e lucente chiazza rossa. L'hakim si chinò per osservarla meglio, domandando: «Se sbaglio, ditemelo. Lì ove la mosca vi morse, la piccola ferita guarì e si formò una minuscola cicatrice nel modo consueto. Ma poi la cicatrice suppurò di nuovo sotto la crosticina, quindi guarì di nuovo e di nuovo suppurò, sempre sotto la crosta...» «Non vi sbagliate» disse zio Maffeo. «Che cosa significa?» «Conferma la mia diagnosi conclusiva... che cioè soffrite del kala-azar. La malattia nera, la brutta malattia. E' causata effettivamente dal morso di una mosca. Ma quella mosca è, naturalmente, l'incarnazione di un jinn malefico. Un jinn che, scaltramente, assume la forma di una mosca talmente piccola da poter essere difficilmente sospettata di nuocere in misura così grande.» «Oh, non poi tanto grande da non poter essere sopportata. Qualche chiazza sulla pelle, un po' di tosse, un po' di febbre, una minuscola piaga...» «Ma, sfortunatamente, non si tratterà di un granché ancora per molto tempo. Le manifestazioni si moltiplicheranno e peggioreranno. I fragili capelli cadranno e voi rimarrete completamente calvo. La febbre causerà dimagrimento e astenia e sfinimento, fino al punto in cui non avrete più alcun desiderio di muovervi. Il dolore sotto lo sterno è causato dall'organo che si chiama milza. La milza diventerà sempre più dolente e comincerà a gonfiarsi spaventosamente verso l'esterno, indurendosi nel frattempo e non funzionando più affatto. Intanto, le chiazze livide si estenderanno ovunque sulla pelle, si oscureranno diventando nere e si gonfieranno, formando grumi gommosi e vescichette e foruncoli e squame finché l'intero vostro corpo - compresa la faccia - sembrerà un enorme grappolo di uva nera. A questo punto voi desidererete ardentemente morire. E morirete quando la milza cesserà del tutto di funzionare. Senza cure immediate e ininterrotte è certo che morirete.»
«Ma esiste una cura?» «Sì. E' questa.» L'Hakim Mimdad mostrò un sacchettino di tela. «Questo medicamento consiste soprattutto di un metallo finemente ridotto in polvere; polvere del metallo chiamato stibium. Sconfigge immancabilmente il jinn e guarisce definitivamente il kala-azar. Se comincerete adesso a prenderlo, in dosi assolutamente minime, e continuerete come io prescriverò, comincerete presto a migliorare. Ricupererete il peso perduto. Le forze vi torneranno. Godrete di nuovo di una salute perfetta. Ma questo stibium è l'unica cura.» «Ebbene? Una cura ci vuole, senza dubbio. Mi sottoporrò volentieri a questa.» «Sono rammaricato di dovervi dire che lo stibium, sebbene fermi il kala-azar, nuoce all'organismo in un altro modo.» Si interruppe. «Siete certo di non preferire, adesso, che questa mia visita continui in privato?» Lo zio Maffeo esitò, sbirciandoci, ma poi raddrizzò le spalle e ringhiò: «Di qualsiasi cosa possa trattarsi, ditela.» «Lo stibium è un metallo pesante. Quando viene ingerito, scende giù dallo stomaco nella regione spalanchica, causando i suoi benefici effetti mentre passa e soggiogando il jinn del kala-azar. Ma, essendo pesante, precipita nella parte più bassa del corpo, vale a dire il sacchetto che contiene le pietre virili.» «Sicché il mio scroto penzolerà più pesante. Sono abbastanza robusto per reggerlo.» «Voi dovete essere, suppongo, un uomo che gode a... ehm... esercitarlo. Ora che siete afflitto dalla malattia nera, non dovete perdere tempo. Se non avete ancora un'amica in questo luogo, vi consiglio di recarvi nel bordello locale, tenuto dall'ebreo Shimon.» Zio Maffeo latrò una risata, e mio padre ed io riuscimmo forse a interpretarla meglio dell'Hakim Mimdad. «Non vedo la relazione. Perché dovrei far questo?» «Per indulgere alle vostre capacità virili finché potrete. Se fossi in voi, Mirza Maffeo, mi affretterei a praticare tutto lo zina possibile. Voi siete condannato o a rimanere orribilmente sfigurato dal kalaazar e in ultimo morirne... oppure, se volete essere curato e mantenuto in vita, dovete cominciare immediatamente a prendere la polvere di stibium.» «Perché mai dite "se"? Naturale che voglio essere curato.» «Pensateci bene. Taluni preferirebbero morire di malattia nera.» «In nome di Dio, "perché"? Parlate chiaramente, amico!» «Perché lo stibium, depositandovisi nello scroto, comincerà immediatamente a esercitare l'altro e suo deleterio effetto... quello di pietrificarvi i testicoli. Ben presto, e per tutto il resto della vostra esistenza, voi sarete totalmente impotente.» «Gesù!» Nessun altro aprì bocca. Nella stanza calò un silenzio terribile, e parve che nessuno fosse disposto a osare di romperlo. Infine fu lo zio Maffeo a parlare di nuovo, e disse, in tono afflitto: «Vi ho dato del "dotor Balanzòn", senza rendermi conto della verità di quanto dicevo. Senza sapere che vi sarebbe stata, da parte vostra, una burla così caustica: costringermi a una scelta tanto comica. O morire miseramente, o vivere non più uomo.» «E' questa la scelta. E la decisione non può essere rimandata molto a lungo.» «Diventerò un eunuco?» «Sì, in effetti.» «Nessuna capacità sessuale?» «Nessuna.» «Ma... forse... dar mafa'ul be-vasilé al-badàm?» «Nakher. Anche il badàm, il cosiddetto terzo testicolo, viene pietrificato.» «Niente da fare, allora. Capòn mal caponà. Ma... il desiderio?» «Nakher. Nemmeno quello.» «Ah, bene!» Lo zio Maffeo ci meravigliò tutti ridivenendo gioviale come sempre. «Perché non lo avete detto subito? Che cosa mi importerà essere impotente se non vorrò avere rapporti sessuali? Pensate, perdiana! Nessun desiderio... e, per conseguenza, nessuna necessità, e pertanto nessuna
seccatura; insomma nessuna complicazione. Dovrei destare l'invidia di ogni prete che sia mai stato tentato da una donna, o da un fanciullo del coro o da un succubo.» Decisi che zio Maffeo non era in realtà gioviale come si sforzava di apparire. «E, tutto sommato, non molti dei miei desideri potrebbero mai essere realizzati, del resto. Il più recente che ebbi si dileguò in un deserto tremolante. E' una fortuna, pertanto, che questo jinn della castrazione abbia aggredito me e non qualcun altro dai desideri più degni.» Latrò un'altra risata, con quell'orrida, falsa giovialità. «Ma sentitemi... come farnetico e parlo a vanvera! Se non starò attento... potrò diventare persino un filosofo moralista, l'ultimo rifugio di chi si trova nella condizione di eunuco. Dio me ne scampi. Un moralista deve essere evitato più di un epicureo, no xe vero? Decido senz'altro, buon hakim, di vivere. Iniziamo pure la cura... ma non fino a domani, eh?» Prese e indossò il voluminoso pastrano chapon. «Come mi avete inoltre prescritto, finché ho desideri dovrei soddisfarli, prodigalmente. Finché esistono ancora succhi in me, dovrei sguazzarvi dentro, no? Pertanto scusatemi, signori. Ciao». E ci lasciò, sbattendo energicamente la porta dietro di sé. «Il paziente affronta la situazione con una ostentazione di coraggio» mormorò l'hakim. «Può darsi che sia sincero» osservò, meditativo, mio padre. «Il più indomito dei marinai, dopo aver sentito molte navi colare a picco sotto di sé, può essere pervaso dalla gratitudine quando infine rimane sulla placida terraferma.» «Spero di no!» proruppe Narice. Poi si affrettò a soggiungere: «E' soltanto la mia opinione personale, buoni padroni. Ma nessun marinaio dovrebbe essere lieto di non navigare più. E, soprattutto, non un marinaio dell'età di Padron Maffeo... che è approssimativamente uguale alla mia. Scusatemi, Hakim Mimdad, ma questo terribile kala-azar è per caso... contagioso?» «Oh, no. No, a meno che anche tu non venga morsicato dalla mosca jinn.» «Ciò nonostante» disse Narice, turbato, «uno sente la necessità impellente... di essere sicuro. Se voi padroni non avete ordini per me, chiedo anch'io di essere scusato.» E se ne andò e, di lì a poco, me ne andai anch'io. Probabilmente, lo schiavo timoroso e superstizioso non aveva creduto a quanto gli era stato assicurato dal medico. Io sì, eppure... Quando si assiste un morente, come ho già avuto occasione di dire, ci si affligge poi, è naturale, per la perdita della persona amata, ma ancor di più - anche se soltanto segretamente, o anche se solamente inconsciamente - si esulta perché nel nostro caso la vita continua a pulsare. Avendo appena assistito a quella che poteva essere definita una morte parziale, o la morte di certe parti, io esultai in quanto continuavo a possedere quelle parti, e, come Narice, divenni ansioso di accertare che le possedevo ancora. Pertanto mi diressi senz'altro verso la bottega di Shimon. Non vi incontrai né Narice né mio zio; con ogni probabilità, lo schiavo era andato in cerca di qualche ragazzo accessibile tra i kuch-i-safari, e forse lo zio Maffeo aveva fatto altrettanto. Chiesi di nuovo all'ebreo la ragazza dalla pelle scura, Chiv, e la presi, con tanta foga che lei ansimò parole romm di attonito godimento - «yilo!» e «friska!» e «alo! alo! alo!» - ed io mi sentii rattristato e compassionevole nei riguardi di tutti gli eunuchi, i sodomiti e ogni altra sorta di anormali che non avrebbero mai conosciuto la delizia di fare intonare da una donna quel canto soave.
3. In occasione della mia successiva visita al bordello di Shimon - ed erano alquanto frequenti, una o due volte alla settimana - chiesi di nuovo Chiv. Ero molto soddisfatto del suo modo di fare il surata, avevo quasi smesso di accorgermi del colore qahwah della pelle di lei, e non ci tenevo affatto a mettere alla prova le femmine di altri colori e di altre razze che l'ebreo aveva nella sua scuderia, in quanto erano tutte di gran lunga inferiori a Chiv, sia per la bellezza del viso che per quella del corpo. Ma il surata non costituiva la mia unica distrazione nel corso di quell'inverno. Infatti, accadeva sempre qualcosa, a Buzai Gumbad, che riusciva nuovo e interessante per me. Ogni qual volta udivo un'esplosione di strepito, o qualcuno aveva calpestato un gatto, oppure qualcun altro si
era messo a suonare musica del suo paese. Io supponevo sempre che si trattasse di questo e andavo a vedere che genere di divertimento potesse offrirmisi. Potevo trovare semplicemente un mirasi o un najhaya malang, ma quasi altrettanto spesso si trattava di qualcosa che valeva maggiormente la pena di osservare. Un mirasi era semplicemente un cantante, ma di un genere particolare: non cantava altro che storie di famiglia. Su richiesta e a pagamento, si accosciava davanti al proprio sarangi - uno strumento alquanto simile alla viola, suonato con l'archetto, ma appoggiato di piatto al terreno - e cominciava a segarne le corde, dopodiché, con questo lamentoso accompagnamento, cinguettava i nomi di tutti gli antenati del Profeta Maometto, o di Alessandro il Grande, o di qualsiasi altro personaggio storico. Ma non erano in molti a chiedere questo genere di esibizione; sembrava che tutti conoscessero già a memoria la genealogia di ogni famoso notabile. I mirasi venivano assunti, il più delle volte, da una famiglia affinché cantassero la "sua" storia. A volte, suppongo, le famiglie si permettevano la spesa soltanto per lo spasso di udire il loro albero genealogico messo in musica, o forse, talora, soltanto per fare colpo su tutti i vicini a portata di udito. Ma, di solito, pagavano un mirasi quando era in vista un'unione matrimoniale con l'appartenente a qualche altra famiglia, e in tal caso vantavano, con tutto il fiato che il mirasi aveva nei polmoni, lo stimabile retaggio del giovane o della giovane sul punto di fidanzarsi. Il capofamiglia scriveva o elencava l'intera genealogia per il mirasi, che metteva poi ritmicamente in rima tutti i nomi, o così mi venne detto. Quanto a me, non riuscivo mai a cogliere molto di più di un suono monotono: il canto e gli sviolinamenti del sarangi potevano continuare per ore. Presumo che occorresse per questo un talento considerevole, ma, dopo avere ascoltato una volta qualcosa come «Reza Feruz generò Lotf Ali e Lotf Ali generò Rahim Yadollah», e così via, partendo da Adamo, successivamente non cercai più di assistere ad esibizioni simili. Le esibizioni di un najhaya malang non diventavano stucchevoli "proprio" altrettanto rapidamente. Malang significa la stessa cosa di darwish, è un santo dedito all'accattonaggio, e anche lassù, sul Tetto del Mondo, v'erano mendicanti, sia del posto, sia di passaggio. Alcuni di essi offrivano un'esibizione prima di chiedere il bakhshish. Magari un malang si metteva a sedere con le gambe incrociate davanti a un cesto e suonava un semplice flauto di legno o di argilla. Il serpente najhaya sollevava la testa dal cesto, dilatava il capino, oscillava in modo aggraziato, danzando, si sarebbe detto, a tempo con i rauchi suoni. Il najhaya è un rettile spaventosamente irritabile e velenoso, e ogni malang sosteneva che nessuno tranne lui disponeva di un simile potere sul serpente - un potere acquisito in modi occulti. Ad esempio, il cesto era di un tipo tutto speciale, chiamato khajur, e poteva essere intrecciato da un solo uomo; il flauto primitivo doveva essere santificato in maniera mistica; la musica era una melodia conosciuta soltanto dagli iniziati. Ma ben presto io mi accorsi che ad ogni serpente erano stati strappati i denti dai quali scorreva il veleno, per cui non poteva nuocere in alcun modo. Era inoltre manifesto, poiché i serpenti non hanno orecchie, che i najhaya si limitavano a oscillare a destra e a sinistra allo scopo di tener d'occhio, sebbene impotenti, l'estremità oscillante del flauto. Il malang avrebbe potuto suonare una melodia furlana veneziana, e ottenere lo stesso effetto. Ma talora io udivo un'improvvisa raffica di musica e andavo in cerca dell'origine del suono e trovavo un gruppo di splendidi uomini kalash intenti a cantilenare con voci baritonali: «Dhama dham mast qalandar...», mentre calzavano le loro scarpe rosse, chiamate utzar, che essi mettevano soltanto quando erano sul punto di lanciarsi nella danza martellante e scalciante e sgambettante che aveva nome dhamal. Oppure potevo udire i rulli di tamburo e i selvaggi suoni flautati che accompagnavano una danza ancor più furiosa, scatenata e piroettante chiamata attan, alla quale poteva unirsi una buona metà dell'accampamento, tanto gli uomini quanto le donne. Una volta, avendo udito musica scaturire nell'oscurità della notte, andai in cerca del suono fino ai carri, disposti circolarmente, di una carovana sindi e vi trovai le donne sindi che si esibivano in una danza riservata alle sole rappresentanti del loro sesso, cantando mentre danzavano: «Sammi meri warra, ma'in wa'ir...» Trovai là Narice che guardava a sua volta, sorridendo e segnando il tempo con
le dita sulla propria pancia, in quanto quelle erano donne del suo paese di origine. Femmine un po' troppo muscolose per i miei gusti, e in genere baffute, ma la loro danza era graziosa, in quanto veniva eseguita alla luce della luna. Sedetti accanto a Narice, che appoggiava la schiena alla ruota di uno dei carri coperti, e lui interpretò per me il canto e la danza. Le donne stavano narrando una tragica storia d'amore, disse: la storia di una principessa Sammi, una fanciulla innamorata di un Principe fanciullo a nome Dhola, il quale, però, una volta cresciuto, era partito, e l'aveva dimenticata e non era tornato mai più. Una storia triste, ma potevo capire il Principe Dhola, se la sua piccola Principessa Sammi, crescendo, era diventata una donna robusta, cicciosa e baffuta. Ogni donna della carovana doveva essere stata reclutata per la danza, poiché entro il carro contro il quale ci appoggiavamo Narice ed io, un poppante trascurato e irrequieto stava strillando così forte da soffocare persino la sonora musica sindi. Sopportai gli strilli per qualche tempo, nella speranza che, in ultimo, il bambino si addormentasse o si soffocasse... non mi importava un granché in qual modo si sarebbe azzittito. Quando, dopo molto tempo, non accadde né l'una cosa né l'altra, borbottai esasperato qualcosa. «Consentitemi di farlo tacere, padrone» disse Narice, e si alzò e salì sul carro. Gli strilli del bambino si ridussero a gorgoglii e vennero poi sostituiti dal silenzio. Con un senso di sollievo, dedicai tutta la mia attenzione alla danza. Il bambino continuò piacevolmente a tacere, ma Narice rimase sul carro per qualche tempo. Quando infine discese per mettersi di nuovo a sedere accanto a me, lo ringraziai e soggiunsi, scherzosamente: «Che cosa hai fatto? Lo hai ucciso e seppellito?» Rispose, in tono compiaciuto: «No, padrone, ho avuto un'ispirazione improvvisa. Ho deliziato il bambino con un nuovo tipo di ciuccio da succhiare e con un latte più cremoso di quello di sua madre.» Mi occorse qualche momento per rendermi conto di quello che aveva detto. Poi mi scostai da lui ed esclamai: «Buon Dio, non puoi avere fatto una cosa simile!» Egli non parve vergognarsi affatto, era soltanto blandamente stupito dal mio scoppio d'ira. «Gesù, il tuo schifoso, piccolo aggeggio è stato laidamente impestato e sudiciamente inserito in animali e deretani e... e adesso te la sei fatta con un bambino...! E del tuo popolo!» Lui fece una spallucciata. «Volevate che il piccolo tacesse, Padron Marco. Vedete? Continua a dormire il sonno del soddisfacimento. E anch'io mi sento molto meglio di prima.» «Meglio di prima! Gesù, Maria e Giuseppe. Ma tu sei il più... il più laido e odioso simulacro di essere umano che io abbia mai conosciuto invita mia!» Meritava, come minimo, di essere percosso a sangue, e senza dubbio gli sarebbe toccato di peggio dai genitori del bambino. Ma poiché, in un certo qual modo, ero stato io ad incitarlo, non lo picchiai. Mi limitai a rimproverarlo e a insultarlo e gli citai le parole di Gesù Nostro Signore - o del Profeta Isa di Narice - che invitavano a trattare sempre con tenerezza i fanciulli, «poiché ai pargoli appartiene il Regno di Dio». «Ma "l'ho fatto" con tenerezza, padrone. E ora voi avete il silenzio per godervi in pace il resto della danza.» «Non me lo godrò! Non in tua compagnia, abietta creatura. Non potrei sostenere lo sguardo delle donne che danzano, sapendo come una di loro sia la madre di quel povero innocente.» E così me ne andai prima che lo spettacolo fosse terminato. Ma, per fortuna, quasi tutte queste occasioni non vennero guastate da episodi del genere. A volte, quando seguivo il richiamo della musica, esso mi conduceva non già ad una danza, ma ad una gara. Esistevano due tipi di gare all'aperto apprezzate a Buzai Gumbad, e nessuna di esse avrebbe potuto svolgersi in uno spazio molto più limitato, poiché entrambe coinvolgevano un numero considerevole di uomini a cavallo, lanciati al galoppo. Ad una delle gare prendevano parte soltanto gli uomini hunzukut, in quanto era stata inventata originariamente nella loro valle Hunza, in qualche punto a sud di quelle montagne. Il giuoco consisteva nel manovrare pesanti bastoni, simili a mazzuoli, colpendo un oggetto che gli uomini chiamavano il pulu, un nodo di legno di salice arrotondato e rotolante sul terreno, simile a una palla.
Ogni squadra comprendeva sei hunzukut a cavallo, che tentavano di colpire quel pulu con il bastone - colpendo nel frattempo non di rado, ed entusiasticamente, gli avversari, i loro cavalli, e persino i propri compagni di squadra - allo scopo di far finire il pulu al di là della frenetica difesa dei sei antagonisti, finché esso rotolava o volava oltre la linea della vittoria, tracciata a una estremità del campo. Il più delle volte non riuscivo a seguire l'andamento della partita perché era difficile per me distinguere gli uni dagli altri i giocatori delle due squadre. Erano tutti pesantemente coperti con pellicce e pelli, oltre a portare il tipico copricapo hunzuk, che dà a un uomo l'aspetto di chi stia reggendo due grosse torte in equilibrio sulla testa. Il cappello consiste, in realtà, in un lungo tubo di ruvido tessuto, incurvato a entrambi i lati finché le estremità del tubo si incontrano, dopodiché il tutto viene piazzato sulla testa. Per le gare di pulu, i sei uomini di una delle squadre si mettevano un cappello rosso, e gli altri sei un cappello blu. Ma, dopo i primissimi minuti di giuoco, i colori diventavano quasi indistinguibili. Inoltre perdevo spesso di vista lo stesso pulu di legno tra i martellanti quarantotto zoccoli dei cavalli e la neve e il fango e il sudore che schizzavano dappertutto e il cozzare confuso dei bastoni e, non di rado, qualche giocatore disarcionato che veniva a sua volta colpito e scalciato qua e là. Ma gli spettatori più esperti, vale a dire quasi tutti gli altri a Buzai Gumbad, avevano lo sguardo più acuto. Ogni volta, vedendo il pulu balzare al di là della linea vincente, a un lato del campo o a quello opposto, urlavano tutti insieme una parola hunzuk la quale significa che una delle squadre aveva segnato un punto avvicinandosi alla vittoria - e al contempo un gruppo di musicanti picchiava sui tamburi e soffiava nei flauti dando luogo a una cacofonia di esultanza. La partita terminava soltanto quando una delle squadre aveva per nove volte lanciato il pulu al di là della linea di gol degli avversari. Per conseguenza, il branco di dodici cavalli poteva anche per una giornata intera tuonare sul campo sempre più fangoso e traditore, mentre i giocatori urlavano e bestemmiavano e gli spettatori sbraitavano incoraggiamenti e i bastoni vibravano colpi e cozzavano e talora si spezzavano e il fango fatto zampillare rivestiva giocatori e cavalli e spettatori e musicanti, e i cavalieri piombavano giù di sella e cercavano di mettersi in salvo sgattaiolando via e allegramente venivano travolti dai loro compagni, e, verso la fine della giornata, quando il campo non era altro che una distesa di melmoso fango, anche i cavalli scivolavano e perdevano l'equilibrio e stramazzavano. Si trattava di uno sport splendido ed io non mi lasciavo mai sfuggire l'occasione di assistere alle partite. L'altro giuoco era analogo, nel senso che vi partecipavano molti uomini a cavallo. Ma, in quest'altro sport, il numero non contava, in quanto non esistevano due squadre, e ogni cavaliere giocava per proprio conto contro tutti gli altri. Il giuoco si chiamava bous-kashia, ed io credo che questo sia un termine tadzhik; ma non si trattava della specialità di un qualsiasi popolo o di una qualsiasi tribù e tutti gli uomini vi prendevano parte, in una occasione o nell'altra. Anziché un pulu, l'oggetto al centro della mischia era la carogna di una capra con la testa mozzata. La creatura appena uccisa veniva semplicemente lanciata a terra tra le zampe dei cavalli, e i numerosi cavalieri si precipitavano tutti intorno ad essa e lottavano e spingevano e si prendevano a pugni, sforzandosi tutti di chinarsi e di sollevare quella capra. Colui che infine vi riusciva, doveva, subito dopo, lanciarsi al galoppo e portarla al di là di una linea, in fondo al campo. Ma, naturalmente, veniva inseguito da tutti gli altri, che cercavano di strappargli il trofeo, di fargli incespicare o deviare il cavallo, oppure di disarcionare lui. E chiunque riuscisse a impadronirsi della contestata carogna diveniva egli stesso la preda di tutti gli altri cavalieri. Pertanto il giuoco, in realtà, non era che una gara di lotta e di presa a cavallo, e al galoppo. Era furibondo e appassionante e ben pochi giocatori ne uscivano illesi e non pochi spettatori venivano calpestati dalla torma di cavalli oppure investiti e fatti svenire dalla capra che saettava in aria o da una sua coscia sanguinante strappata dal corpo. Durante quei lunghi mesi invernali sul Tetto del Mondo, oltre alle ore che impiegavo assistendo alle partite e alle danze, o sul letto hindora con Chiv, o dedicandomi ad altre distrazioni, ingannai altresì il tempo in modo meno frivolo conversando con l'Hakim Mimdad. Zio Maffeo non gradiva alcun
commento sulla sua malattia e sui guai che essa gli aveva causato. Stava prendendo lo stibium in polvere, come gli era stato prescritto dal medico, e noi potevamo constatare che ricuperava il peso perduto e diventava ogni giorno più forte, ma tenevamo a freno ogni curiosità per quanto concerneva il sapere quando, esattamente, la medicina lo avrebbe tramutato in un eunuco, né lui ci teneva spontaneamente informati. Poiché non lo incontrai mai in compagnia di un ragazzo o di qualche altro possibile amante finché restammo a Buzai Gumbad, non saprei dire quando rinunciò, in ultimo, a simili sollazzi. In ogni modo, l'hakim continuava a tornare a intervalli regolari, per visitare lo zio Maffeo e accertarsi dei progressi da lui compiuti, e per aumentare o diminuire le minuscole dosi di stibium che egli doveva ingerire. Dopo che aveva visitato il paziente, lui ed io ci mettevamo spesso a sedere e a conversare, poiché avevo constatato come egli fosse un vecchio quanto mai interessante. Al pari di ogni altro «mèdego» che ho conosciuto, Mimdad considerava la pratica quotidiana soltanto come una necessaria e ingrata fatica grazie alla quale si guadagnava da vivere, e preferiva dedicare quasi tutte le sue energie e la sua passione ai propri studi personali. Come ogni altro mèdego, sognava di scoprire qualcosa di nuovo e di miracoloso in medicina, così da stupire il mondo intero e da far sì che il suo nome figurasse in eterno tra quelli di divinità mediche come Asklepios e Ippocrate e Ibn Sina. Tuttavia, quasi tutti i medici che io conosco - a Venezia, per lo meno - si occupano di studi sanzionati o, come minimo, tollerati dalla Santa Madre Chiesa, come ad esempio la ricerca di nuovi modi mediante i quali espellere o esorcizzare i demoni delle malattie. Gli studi e gli esperimenti di Mimdad, invece, venni a sapere, non tanto concernevano la sfera delle arti della guarigione, quanto la sfera delle arti di Hermes Trismegistus, che rasentano la stregoneria. Poiché le arti di Hermes erano state originariamente e per così lungo tempo praticate da pagani come i Greci e gli Arabi e gli Alessandrini, ai Cristiani è logicamente proibito occuparsene. Ma ogni cristiano ne ha sentito parlare. Io, dal canto mio, sapevo che i seguaci di Hermes antichi e moderni - gli iniziati, come amano essere chiamati - hanno quasi sempre, e dal primo all'ultimo, cercato di scoprire uno o due segreti arcani: l'Elisir di lunga vita, oppure il modo per tramutare i metalli vili in oro. Pertanto mi meravigliai quando l'Hakim Mimdad disprezzò entrambi questi scopi definendoli «prospettive irrealistiche». Egli ammise, sì, di essere a sua volta un esperto di quell'arte antica e occulta. La chiamò al-kimia, e asserì che Allah l'aveva insegnata per primo ai profeti Musa e Harun, intendendo Mosè e Aronne, dai quali era stata tramandata nel corso dei secoli ad altri famosi sperimentatori, come il grande savio arabo Jabir. E Mimdad ammise inoltre che, sì, come ogni altro esperto, stava cercando qualcosa di esclusivo, ma qualcosa di meno grandioso dell'immortalità o di una inaudita ricchezza. Egli sperava soltanto di scoprire - o di riscoprire, piuttosto - quello che chiamava «il filtro di Majnun e Laila». Un giorno, quando l'inverno, lì in alto, aveva cominciato ad allentare la sua morsa, e i capi delle karwan stavano studiando il cielo per decidere quando avrebbero dovuto iniziare la discesa dal Tetto del Mondo, Mimdad mi narrò la storia di quel filtro straordinario. «Majnun era un poeta e Laila era una poetessa, e vissero entrambi tanto tempo fa e molto lontano da qui. Nessuno sa dove o quando. Eccettuate le poesie giunte fino a noi, la sola cosa nota di Majnun e Laila è la seguente: entrambi erano in grado di cambiare come volevano le proprie sembianze. Potevano diventare più giovani o più vecchi, più belli o più brutti, e diventare dell'uno o dell'altro dei due sessi, a piacer loro. O anche potevano modificare completamente il loro corpo, divenendo giganteschi uccelli rukh, o formidabili leoni o terribili mardkhora. Oppure, quando si trovavano in uno stato d'animo più sereno, si trasformavano in miti cervi, o in splendidi cavalli, o in leggiadre farfalle...» «Un talento utile» commentai io. «Le loro poesie potevano così descrivere quegli sconosciuti modi di vivere più esattamente di quanto sia mai riuscito a fare ogni altro poeta.» «Senza dubbio» disse Mimdad. «Ma essi non cercarono mai di ricavare guadagni o rinomanza dal loro potere. Se ne servivano soltanto per il piacere... e il piacere che prediligevano era l'amore.» «Dio me varda! Ci provavano gusto a fare l'amore con cavalli e così via? Ma allora il nostro schiavo deve avere nelle vene il sangue di un poeta!»
«No, no, no. Majnun e Laila facevano l'amore soltanto l'uno con l'altra. Riflettete, Marco. Che necessità avrebbero avuto di chiunque altro o di animali?» «Hm... sì» ammisi. «Immaginate la gamma delle esperienze a loro disposizione. Lei poteva diventare il maschio e lui la femmina. Oppure lei poteva rimanere Laila e lui poteva montarla tramutandosi in leone. O, ancora, lui poteva rimanere Majnun e lei essere una delicata qazèl. Oppure potevano entrambi tramutarsi in persone completamente diverse. Diventare entrambi fanciulli rugiadosi, o tutti e due uomini, o tutti e due donne, o l'uno un adulto e l'altra una fanciulletta. O entrambi scherzi di natura dall'aspetto grottesco.» «Gesù...» «Quando si stancavano dell'amore umano, per quanto vario e capriccioso, potevano gustare le voluttà ancor più diverse che devono essere note alle bestie o ai serpenti e al demone jinn e alla fata peri. Potevano trasformarsi in due uccelli, e fare l'amore in volo, oppure in due farfalle, e fare all'amore avvolti da un fiore fragrante.» «Quale piacevole prospettiva.» «Oppure potevano addirittura assumere la forma di esseri umani ermafroditi, e, sia Majnun sia Laila, divenivano simultaneamente al-fa'il e al-mafa'ul l'uno per l'altra. Le possibilità erano infinite, e loro dovettero provarle tutte, poiché soltanto a questo si dedicarono per tutta la vita - tranne quando erano momentaneamente sazi e si riposavano scrivendo una poesia o due.» «E voi sperate di emularli?» «Io? Oh, no, sono vecchio e già da un pezzo ho lasciato dietro di me ogni desiderio amoroso. Inoltre, un iniziato non deve dedicarsi all'al-kimia per il proprio vantaggio. Spero di poter rendere il filtro e il suo potere accessibile a tutti gli uomini e a tutte le donne.» «Come sapete che si servivano di un filtro? Se si fosse trattato di una formula magica, o di una poesia che recitavano prima di ogni trasformazione?» «In tal caso sarei completamente disorientato. Non so scrivere una poesia, e nemmeno recitare versi con una certa eloquenza. Vi prego, non fate ipotesi scoraggianti, Marco. Un filtro "posso" prepararlo, con liquidi e polverine e incantesimi.» A me sembrava una speranza assai tenue cercare il potere in un filtro, soltanto perché i filtri erano la sola cosa di cui egli fosse capace. Ma domandai: «Ebbene? Avete ottenuto qualche risultato?» «Qualcuno, sì. Nella città ove risiedo, Mosul. Una delle mie mogli morì dopo aver ingerito il filtro che avevo preparato, ma morì con un sorriso di beatitudine sulle labbra. Una variante del preparato fece sì che un'altra delle mie mogli sognasse qualcosa di estremamente vivido. Nel sonno cominciò ad accarezzare, a palpare, e persino ad artigliare le proprie parti intime, e questo accadde molti anni or sono e ancora non ha smesso, poiché non si è più destata da quel sogno. Si trova adesso in una stanza dalle pareti di tela nella Casa dell'Illusione a Mosul, e ogni volta che io mi reco là per informarmi sulle sue condizioni, l'hakim mio collega in quella Casa mi dice che ella insiste tuttora interminabilmente con la sua interminabile auto-eccitazione. Vorrei poter sapere che cosa sta sognando.» «Gesù! E questo lo considerate un "successo"?» «Ogni esperimento è riuscito quando si impara qualcosa da esso. In seguito ho eliminato dalla mia ricetta i pesanti sali metallici, essendo pervenuto alla conclusione che sono essi a causare il coma profondo o la morte. Ora mi avvalgo dei postulati di Anassagora e impiego soltanto ingredienti organici e omeopatici. Yohimbo, cantaride, il fungo falloide, sostanze di questo genere. Non v'è più alcun pericolo che il soggetto non si risvegli.» «Mi rende esultante il saperlo. E adesso quali sono gli effetti?» «Be', c'era una coppia senza figli che aveva rinunciato ad ogni speranza di averne. Adesso hanno quattro o cinque bei ragazzi e credo che non abbiano mai contato il numero delle femmine.» «Sembra essere un successo, in un certo qual modo.»
«In un certo qual modo, sì. Ma tutti i loro figli sono umani. E normali. Devono essere stati concepiti nel solito modo.» «Capisco quel che intendete dire.» «E quei due furono gli ultimi volontari a sperimentare il filtro. Credo che l'hakim della Casa dell'Illusione abbia fatto circolare dicerie a Mosul, violando il giuramento di noi medici. Pertanto la maggiore difficoltà nella quale mi imbatto non consiste nel produrre nuove varianti del filtro, ma nel trovare soggetti disposti a metterlo alla prova. Io sono troppo vecchio per tentare e le altre due mogli che mi restano rifiuterebbero in ogni caso di sottoporsi all'esperimento. Come forse vi sarete reso conto, è preferibile provare il filtro con un uomo e una donna contemporaneamente.» «Già, ovviamente. Un Majnun e una Laila, per così dire.» Seguì un lungo silenzio. Poi egli chiese, sommessamente, timidamente, esitante e speranzoso: «Marco, mi potreste dire se per caso avete rapporti con una Laila compiacente?» Io non gli risposi.
4. «Ti consiglierei di lasciare qui il pugnale» disse Shimon, mentre attraversavo la bottega. «Quella femmina domm è di pessimo umore, oggi. Ma forse gradiresti una delle altre, questa volta? Ora che l'accampamento sta per vuotarsi, immagino che anche il tuo gruppo partirà presto. Adesso che sei alla fine della sosta qui, non ti andrebbe un cambiamento? Un'altra ragazza, invece della domm?» No, volevo Chiv per la parte di Laila con il mio Majnun. Tuttavia, tenuto conto del carattere imprevedibile della cosa, seguii il consiglio dell'ebreo e lasciai il pugnale sul banco. Vi lasciai, inoltre, una piccola pila di dirham, a titolo di pagamento, per quanto a lungo potessi trattenermi, allo scopo di evitare che egli venisse a disturbarci per dirmi che non avevo più il diritto di restare. Poi mi recai nella stanza di Chiv, dicendo, mentre entravo: «Ho qualcosa per te, ragazza mia.» «Anch'io ho qualcosa per te» disse lei. Sedeva nuda sull'hindora e faceva dondolare lievemente il letto sospeso alle corde mentre si strofinava olio sui seni bruno-scuri e tondi e sul ventre brunoscuro e piatto, allo scopo di far sì che luccicassero. «O forse avrò qualcosa per te tra non molto.» «Un altro pugnale?» domandai distrattamente, cominciando a spogliarmi. «No. Quello che ti ho dato lo hai già perduto? Sembra di sì. No, sarà qualcosa che non potrai smarrire così facilmente. Sto per avere un bambino.» Smisi di muovermi, rimanendo come paralizzato, e probabilmente con un aspetto ridicolo, in quanto ero per metà fuori del pi-jamah e mi trovavo ritto su una sola gamba. «Che significa, non potrai smarrirlo? Perché vieni a raccontarlo a me?» «A chi altro dovrei dirlo?» «Perché non a quel montanaro hunzuk? Tanto per menzionarne uno a caso.» «Lo farei se il bambino fosse di un altro. Ma non è di un altro.» Avevo ormai smaltito il primo stupore ed ero di nuovo padrone delle mie facoltà. Ricominciai a spogliarmi, ma non con la stessa avida fretta di prima, e dissi, in tono ragionevole: «Sono appena tre mesi circa che vengo qui. Come puoi saperlo?» «Lo so. Sono una juvel romni. Noi Romm conosciamo modi per sapere queste cose.» «Allora dovresti anche conoscere i modi per impedirle.» «Li conosco. Di solito inserisco, prima, un tampone fatto di sale marino inumidito con olio di noce. Se ho tralasciato questa precauzione l'ho fatto perché ero sopraffatta dal tuo vyhadi, dal tuo desiderio impetuoso.» «Non incolpare me e non adularmi, in qualsiasi modo tu creda di potermi persuadere. Non voglio nessuna progenie bruno-scura.» «Oh?» Non disse altro, ma socchiuse gli occhi mentre mi fissava. «In ogni modo, mi rifiuto di crederti, Chiv. Non vedo assolutamente alcun cambiamento nel tuo corpo. E' ancora molto attraente e snello come prima.»
«Lo è, sicuro, e il mio lavoro può continuare soltanto se si conserva così. Perché, dunque, non vuoi credermi?» «Credo che tu stia soltanto simulando. Per tenermi accanto a te. O per costringermi a condurti con me quando me ne andrò da Buzai Gumbad.» Sommessamente: «Sei così desiderabile.» «Non sono di certo un sempliciotto. Mi stupisce che tu mi abbia giudicato tanto gonzo da credere a questa astuzia femminile vecchia come il cucco e abusatissima.» Sommessamente: «Un'astuzia femminile, eh?» «In ogni modo, se aspetti un bambino, senza dubbio un'esperta... senza dubbio una scaltra juvel romni sa come liberarsene.» «Oh, sì. Vi sono vari modi. Soltanto, pensavo che tu avresti avuto qualcosa da dire al riguardo.» «Allora perché stiamo litigando? Ci troviamo completamente d'accordo. E adesso, ho qui qualcosa per te. Per tutti e due.» Lasciando cadere l'ultimo dei miei indumenti, gettai sull'hindora un pacchetto avvolto nella carta e una piccola fiala di argilla. Lei aprì il pacchetto e disse: «Non è altro che un po' del solito bhang. Che cosa c'è nella piccola bottiglia?» «Chiv, per caso hai mai sentito parlare di Majnun il poeta e di Laila la poetessa?» Le sedetti accanto e le riferii quanto mi aveva detto l'Hakim Mimdad degli innamorati di tanto tempo prima e della facilità con la quale si trasformavano in tanti altri tipi di amanti. Non le ripetei, però, le parole dell'hakim quando avevo spontaneamente offerto me stesso e Chiv per sperimentare l'ultima versione del filtro. Il vecchio era sembrato dubbioso e aveva bofonchiato: «Una ragazza dei Romm? Quel popolo afferma di conoscere certe sue stregonerie. Potrebbero contrastare con l'alkimia.» Conclusi con le istruzioni che egli mi aveva impartito. «Beviamo metà per ciascuno il liquido contenuto nella fiala. Poi, mentre aspettiamo che faccia effetto, cominciamo a bruciare l'hashish. Il bhang, come lo chiamate voi. Inaliamo il fumo, che ci manderà in estasi, assopendo la nostra volontà e rendendoci più ricettivi ai poteri del filtro.» Ella sorrise, come se fosse placidamente divertita. «Tenteresti una magia gajo su una romni? V'è un detto, Marco. A proposito dello sciocco che si dà la pena di disporre la legna sul fuoco del demonio.» «Questa non è una stupida magia. Questa è al-kimia, accuratamente preparata da un medico eccezionalmente savio e studioso.» Il sorriso le rimase sulla faccia, ma non più divertito. «Hai detto di non scorgere alcun cambiamento nel mio corpo, ma ora vorresti cambiare il corpo di entrambi. Mi hai rimproverata accusandomi di fingere, e ora vorresti che fingessimo entrambi.» «Questa non è una finzione, si tratta di un "esperimento". Senti, non pretendo che una mera... Non pretendo che tu capisca la filosofia... Limitati a credere alla mia parola, che questo è qualcosa di assai più maestoso e più bello di qualsiasi barbara superstizione.» Lei sturò la fiala e ne fiutò il contenuto. «L'odore è nauseante.» «L'hakim ha detto che le esalazioni dell'hashish vinceranno qualsiasi nausea. E mi ha elencato tutti gli ingredienti del filtro. Semi di felce, foglie di cuscuta, la radice chob-i-got, polvere di corna di cervo... e altre sostanze innocue, nessuna delle quali può far male. Non inghiottirei di certo questo filtro, né chiederei a te di inghiottirlo, se le cose stessero altrimenti.» «Benissimo» disse lei, e il sorriso si tramutò in un ghigno alquanto perfido; poi ella inclinò la fiala e bevve un sorso. «Spargerò il bhang sul braciere.» Aveva lasciato quasi tutto il filtro per me - «Il tuo corpo è più grosso del mio, forse sarà più difficile cambiarlo» - ed io ingollai il resto della pozione. La piccola stanza si riempì rapidamente del fumo denso, azzurrognolo, appiccicosamente dolciastro dell'hashish, mentre Chiv smuoveva le braci, mormorando nel frattempo qualcosa tra sé e sé, in quella che ritenni essere la sua lingua. Mi distesi completamente sull'hindora e chiusi gli occhi, per stupirmi ancor più quando, riaprendoli, avrei veduto in che cosa mi ero trasformato.
Forse scivolai nel greve sonno causato dall'hashish, ma non credo. L'ultima volta che questo era accaduto, gli eventi del sogno avevano avuto un che di caotico ed erano stati vaghi e confusi. Questa volta tutti gli avvenimenti che seguirono parvero reali all'estremo e nitidissimi, come se davvero si stessero "svolgendo"... Giacevo con gli occhi chiusi, sentendo su tutto il corpo nudo il tepore delle braci smosse nel braciere, inalando energicamente il fumo dolciastro e aspettando di percepire una qualche diversità in me stesso. Non so che cosa mi aspettassi, forse il dispiegarsi, dalle mie scapole, delle ali di un uccello, o di una farfalla o di una peri; o forse l'ingigantirsi del mio membro virile, già eretto nell'aspettativa, fino alle dimensioni massicce di quello di un toro. Invece non sentii altro che un graduale e sgradevole intensificarsi del tepore greve nella stanza e poi l'urgente necessità di vuotarmi la vescica. Un qualcosa di simile al consueto fenomeno mattutino, quando ci si desta con il membro rigido, a «candelòto», ma ingorgato in realtà soltanto da volgare orina, la qual cosa fa sì che sia imbarazzante servirsene nell'una o nell'altra delle sue normali funzioni. Non si desidera, in quei momenti, utilizzarlo sessualmente, ma al contempo dispiace farlo afflosciare orinando, in quanto, eretto com'è, orina sempre verso l'alto e di solito si combina un disastro. Questo non era affatto un inizio promettente per le mie aspettative amatorie, e di conseguenza continuai a rimanere immobile, con gli occhi chiusi, sperando che la sensazione scomparisse. Non scomparve. Si intensificò, anzi, e altrettanto fece il calore nella stanza, finché io divenni irritato e mi sentii a disagio. Poi, all'improvviso, una fitta dolorosa mi saettò nell'inguine, come capita a volte quando la minzione viene trattenuta troppo a lungo, ma questa volta la sofferenza fu tale che, involontariamente, mi lasciai sfuggire un breve schizzo di urina. Per un momento ancora mi limitai a giacere immobile, vergognandomi di me stesso e sperando che Chiv non se ne fosse accorta. Ma poi mi resi conto che non avevo sentito alcuno spruzzo sul ventre nudo, come sarebbe dovuto accadere se l'organo eretto avesse orinato verso l'alto. Sentivo invece l'umidore in basso, tra le gambe. Una cosa inconsueta. Un piccolo motivo di stupore. Aprii gli occhi. Tutto attorno a me non v'era altro che la bruma del fumo azzurrognolo: le pareti della stanza, il braciere, la ragazza, tutto rimaneva invisibile nel fumo. Abbassai gli occhi allo scopo di vedere perché il mio «candelòto» si fosse comportato in un modo così bizzarro, ma le mammelle mi impedirono di vederlo. Le mammelle! Avevo i seni di una donna, e bellissimi, per giunta: ben fatti, impennati, dalla pelle color dell'avorio, con graziose e grandi areole color fulvo intorno ai capezzoli tumescenti; e l'intero apparato luccicava di sudore, un rivoletto del quale serpeggiava nel solco tra i seni. Il filtro stava agendo! Mi trasformavo. Ero partito per il più bizzarro viaggio di scoperta che avessi mai intrapreso! Alzai la testa per vedere in qual modo il «candelòto» si armonizzasse con le nuove aggiunte. Ma ancora non riuscii a scorgerlo poiché avevo altresì un'immensa pancia tondeggiante, della quale le mammelle costituivano i primi contrafforti. A questo punto cominciai a sudare davvero abbondantemente. Sarebbe stata un'esperienza nuova essere per qualche tempo una donna... ma una donna "grassa" fino all'obesità? Forse ero persino una donna deforme, in quanto l'ombelico, che non era mai stato nulla di più di una insignificante fossetta, adesso costituiva una sporgenza, appollaiata come un piccolo faro sul mio ventre montagnoso. Nell'impossibilità di vedermi il membro, lo cercai, brancolando, con la mano. Non trovai altro che i peli dell'inguine, ma erano alquanto più lussureggianti e ricciuti di come li sentivo di solito. E quando discesi più in basso con la mano, scoprii - senza sorprendermi troppo, ormai - che il «candelòto» era scomparso, e così lo scroto. Al loro posto avevo gli organi di una donna. Non balzai su urlando. In fin dei conti, avevo desiderato un cambiamento e me l'ero aspettato. Se mi fossi trasformato in qualcosa di simile a un rukh, probabilmente sarei rimasto più scosso e sgomento. In ogni modo, ero persuaso che il cambiamento non sarebbe stato definitivo. Ciò nonostante, non mi sentivo neppure del tutto felice. Gli organi di una donna sarebbero dovuti riuscire alquanto familiari alla mia mano indagatrice, ma anch'essi sembravano tesi e duri e caldi, e schifosamente viscidi a causa della minzione involontaria. Non somigliavano, al tatto, alla soffice e
apprezzata e accogliente botsa... la mihrab, la kus, la topa, la fica... nella quale avevo infilato così spesso le dita e qualcos'altro. A parte ciò, al mio "Io" maschile sembravano... come esprimermi? Mi sarei aspettato, essendo una donna palpata nelle sue parti intime, sia pure dalle proprie dita, di provare una qualche sensazione piacevole, o un solleticamento, o un qualcosa di soddisfacente e di noto. Ma adesso "ero" una donna e percepivo soltanto la pressione delle dita, la qual cosa faceva sì che mi sentissi solamente molestata, e la mia unica reazione interna era un prorompere di irritabilità. Adagio, insinuai un dito in me stessa, ma non affondò molto prima di essere bloccato e poi la morbida guaina intorno ad esso lo respinse - potrei dire, quasi, che lo "sputò" fuori. V'era un qualcosa in profondità entro di me. Forse un tampone cautelativo di sale marino? Ma il sondaggio aveva destato in me più ripugnanza che curiosità, e non ero propenso a sondare ancora. Anche quando, volutamente, lasciai che un dito solleticasse con leggerezza la zambur, la lumaghèta quella più tenera tra le mie nuove parti intime, sensibile come le ciglia a qualsiasi contatto - non sentii altro che l'intensificarsi dell'irritabilità e del desiderio di essere lasciata in pace. Mi domandai: una donna, quando viene accarezzata, non prova mai niente di più piacevole di questo? No di certo, dissi a me stesso. Allora forse una donna obesa non prova mai niente? Dovevo ancora accarezzare una donna davvero grassa, ma ne dubitavo. In ogni modo, nella mia incarnazione femminile, ero "davvero" una donna grassa? Mi drizzai a sedere per accertarlo. Be', continuavo ad avere quell'addome enormemente gonfio, e a questo punto mi resi conto che veniva reso ancor più antiestetico da uno scolorimento che deturpava la pelle tesa, color dell'avorio; una linea marrone tra l'ombelico sporgente e l'inguine. Il ventre, però, sembrava essere la sola cosa grassa di me. Avevo le gambe abbastanza snelle e non pelose, e sarebbero potute essere considerate graziose se non fosse stato che tutte le vene, su di esse, erano rilevate e visibili, con un aspetto serpentino, come una rete di cunicoli di vermi subito sotto la pelle. Anche le mani e le braccia sembravano abbastanza ben fatte e femminilmente soffici. Ma a me non parvero soffici, poiché le sentivo nodose e dolenti. Entrambe le mie mani, nel momento stesso in cui le contemplavo e le flettevo, si incurvarono prese da un crampo che mi fece gemere. Il gemito fu forte abbastanza per causare una qualche reazione da parte di Chiv, ma ella non si materializzò fuori del fumo azzurrognolo intorno a me, nemmeno dopo che l'ebbi chiamata per nome svariate volte. In che cosa l'aveva trasformata il filtro? Era logico supporre, semplicemente in base al principio del rovesciamento delle parti, che Chiv fosse diventata un uomo, essendo io diventato una donna. Ma l'hakim aveva detto che Majnun e Laila si erano divertiti, a volte, ad appartenere entrambi allo stesso sesso. In ogni modo, lo scopo principale del filtro era quello di accrescere il godimento sessuale di entrambi, e, da questo punto di vista ritenni che il filtro sperimentale fosse un fiasco. Nessun compagno - maschio, o femmina, o invisibile - avrebbe voluto accoppiarsi con una creatura grottesca come quella nella quale mi ero trasformato. Ma in ogni modo, che cosa "era stato" di Chiv? La chiamai ancora e ancora... e poi urlai. Urlai perché un'altra sensazione aveva squassato il mio corpo, una sensazione più raccapricciante della mera sofferenza. Un qualcosa si era "mosso", un qualcosa che non era me stesso, ma che aveva cominciato a muoversi "entro di me", entro quel gonfiore mostruoso costituito dal mio ventre. Sapevo che non si trattava semplicemente di cibo non digerito entro lo stomaco, poiché la cosa accadeva in qualche punto sotto lo stomaco. E non era cibo mal digerito a causarmi aria nelle viscere, poiché avevo conosciuto altre volte quella sensazione. No, questo era qualcosa di diverso, qualcosa che non avevo mai sperimentato prima. Sembrava che avessi ingerito qualche piccolo animale addormentato, e che esso fosse passato fino agli intestini, per poi destarvisi all'improvviso, stiracchiandosi e sbadigliando. Dio mio, pensai, e se tentasse di fuggire e di trovare una via d'uscita? Proprio in quel momento tornò a muoversi ed io urlai ancora, poiché parve sul punto di fare precisamente questo. Ma non lo fece. Il movimento cessò rapidamente ed io mi vergognai di aver gridato. L'animale poteva essersi semplicemente voltato un po' nella sua nicchia, come per valutare
fino a qual punto vi fosse inestricabilmente trattenuto. Sentii un rinnovato umidore tra le gambe e pensai di essermi bagnato di nuovo per la paura. Ma quando abbassai la mano là sotto, incontrai qualcosa di più orribile dell'urina. Portai la mano davanti agli occhi e vidi che le dita sembravano palmate a causa di una sostanza vischiosa che si allungava a filamenti tra la mano e l'inguine, umidamente allungandosi e penzolando e vischiosamente spezzandosi. La sostanza era bagnata, ma non liquida; si trattava di una grigia melma, come il muco che cola dal naso, con striature di sangue. Cominciai a imprecare contro l'Hakim Mimdad e il suo sacrilego filtro. Non soltanto il medico e il suo intruglio mi avevano dato un brutto corpo di donna, un corpo che aveva ovviamente parti femminili difettose, ma, per giunta, una qualche malattia affliggeva quel corpo, causando una perdita nauseante dalle parti intime. Se il mio nuovo tegumento era davvero malato o lesionato, pensai, avrei fatto meglio a non mettermi in piedi per andare a farmi vedere da Chiv. Sarebbe stato preferibile restare disteso dove mi trovavo. Pertanto la chiamai ancora, ma sempre senza alcun risultato. Cominciai persino a chiamare Shimon, sebbene riuscissi a immaginare quanto avrebbe sghignazzato e ridacchiato l'ebreo vedendomi con forme femminili. Ma nemmeno lui venne, e a questo punto mi pentii di averlo pagato in anticipo per potermi trattenere a lungo. Qualsiasi strepito o grido egli potesse udire nella stanza, lo avrebbe probabilmente scambiato per un chiassoso e tumultuoso fare all'amore, e non sarebbe intervenuto. Per molto tempo rimasi lì, supino, e non accadde altro a parte il fatto che la stanza divenne sempre più calda, ed io madido di sudore, e che, alla necessità di urinare si aggiunse anche la necessità di defecare. Poteva darsi che l'immaginato animaletto entro di me stesse premendo con il proprio peso contro la vescica e contro gli intestini, schiacciandoli in modo intollerabile. Dovetti compiere un deciso sforzo per non mollare, ma resistetti, in quanto non volevo insozzarmi tra le gambe e insozzare il letto dappertutto. Poi, all'improvviso, come se una porta fosse stata spalancata sulla neve in disgelo all'esterno, venni pervaso completamente da un freddo intenso. La pellicola di sudore sul mio corpo divenne gelida. Tremavo in tutte le membra, mi battevano i denti, avevo la pelle d'oca dappertutto, e i capezzoli, già turgidi in precedenza, stavano ritti come sentinelle. Non avevo niente con cui coprirmi; se anche i panni che mi ero tolti si trovavano ancora sul pavimento, non li vedevo e non potevo arrivare fino ad essi, e l'idea di alzarmi e di cercarli mi terrorizzava. Ma poi anche quel gran freddo scomparve improvvisamente e la stanza divenne soffocante come prima e ricominciai a sudare e a respirare a stento, ansimando. Non avendo molto altro su cui meditare, cercai di valutare i miei stati d'animo. Erano molteplici e vari. Sentivo una certa eccitazione: il filtro aveva agito, per lo meno in parte. Mi pervadeva una certa aspettativa: il filtro avrebbe forse causato altri effetti e sarebbero potuti essere interessanti. Ma quasi tutte le mie emozioni non erano affatto piacevoli. Mi dominavano sensazioni di disagio; continuavo ad avere crampi alle mani, e la necessità di evacuare gli intestini stava diventando intollerabile. Mi dominava il disgusto: dalla mia mihrab continuava a colare quella sostanza vischiosa, simile a pus. E inoltre ero indignato: per essere stato posto in quella situazione. E mi autocompativo: perché venivo lasciato completamente solo a sopportarla. Inoltre mi sentivo in colpa: avrei dovuto essere al karwansarai per dare una mano ai miei compagni a fare i bagagli e a portare a termine i preparativi per riprendere il viaggio, anziché indulgere alla mia demoniaca curiosità. Ero in preda alla paura, in quanto non sapevo in realtà che altro ancora avrebbe potuto riservarmi il filtro... e mi dominava l'apprensione: qualsiasi cosa potesse ancora accadere, non si sarebbe trattato certo di un miglioramento rispetto a quanto era già accaduto. Poi, in un attimo paralizzante, ogni altro stato d'animo si dileguò, abolito, demolito dalla sensazione che prevale su ogni altra cosa, la sensazione del dolore. Fu un dolore dilaniante che mi dilagò nelle viscere lacerandole, e avrei quasi potuto pensare di essere riuscito a udirne il suono, come il lacerarsi di una tela robusta, se non avessi udito, invece, soltanto il mio urlo straziato. Mi sarei artigliato il ventre che mi tradiva, ma la sofferenza mi scuoteva a tal punto che dovetti afferrarmi a entrambi i lati del dondolante letto hindora per non esserne sbalzato fuori.
In ogni accesso di sofferenze strazianti, si tenta istintivamente di muoversi, nella speranza che un qualche movimento possa alleviare il dolore, e l'unico movimento che riuscii a compiere consistette nel flettere le gambe. Il brusco cambiamento di posizione mi impedì di dominare i muscoli più profondi e l'urina zampillò con un improvviso tepore bagnato, scorrendomi sulle natiche. Anziché diminuire rapidamente, la sofferenza se ne andò adagio, confondendosi con un alternarsi di ondate di calore e di gelo. Sussultavo man mano che ogni febbrile vampata di caldo cedeva il posto alla morsa del gelo e quest'ultima lo cedeva una volta di più alle vampate. Quando questo alternarsi pulsante cessò, infine, a poco a poco, lasciandomi fradicio di sudore e di urina, giacqui infiacchito e flaccido e ansimante, come se fossi stato fustigato, e, ora che riuscivo a pronunciare parole, gridai a gran voce : «"Che cosa mi sta succedendo?"» E poi capii. Guardate: lì sul giaciglio si trova una donna, supina, e quasi tutto il corpo è normale, per giunta curvato e foggiato soltanto come dovrebbe esserlo il corpo di una donna, eccezion fatta per l'orrenda prominenza dell'addome gonfio. La donna giace con le gambe flesse e divaricate, esponendo una mihrab che è resa gonfia e intorpidita dalla tensione. Qualcosa si trova là, entro di lei. E' questo a ingrossarle il ventre e si tratta di qualcosa di vivo, e lei lo ha sentito muoversi entro di sé, e ha sentito le prime fitte del desiderio della creatura di uscire di là; e da dove può venir fuori se non dal canale della mihrab che ella ha tra le gambe? Si tratta ovviamente di una donna in avanzato stato di gravidanza e sul punto di partorire. Va benissimo questo punto di vista indifferente e freddo e distaccato. Ma io non ero un qualsiasi spettatore intento a guardare; mi identificavo con la creatura "guardata". L'essere commovente che si torceva adagio sul giaciglio, nell'atteggiamento assurdo e con lo stesso aspetto di una ranocchia rovesciata sul dorso, ero "io". Gesù, Maria e Giuseppe, pensai - e allentai la presa della mano su un lato del giaciglio per farmi il segno della croce - come aveva potuto, il filtro, fare di me due esseri e metterne uno dentro l'altro? Qualsiasi cosa si trovasse entro di me, dovevo passare attraverso l'intero processo del parto? Quanto tempo occorreva per questo? Che cosa si poteva fare per favorirlo? Oltre a pensare queste cose, pensavo ad altre cose, meno riferibili, concernenti l'Hakim Mimdad e lo mandavo all'inferno per l'eternità. Questo era forse poco assennato da parte mia, poiché mai come in quel momento avevo avuto bisogno di un hakim. Alla nascita non mi ero mai avvicinato più che in quell'una o due occasioni nelle quali avevo veduto dragare dalle acque di Venezia un neonato dalla pelle azzurrognola e viola, un esserino gonfio, come se fosse stato flagellato. Non ero mai stato presente mentre sia pur soltanto una gatta randagia partoriva. I più smaliziati ragazzi veneziani della chiatta avevano parlato a volte di queste cose, ma di quanto mi era stato detto riuscivo a ricordare soltanto l'accenno alle «doglie del parto», e, a questo riguardo, non mi occorreva ormai più alcun insegnamento. Sapevo inoltre che le donne perivano spesso, partorendo. E se fossi morto in quel corpo estraneo? Nessuno avrebbe mai saputo chi ero. Sarei stato seppellito come una creatura senza nome, non reclamata da alcuno, probabilmente una sgualdrina non maritata, uccisa dal suo stesso bastardo... Ma avevo preoccupazioni più immediate della sepoltura dei miei miseri resti. Il dolore lancinante ricominciò e fu violento e pervadente come prima, ma digrignai i denti e non gridai, e addirittura tentai di analizzarlo. Sembrava cominciare in profondità nell'addome, in qualche punto verso la spina dorsale, e aprirsi una strada, dilaniando, verso la parte anteriore del corpo. Poi ebbi un momento di tregua durante il quale respirare di nuovo prima che il dolore tornasse all'assalto. Ad ogni ondata successiva, sebbene la sofferenza non diminuisse, mi sentivo un po' più capace di sopportarla. Tentai pertanto di valutare l'intensità delle fitte e la durata degli intervalli. Ognuna di esse si protraeva quanto bastava perché io riuscissi a contare adagio fino a trenta o a quaranta, ma quando cercai di stabilire la durata dei momenti intermedi di sollievo, mi confusi e perdetti il conto. Altre sofferenze contribuivano ad accrescere la mia confusione. O la stanza, o io stesso, seguitavamo a passare da una calura febbrile al gelo, e ora mi sentivo arrostire fino ad una molle inerzia, ora mi sentivo paralizzare dal freddo. E il mio ventre, in qualche modo, a parte gli altri
tormenti, trovava anche spazio per la nausea. Ripetutamente ruttavo e avevo conati, e varie volte dovetti lottare contro il vomito. Continuavo a urinare in modo incontinente ogni qual volta i dolori mi assalivano e soltanto mediante una decisa contrazione muscolare riuscivo a non vuotarmi anche gli intestini. L'urina che mi lasciavo sfuggire doveva essere caustica; mi infiammava le cosce e l'inguine e le natiche, facendole bruciare come se fossero scorticate. Per giunta, mi era venuta una sete tormentosa, da fare impazzire, probabilmente perché avevo pisciato e sudato troppo, esaurendo tutti i miei liquidi interni. Le mani continuavano ad essere aggredite da crampi spasmodici, e la stessa cosa cominciò ad accadermi, adesso, anche alle gambe, a causa della posizione sguaiata nella quale le tenevo. Persino il contatto del letto contro la schiena era irritante. In effetti soffrivo dappertutto, anche nella bocca; era spalancata, bloccata in un rictus talmente distorto che le labbra stesse mi dolevano. Riuscivo quasi ad essere lieto quando le doglie del parto mi destavano le viscere; erano così tremendamente peggiori che distoglievano la mia mente dai dolori meno intensi. Mi ero rassegnato alla consapevolezza che nessun godimento mi sarebbe venuto dall'aver bevuto il filtro. Adesso, mentre le ore interminabili si susseguivano l'una all'altra, cercai di rassegnarmi e di sopportare, invece, ciò che il filtro aveva causato - la sete e la nausea, la sozza incontinenza e l'ininterrotto soffrire, variato da spasmi intermittenti che mi facevano sobbalzare - fino al momento in cui il potere del filtro si sarebbe esaurito, facendo sì che io tornassi ad essere me stesso, o fino a quando esso mi avrebbe assediato con altre e diverse torture. E fu proprio quello che accadde. Quando le doglie non stavano spremendo da me altri zampilli di urina, pensai che il mio corpo fosse stato svuotato, finalmente, di tutti i suoi fluidi. Ma, all'improvviso, sentii la parte inferiore di me inondata da più liquidi di quanti ne avessi emessi fino ad allora, una piena di liquido, come se qualcuno mi avesse versato il contenuto di una brocca tra le gambe. Il liquido era caldo come urina, ma quando mi sollevai in parte, per guardare, vidi che la pozza sempre più ampia era incolore. Mi resi conto, inoltre, che quella sorta di acqua non proveniva dalla vescica, attraverso il piccolo orifizio femminile per mingere, ma che colava dal canale della mihrab. E non potei non supporre che questo disastro segnalasse qualche nuovo e ancor più sudicio stadio del processo eccessivamente sudicio del parto. I dolori addominali si susseguivano adesso a intervalli sempre più ravvicinati, dandomi appena il tempo di riprendere fiato dopo ogni assalto e di prepararmi, irrigidendomi, prima del successivo assalto. Questo mi indusse a pensare: forse è il tuo puntellarti contro ogni fitta, il tentativo di sottrarti ad esse, a renderle tutte così dolorose. Forse, se tu affrontassi coraggiosamente ogni spasimo e lo sconfiggessi... Così, misi alla prova questo espediente, ma «sconfiggere», in quella situazione, significava esercitare la stessa spinta muscolare che entra in giuoco nella defecazione, e il risultato fu identico. Quando lo spasimo particolarmente lancinante fu di nuovo, e soltanto per breve tempo, cessato, mi accorsi di avere espulso sul letto, tra le mie gambe, una considerevole e disastrosa quantità di fetida merda. Ma in realtà me ne infischiavo, ormai. Mi limitai a pensare: sapevi già che la vita umana termina con la merda; ora apprendi che comincia, altresì, con la merda. «Ad essi appartiene il Regno dei Cieli.» Ricordai all'improvviso di aver predicato queste parole, non molto tempo prima, al nostro schiavo Narice. «Lasciate che i pargoli vengano da me» recitai, e scoppiai a ridere dolorosamente. Ma non risi a lungo. Sebbene sia quasi incredibile, la situazione, a questo punto, peggiorò ancor più. Le fitte si susseguivano ormai non più a ondate o a impulsi intervallati, ma in rapida successione, e ognuna di esse durava più di quella precedente, finché si tramutarono in un unico e costante strazio nel mio ventre, uno strazio incessante, e di intensità crescente, tanto che, in ultimo, singhiozzai e uggiolai e gemetti senza vergognarmi, e temetti di non poter più sopportare il supplizio, e mi augurai, con tutta la speranza di cui ero capace, un misericordioso svenimento. Se qualcuno si fosse chinato su di me in quel momento e avesse detto: «Questa è una bazzecola. Puoi soffrire molto di più di così, e soffrirai di più», sarei riuscito, anche in quei tormenti, a inserire una risata tra i singhiozzi. Ma quel qualcuno avrebbe avuto ragione. Sentii la mihrab cominciare ad aprirsi e a distendersi come una bocca sbadigliante, e le sue labbra continuarono a discostarsi, finché, in ultimo, dovettero tramutare l'orifizio in un vero e proprio
circolo, come una bocca urlante. E, come se questo non fosse un tormento sufficiente, l'intero perimetro della circonferenza parve essere spalmato all'improvviso con fuoco liquido. Portai una mano là sotto, per metterla disperatamente sulla fiammata, ma non sentii nulla che scottasse; soltanto qualcosa di viscido. Riportai la mano davanti agli occhi e scorsi, attraverso le lacrime, che le dita erano insudiciate da una sostanza di un verde pallido che aveva la consistenza del formaggio molle. Come poteva bruciare fino a quel punto? E anche in quel momento, oltre alla sofferenza dilaniante nel ventre e al bruciore incandescente all'inguine, riuscii a sentire altre cose orribili: il sapore del sudore che, dalla faccia, mi scorreva nella bocca, e quello del sangue, là ove, a furia di morderle, mi ero scorticato le labbra. Udii i miei grugniti e i gemiti e gli ansiti che mi squassavano tutto il corpo. Percepii il fetore dei miei escrementi. Sentii la creatura entro di me muoversi ancora e, a questo punto, rotolare su se stessa e scalciare e agitare le braccia mentre poderosamente si apriva un varco attraverso gli spasimi nel ventre, avvicinandosi alla vampata sottostante. Muovendosi, premette in modo ancor più intollerabile sulla vescica e sulle budella, che, non so come, trovarono qualcos'altro da svuotare. E, attraverso quell'ultima emissione di urina e di feci, la creatura cominciò a uscire. "Ah, Dio", quando il Signore decretò «Partorirai con gran dolore», il Signore fece in modo che così fosse. In precedenza avevo conosciuto sofferenze di poco conto, e ho conosciuto altre sofferenze in seguito, ma, secondo me, non esistono al mondo dolori come quelli che stavo provando in quei momenti. Ho veduto torturare esseri umani, da uomini esperti nella tortura, ma credo che nessun uomo sia crudele nell'infliggere sofferenze quanto lo è Dio. Quella sofferenza era formata da due tipi diversi di dolore. Uno era quello della carne della mihrab che si lacerava, anteriormente e posteriormente. Prendete un brandello di carne viva e dilaniatelo, spietatamente ma adagio, e cercate di immaginare che cosa deve sentire la pelle, e poi immaginate che si tratti della pelle tra le vostre gambe, dall'inguine all'ano. Mentre mi stava accadendo proprio questo, facendomi urlare, la testa della creatura entro di me stava aprendo un varco tra le ossa che la racchiudevano là sotto, e questo mi faceva muggire tra un urlo e l'altro. Le ossa della parte inferiore del tronco sono molto vicine le une alle altre; devono essere scostate, ancora e ancora, con un attrito e un raschìo come quello di un macigno che, implacabilmente, passi attraverso una fenditura troppo stretta della roccia. Ecco quello che io sentivo, e che sentivo continuamente: il movimento sconvolgente e la sofferenza entro di me, lo stridere e l'incurvarsi di tutte le ossa del bacino, il lacerarsi bruciante della carne all'esterno. E Dio voleva che, anche in quell'estrema sofferenza, mi limitassi a urlare e a gemere; senza perdere i sensi per sottrarmi all'intollerabile tortura. Non svenni finché la creatura non fu sbucata fuori, con un'ultima spinta brutale - e la testa brunoscura si sollevò tra le mie cosce, viscida di sangue e di muco, e disse, con la voce di Chiv, malignamente : «Qualcosa che non potrai smarrire così facilmente...» Allora mi parve di morire.
5. Quando ripresi conoscenza, ero di nuovo me stesso. Continuavo ad essere nudo e supino sul letto hindora, ma ero di nuovo un maschio e il corpo sembrava appartenermi. Mi rivestiva una schiuma di sudore asciutto e avevo la bocca terribilmente secca e arsa, e un'emicrania martellante, ma non sentivo dolore in alcun'altra parte di me. Sul pagliericcio non esisteva alcuna schifosa traccia dei miei escrementi; esso rimaneva pulito come sempre. Il fumo si era quasi completamente dileguato nella stanza e vidi gli indumenti che avevo lasciato cadere sul pavimento. Anche Chiv si trovava lì, vestita di tutto punto. Ingobbita, stava avvolgendo qualcosa, dal colore azzurrognolo e violaceo, nella carta entro la quale avevo portato l'hashish. «E' stato tutto un sogno, Chiv?» domandai. Ella non parlò né alzò gli occhi, ma continuò a fare quello che stava facendo. «A te che cosa è accaduto, Chiv?» Non mi rispose. «A me è sembrato di
avere un bambino» dissi, disdegnando la cosa con una risata. Nessuna risposta. Soggiunsi: «Tu eri dentro di me. Eri tu il bambino.» A queste parole ella alzò la testa, e il viso di lei assunse quasi la stessa espressione che aveva avuto nel sogno, o in quella qualsiasi altra cosa che poteva essere stata. Poi Chiv domandò: «Avevo la pelle bruno-scura?» «Be', sì.» Chiv scosse la testa. «I bambini dei Romm diventano bruno-scuri soltanto in seguito. Hanno lo stesso colore dei bambini delle donne bianche, quando vengono alla luce.» Si raddrizzò e portò il pacchetto fuori della stanza. Quando la porta si aprì, mi stupii scorgendo la luminosità della luce del giorno. Ero forse rimasto lì per tutta la notte e fino al giorno successivo? I